Caffe' Europa
Attualita'



Letti per voi/La caldaia spenta del sabato



Aldo Zargani


Articoli collegati:
Giornata Europea della Cultura Ebraica
"Dobbiamo metterci sempre in discussione"
Continuità e trasformazione
Tra memoria e storia
Il nomade teatrante
Rai Educational/Ebraismo e modernita’
Letti per voi/La caldaia spenta del sabato
Il dovere della testimonianza
Recensione/L’Arpa di Davita
Letti per voi/Una donna contro l'ortodossia
Mini antologia di letteratura ebraica
La musica è la spiritualità di un popolo
Itinerario/Musica Klezmer
L'arte ebraica in Italia
Itinerario/Ebraismo online



Questo articolo è stato ripreso dalla rivista online Igaion  dopo essere apparso su "Lettera Internazionale", n° 61, anno 15, 3° trimestre 1999

"Senti un po’ che cosa mi è capitato l’inverno scorso a Manhattan. Nei dintorni della quarantottesima. Faceva freddo…"

Il mio amico, un fisico nucleare non ebreo, cominciò così a raccontarmi il suo incontro con l’ortodossia ebraica normale che lui però, sbalordito, scambiava per integralismo.

"…faceva freddo, e, mentre correvo lungo i muri per evitare il vento dell’Hudson, ho incontrato un signore mai visto, con la barba, vestito di nero, che sembrava mi facesse strani cenni di intesa. Sì, ammiccava proprio a me, e, quando risposi incerto e stupito, lo sconosciuto mi chiese per prima cosa di quale religione io fossi, e sospirò di sollievo alla notizia che, benché non praticante, ero cattolico e proprio per questo motivo (lo capii subito ma non comprendevo il perché) mi invitò a seguirlo. La curiosità vinse la titubanza tanto che mi trovai con lo strano figuro dentro una Sinagoghetta ghiacciata gremita di ebrei barbuti e nerovestiti che tremavano per il freddo. Apparvero sollevati della mia comparsa, interruppero le loro giaculatorie, o come diavolo chiamate voi le vostre preghiere, soffiandosi sulle mani arrossate per il gelo, e coralmente mi indicarono vocianti uno sgabuzzino nel quale c’era una caldaia, spenta: ‘Lei, che non è ebreo, ce la può riaccendere per favore?’ Durante le funzioni del Sabato era andata in blocco, ma l’osservanza del Santo Riposo… gli proibiva di riaccenderla, pensa tu. Se non avessero trovato un Gentile cortese, un estraneo compiacente che si prestasse alla bisogna per loro impossibile di premere col dito indice sul pulsante rosso con sopra scritto ON…".

Il mio amico commentava la sua vicenda newyorkese - strana per lui ma non per me: quei miei correligionari americani non erano per niente dei fanatici come apparivano a lui, ma solo ebrei osservanti che si erano trovati nella necessità di avvalersi della buffissima ma consolidata istituzione del "goi del sabato". Con volto mesto mi associavo alle proteste del mio amico contro: "… l’integralismo che si manifesta in tutte le religioni!", ma intanto riflettevo su alcune considerazioni che non mi sentivo però sul momento di comunicargli, per brevità, e, soprattutto, per non deludere la sua sfuriata laica.

L’ebraismo come cultura complementare

La storia del pulsante rosso mi appariva il simbolo di un fatto tutt’altro che isolato, una specie di allusione a qualcosa di assai profondo, profondo e radicato, che riguarda l’ebraismo, non solo come religione, ma come cultura lungo tutta la sua storia millenaria. La caldaia spenta riguarda anche me.
Se quel gruppo di religiosi, pensavo, si fosse trovato a Gerusalemme invece che a Manhattan, in una realtà immaginaria popolata tutta di rigoristi, senza "empi", cioè non osservanti, senza arabi e senza neppure turisti goi, quale dito avrebbe potuto premere il pulsante ON?

Gli antichi romani non avevano bisogno di Germani o Galli che gli tenessero acceso il fuoco di Vesta. Sappiamo che quell’Impero cadde per le sue spaventevoli aporie, ma non mostrò mai carenze di autosufficienza culturale, né risultò mai complementare al resto del mondo, che infatti fagocitò fino a morirne di indigestione.
La medesima naturale tendenza a comprendere tutto è stata ereditata dalle due grandi religioni monoteistiche che pure, in parte, sono figlie dell’ebraismo: né l’islamismo né il cristianesimo mostrarono mai alcuna titubanza ad annettersi l’universo, e non manifestano, nelle imponenti culture che hanno generato, nessuna mancanza di autosufficienza. Il giudaismo invece, come si sa, appare fin dal principio perennemente in difesa dagli altri, costantemente nel pericolo di scomparire perché sempre nella necessità di vivere all’interno di un mondo estraneo.

E' possibile dunque che sia una cultura la quale si avvale dell’estraneità degli altri? Potremmo allora, almeno in via provvisoria, riconoscere come caratteristica precipua del giudaismo una sorta di non autosufficienza nei confronti delle altre culture?
Non è un difetto, ma una qualità primaria, che viene forse prima cioè di certe clamorose scoperte che abbagliano l’osservatore come quelle del monoteismo, della giustizia, dell’unità del mondo e dell’uguaglianza degli uomini. Scoperte critiche che sembrano quasi derivare da un prius, dall’osservazione spietata dei difetti del mondo: "Uomini siate e non pecore matte, sicché il giudeo di voi tra voi non rida…" sentenziava il padre Dante, certamente esente da qualsiasi forma di antisemitismo, come dimostrano, fra l’altro, tutti gli endecasillabi della sua Commedia.

Proviamoci dunque a esaminare la mancanza di autosufficienza, e cioè la complementarità culturale, quale caratteristica precipua, forse provvidenziale, di questa strana cultura e di questo strano popolo.
Si tratta di un destino, quello degli ebrei, non unico, come sappiamo, anche se assai emblematico, che fu analizzato da molti pensatori. Simone de Beauvoir ne "Il secondo sesso" parla degli ebrei come di un’alterità immanente, tale da rendere confrontabile la condizione ebraica con la condizione femminile.

Quando si parla di ebraismo, si incorre spesso - come nei dibattiti filosofici, e probabilmente non è casuale neppure questa stranezza - in una sorta di atemporalità: si citano come se fossero attuali avvenimenti e situazioni di migliaia di anni fa. Del resto, fino alla chiusura del canone biblico, religione, cultura, politica, storia formavano un tutt’uno inscindibile; e ancor oggi gli ortodossi rivendicano l’unitarietà assoluta del modo di pensare e di agire ebraico.
Ecco dunque, fra i tanti, alcuni eventi esemplari ma così antichi che potrebbero essere dimenticati se non costituissero allusioni, sia pur controverse, all’intrinseca e innata complementarità della cultura ebraica.

L’incubo dell’estinzione

Davide, è la Bibbia che parla, compra l’aia della cascina di un indigeno di Gerusalemme tutt’altro che ebreo, per farne il luogo dove sorgerà il Tempio: "Io voglio comprare da te queste cose per il prezzo che valgono, né voglio offrire sacrifici al Signore mio Dio gratuitamente". Non sarà Davide a erigere il Tempio, ma il figlio Salomone - ebreo a metà? - il quale affiderà la direzione dei lavori del Santissimo ad architetti fenici.
E questa storia dell’acquisto e dell’affitto di campi e campetti è un topos - sembra una svista ma certamente non lo è - che più volte si incontra nelle Scritture. E le conquiste crudeli? Gli stermini spietati? Gli incessanti ritorni? La Terra Promessa, perduta e riconquistata più volte, risulta sempre abitata, anzi posseduta, da "altri", ai quali ci si rivolge per acquisti o per affitti, con i quali si tratta, necessariamente, da pari a pari.

Johanan ben Zakkai - il fondatore del giudaismo rabbinico da cui discendono per li rami gli ebrei di New York e la loro caldaia - un migliaio e più d’anni dopo il compromesso d’acquisto di Davide, nel 70 della nostra era, fugge da Gerusalemme già condannata a morte dal localismo degli zeloti, col Tempio già incendiato, e si precipita da Tito per chiedergli il permesso di aprire una scuoletta a Javneh: Tito risponde di sì, e di quel favore noi ebrei moderni siamo i discendenti.

All’epoca di Mosè, durante l’Esodo, i nostri padri nel deserto rimpiangevano l’Egitto - è possibile provare nostalgia per un atroce servaggio? - e mio nonno rimpiangeva il ghetto che aveva intravisto da bambino attorno al 1870, poco prima che quel quieto focolare di non autosufficienza ebraica si spegnesse.
Certo, la non autosufficienza, la complementarità, si accompagna al terrore di sparire, di non esserci, si accompagna alla ricerca spesso esasperata della propria identità, ma ciò avviene perché l’intrinseca capacità di entrare in simbiosi con altre culture mette continuamente in gioco il giudaismo, lo espone a pericoli che gli altri, nella loro arroganza, neppure intravedono: gli ebrei non praticano il proselitismo, che costituisce invece la perenne minaccia alla quale essi stessi sono esposti. Così il divieto dei matrimoni misti presuppone la vita in una società mista nella quale l’etnia ebraica è di fatto mescolata con le altre, e anzi anche tollerata visto che non ci sposa di norma con nemici sanguinari. Ma nei confronti di quelle società è indispensabile erigere barriere contro la sparizione totale.

Continuando questa panoramica atemporale della non autosufficienza intesa come grandezza primaria della cultura ebraica, torniamo all’epoca di quando il nostro Johanan chiedeva a Tito il permesso di aprire la sua scuola. Negli stessi giorni troviamo Giuseppe Flavio, uno dei capostipiti del laicismo ebraico, che dedica la sua esistenza alla lotta contro il fanatismo degli zeloti, fiduciosi fino al suicidio nell’autosufficienza del giudaismo. Ma Giuseppe Flavio si adopera anche per spiegare al mondo antico la realtà degli ebrei con opere letterarie - in greco - destinate appunto "agli altri". Lo scrittore de "La guerra giudaica" è dunque l’inizio di una lunga storia della Diaspora che vede nella complementarità della propria cultura la traccia per la sua salvezza.

Il sionismo e la Shoah

Se si arriva d’un balzo ai nostri giorni, quelli precedenti e successivi alla Shoah, ci si imbatte in manifestazioni dell’ebraismo che ne esaltano le caratteristiche di complementarità anche in un mondo fattosi così ostile.
La rivoluzione sionista presuppone che la soluzione del problema ebraico consista nella creazione di uno stato autonomo sì, ma, come tutti gli altri, laico e liberale. La componente socialista (menscevica) di questa rivoluzione va ben oltre: la redenzione del popolo ebraico non consiste semplicemente nella rinascita statuale, ma soprattutto nel riaccendersi della lotta di classe per far sì che, attraverso il naturale rancore dei poveri contro i ricchi, gli ebrei diventino finalmente uguali agli altri popoli.

La tragedia della Shoah, nonostante le sue raccapriccianti dimensioni, ha rivelato, nel corso di pochi anni, quanto siano profondi gli istinti di complementarità del popolo ebraico. Così - mentre si compiva il disegno sionista con l’uscita dall’Europa di centinaia di migliaia di superstiti - gli ebrei ricorrevano ai tribunali "degli altri" (tedeschi, italiani, polacchi, romeni, sovietici, francesi…) per ottenere giustizia dei crimini orrendi dei quali erano stati vittime.

Il lavoro dei tribunali "degli altri" si svolgeva fra indulgenze e compromessi, e intanto gli ebrei imitavano Giuseppe Flavio nello spiegare "agli altri" la propria identità. È a questo universale ricorso alla parola scritta che si deve l’impressionante dimensione della componente ebraica nelle letterature europee e americana dopo la seconda guerra mondiale? È questo anche il motore della letteratura israeliana che spiega gli ebrei agli ebrei, ma si rivolge soprattutto, nelle innumerevoli traduzioni, "agli altri"? Isaac Bashevis Singer scriveva in yiddish e poi traduceva in inglese con l’aiuto di Bellow, Malamud e Philip Roth.

Nessun punto interrogativo si pone invece agli obiettivi espliciti della memorialistica e della storiografia della Shoah, che sono gli strumenti attraverso i quali gli ebrei hanno combattuto - e vinto, nei limiti in cui era possibile farlo - l’impari battaglia di rendere coscienti i popoli dei persecutori dei crimini imperdonabili che erano stati commessi da assassini che agivano in nome loro. Complementarità.

Tra laicismo e religione

La rivoluzione sionista è l’ultimo episodio di una serie nella quale concezioni estranee in origine alla cultura e alla tradizione ebraica ne hanno però profondamente influenzato dall’interno la storia successiva.
La rivoluzione liberale, borghese, la rivoluzione socialista hanno sì portato alla fondazione di Israele - avvenuta contro il parere dei religiosi e anche del cosmopolitismo della Diaspora occidentale - dentro il quale Stato però si annidano ora non solo una parte cospicua del popolo ebraico con le sue innumerevoli etnie, ma altresì il pluralismo talvolta contraddittorio della sua cultura, anzi delle sue culture.

Lo scontro in atto fra laicismo e religione è quindi anche il confronto tra rivoluzioni che vengono da fuori e una tradizione non spenta. O meglio va visto come il confronto fra la complementarità della cultura ebraica e la ricerca disperata della sua autosufficienza. Questo dibattito non riguarda solo Israele ma implica tutti gli ebrei del mondo con sconvolgenti lacerazioni che giungono fino a scindere la coscienza e l’identità di ognuno di noi. È da questo dramma che nascono risposte di adesione al globalismo, fenomeno d’oggi così vicino alle inclinazioni universalistiche e cosmopolite dell’ebraismo, e, per converso, il micidiale rinserrarsi nel particolarismo, nel nazionalismo estremo o nell'arida osservanza ritualistica, presenti da sempre come risposta della tradizione ebraica alle sfide esterne.

Abbiamo così la visione di un ebraismo che nella sua storia trova momenti alti nelle simbiosi con le altre culture e momenti meno felici nel suo ritrarsi nella negazione del mondo. Un ripudio che solo superficialmente assume gli aspetti del nazionalismo estremo o del particolarismo religioso ma che in realtà costituisce una caratteristica innegabilmente presente nella cultura ebraica, quella estrema di rifiutare la realtà.
Il pensiero ebraico nel suo complesso deve la sua grandezza al moto incessante fra questi due poli, sempre presenti all’interno del giudaismo, ineliminabili come i poli magnetici.

Una storia fatta di simbiosi

"Nahamu, nahamu, consoliamoci, consoliamoci" così, con queste parole di conforto, comincia la profezia che accompagna il popolo ebraico nel momento doloroso dell’esilio di Babilonia, che non sarà però solo un esilio, ma anche una trionfante simbiosi del giudaismo con una grande cultura dell’antichità.
In ricordo di un’altra simbiosi, quella con l’Egitto, Sigmund Freud, sulle soglie della catastrofe, di fronte al cadere sanguinoso della civiltà giudaico-tedesca, scrive, nel 1939, il suo "Mosè". Il padre della psicanalisi vuole dimostrare che il grande profeta era in realtà un egiziano, e gli ebrei, nell’acquisirne la forza rivoluzionaria che avrebbero sempre portato dentro di sé, ne avevano distrutto ogni traccia in un’opera di cannibalismo culturale destinata a diventare fondante dell’anima stessa del giudaismo.
Freud nel 1939, in quelle condizioni terribili, venne considerato dagli ebrei poco meno che un traditore, e invece anch’egli, come Geremia, voleva dire al proprio popolo di fronte al più spaventoso degli esili: "nahamu, nahamu, consoliamoci, consoliamoci, nessuno ci può privare del principe egiziano perché egli oramai è dentro di noi…".

La simbiosi egizia, quella babilonese, quella persiana, quella greca, il cui nome oggi in uso è cristianesimo. Da ognuna di queste nascono mondi che l’ebraismo, di buon grado o malgrado, porta dentro di sé, delle quali però nasconde le tracce, nei confronti delle quali non smette mai, nel suo moto pendolare tra universalismo e particolarismo, di identificarsi o di separarsi. Ognuna finisce con una catastrofe: Babilonia viene descritta nella Bibbia come distrutta quand’è ancora in piedi, il cristianesimo viene confuso con l’ellenismo e con esso condannato, la grande stagione d’oro della simbiosi con l’Islam e il cristianesimo di Spagna finisce con la cacciata del 1492. Gli ebrei espulsi non torneranno mai più nella loro patria iberica, ma continueranno fino ai nostri giorni a chiamare se stessi sefarditi, cioè spagnoli.

Un’altra parte del popolo ebraico si chiamerà askenazita cioè tedesca in memoria della simbiosi giudaico-germanica nata nella valle del Reno prima del 1000 e morta a Berlino nel 1933. Come gli ebrei dell’Esodo portavano dentro di sé le spoglie del principe egiziano che li aveva liberati, così ebrei tedeschi riformati diverranno americani ma faranno proprio il retaggio della civiltà che è crollata. Sì, nell’università di Princeton, nel MIT, ad Harward, gli ebrei riformati tedeschi, con dentro di sé il principe d’Egitto, hanno rifiutato per sempre, come Hanna Arendt, di parlare tedesco, hanno creduto addirittura di non pensare più in tedesco, e si sono adattati alla propria complementarità nella nuova simbiosi, nel nuovo sincretismo giudaico-americano.
Mentre la gloria del cristianesimo si fonda su un solo grande fallimento che è quello della morte di Gesù Cristo per mano romana, l’ebraismo si avvale di molti fallimenti, tanti che risulta perfino difficile ricordarli tutti. Che ci stanno a fare in Israele un milione di ebrei russi che gli ortodossi considerano non-ebrei, proprio come facevano Ezra e Neemia nel Deuteronomio con i loro connazionali reduci dall'esilio di Babilonia? Essi portano con sé il retaggio nascosto della "anima slava", il mattone bizantino con il quale contribuiscono all’edificazione dello sconvolgente palazzo della realtà israeliana e delle sue fertili contraddizioni. Contraddizioni universali.

I conti con se stessi

Ecco dunque una conclusione parzialmente quanto inaspettatamente ottimistica. In un’epoca così confusa come la nostra, l’ebraismo si trova, con il suo intrinseco pluralismo, con il suo moto pendolare, di fronte a una nuova sfida che questa volta si presenta tutta al suo interno.
Con il profilarsi di soluzioni di pace con i palestinesi, con l’affievolirsi del secolare antisemitismo nel mondo occidentale - del quale i ripensamenti, seppur timidi, della Chiesa Cattolica costituiscono a un tempo sintomo e causa - l’ebraismo si trova, finalmente! a fare i conti con se stesso. Da una parte quindi l’apertura alle culture del mondo, sfruttando la forza potente del proprio cosmopolitismo, della propria complementarità, dall’altra la coltivazione dell’identità spirituale ebraica, che si realizzi però attraverso il diniego di ogni tentazione rigoristica o etnica o localista. Solo il funzionamento corretto del pendolo ebraico tra universalismo e identità potrà garantirne la sopravvivenza in un mondo futuro che, nonostante sintomi inquietanti, continuiamo a sperare meno inospitale.

Sì, noi ebrei avremo sempre bisogno di qualcuno che ci riaccenda la caldaia al Sabato, ma non ce ne vergognamo, anzi.

Aldo Zargani



Articoli collegati:
Giornata Europea della Cultura Ebraica
"Dobbiamo metterci sempre in discussione"
Continuità e trasformazione
Tra memoria e storia
Il nomade teatrante
Rai Educational/Ebraismo e modernita’
Letti per voi/La caldaia spenta del sabato
Il dovere della testimonianza
Recensione/L’Arpa di Davita
Letti per voi/Una donna contro l'ortodossia
Mini antologia di letteratura ebraica
La musica è la spiritualità di un popolo
Itinerario/Musica Klezmer
L'arte ebraica in Italia
Itinerario/Ebraismo online

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo