Continuità e trasformazione
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David Meghnagi (Tripoli, 1949); membro della Società
Psicoanalitica Italiana e dell’International Psycoanalytical
Association. Insegna psicologia dinamica presso la Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università Roma Tre. Ha condotto studi sui
modelli di socializzazione dell’infanzia, sul plurilinguismo, sulla
psicologia dell’esperienza mistica e religiosa, sull’antisemitismo.
Tra le sue pubblicazioni, "Il Kibbutz, aspetti sociopsicologici",
"La sinistra in Israele", "Modelli freudiani della
critica e teoria psicoanalitica", Freud and Judaism, Il Padre e
la legge (Freud e l'ebraismo). Ha curato per l’editore Masrsilio l’edizione
italiana delle lettere tra Freud e Arnold Zweig, “Lettere sullo
sfondo di una tragedia (1927-1939).
David Meghnagi ragiona secondo un'ottica di lungo periodo, in termini
per così dire “intrapsichici” e “transculturali”. Per questo
qualunque sua considerazione sul processo di trasformazione che
coinvolge (o travolge) la società moderna, e quella ebraica in
particolare, tende ad essere filosofica nel senso più profondo del
termine. "Non sottovaluto i problemi", dice, "ma sono
portato a guardarli in una più ampia prospettiva - o almeno ci
provo".
Da psicanalista, inoltre, Meghnagi vede il cambiamento come
inevitabile, se gestito con strumenti culturali e psicologici
appropriati, e le tensioni, anche quelle che attraversano (e spesso
dividono) la comunità ebraica, come salutari. E considera l'umorismo
la grande risorsa dell'uomo contemporaneo.

Qual è il rapporto tra ebraismo e ortodossia, soprattutto in
Israele?
Innanzitutto va specificato che il termine ortodossia, per quanto
concerne l'ebraismo, non è adeguato; sarebbe più corretto parlare di
“ortopraxia”, appunto perché si tratta di una tradizione
religiosa incentrata sulla prassi. Parlare dell’ebraismo
esclusivamente in termini di religione è un errore. L’ebraismo è
molte altre cose insieme: popolo, cultura, minoranza, meglio ancora in
un’ottica weberiana bisognerebbe parlare di una civiltà ebraica con
una sua logica ben distinta, come ha fatto di recente Eisenstadt, di
un insieme che coinvolge l’organizzazione del tempo e dello spazioe
la riproduzione delle elite.
Del resto il termine religione (dat) è di fatto assente nella Torah
(il Pentateuco). La tradizione rabbinica ha coniato il termine
Halachà per definire l’insieme di leggi e regole che vanno sotto il
nome di Torah orale, da distinguersi da quella scritta. Per la
tradizione rabbinica la Torah orale, frutto del dialogo tra le
generazioni di rabbini, è parte anch’essa della rivelazione
sinaitica, è parola divina nel senso più stretto del termine, anzi
è più importante perché attraverso il commento la parola scritta
riacquista un nuovo significato.
Come è accaduto per altre tradizioni religiose, la secolarizzazione
ha portato alla luce conflitti latenti tra opzioni e scelte diverse.
Il trauma dello sterminio nazista ha come immobilizzato queste
tensioni e conflitti per circa un cinquantennio. Dopo il ’45 gli
ebrei hanno dovuto affrontare una terribile prova, ricostruire le
condizioni minime di un’esistenza normale, salvare l’esistenza
dello stato ebraico, che era appena nato. Il tutto è avvenuto con una
rapidità estrema. In meno di tre anni la quasi totalità dell’ebraismo
polacco e di altre importanti comunità sono state annientate. Poi c’è
stata la guerra tra Israele e i paesi arabi che ne rifiutarono la
nascita. In meno di tra anni lo Stato di Israele con una popolazione
di 6.00.000, ha dovuto assorbire 1.200.000 ebrei metà dei quali, e
oltre, provenienti dai paesi arabi. Lo sforzo unico ha fatto passare
in secondo piano molti altri problemi.
Le tensioni di oggi riportano alla luce problemi che si erano già
posti nell’800, con lo sconvolgimento delle condizioni tradizionali
dell'esistenza. Accanto agli ebrei credenti e religiosi, ve ne sono
altri che si considerano tali senza con ciò essere credenti o
religiosi. Ci sono per così dire anche degli “ebrei psicologici”,
che si considerano tali, e vogliono restare tali, senza con ciò fare
proprio un riferimento di natura religiosa e nazionale. Direi di più,
che con la secolarizzazione, accanto alle tradizionali forme di
identificazione ebraica, ve ne sono altre estremamente variabili e
difficilmente codificabili. Per dirla con Primo Levi ci sono tanti
ebraismi quanti sono li ebrei. Si tratta di un fenomeno che trova le
sue origini nel processo di secolarizzazione che ha investito il mondo
occidentale negli ultimi due secoli e che non coinvolge solo la
tradizione religiosa dell’ebraismo. L’aspetto più specificamente
ebraico è che gli ebrei non avendo un territorio proprio e uno stato,
essendo appunto un popolo diasporico oppresso, che usciva dai ghetti
alla ricerca della libertà, hanno fatto questa esperienza in anticipo
e nel modo più estremo. Da qui i conflitti e le lacerazioni che hanno
fatto la grandezza di Kafka e Benjamin, Proust e Svevo, per non
parlare degli altri. La ricchezza del dibattito che c'era nell'800, la
conflittualità che ha attraversato la vita ebraica soprattutto
nell'Est Europa sono state parzialmente occultate dai processi tipici
dell'idealizzazione connessa al lutto.
Una civiltà quindi che va analizzata nel suo complesso, dunque, e nel
contesto della civiltà umana in generale.
L'identità ebraica non si è sviluppata nel vuoto, è dentro i
processi storici. La specificità ebraica è anche il frutto di
intensi scambi e dialoghi con il mondo esterno. Attraverso lo studio
delle singole identità ebraiche possiamo farci un quadro del modo in
cui è avvenuta nei singoli paesi il passaggio al mondo moderno. Non
voglio con ciò assolutamente dire che l’identità ebraica si
definisca in termini negativi, che a definirla siano solo gli altri,
come pensava per esempio Sartre negli anni cinquanta (ma Sartre si è
poi ricreduto ed ha ammesso l’errore di prospettiva). Voglio al
contrario sottolineare che i tratti più peculiari dell’identità
ebraica, così come si sono andato cristallizzando nel mondo moderno,
sono anche il risultato di processi più ampi che coinvolgono la vita
dei paesi in cui gli ebrei sono vissuti.
Prendiamo ad esempio il caso dell'Italia: l'identità ebraica moderna
in Italia, e questo spiega l'intensità del trauma vissuto dagli ebrei
italiani durante le leggi razziali, è fortemente connessa con il
processo che ha dato vita alla nascita dello Stato italiano. Come ha
sottolineato Momigliano, gli ebrei italiani sono diventati italiani
insieme agli altri italiani, anche se con una loro specificità, che
Gramsci fece difficoltà a comprendere pienamente. Il processo di
emancipazione e di uscita dal ghetto è avvenuto sullo sfondo di un
conflitto radicale tra i fautori dell’unità italiana e le forze che
vi si opponevano, che erano poi quelle che volevano mantenere la
segregazione degli ebrei. Questo spiega la grande presenza degli ebrei
nella vita culturale, civile e sociale italiana alla fine dell'800 e
agli inizi del ‘900, un processo che va avanti anche nel periodo
fascista (un momento di svolta può essere collocato nel ’29, con l’ingresso
dei cattolici nella vita pubblica e l’affermazione di uno statuto
discriminatorio per i cittadini di confessione non cattolica, che si
vedranno di fatto schedati). Agli inizi del '900 troviamo addirittura
esponenti ebrei nella gerarchia militare italiana, il che era
impensabile in altri paesi, e un sindaco ebreo a Roma. Al contrario in
Germania il processo di emancipazione degli ebrei, il loro ingresso
nella vita nazionale è avvenuto sullo sfondo di una rivolta
antimoderna della cultura tedesca, di una contrapposizione violenta
contro i valori dell’illuminismo. In questa logica perversità la
lotta contro la modernità e l’odio contro gli ebrei sono diventati
un tutt’uno.
Al contrario negli Stati Uniti, paese di forte immigrazione, dove in
linea teorica a tutti è data la possibilità di diventare un leader,
il processo di integrazione degli ebrei alla più ampia realtà del
paese, nonostante l’antisemitismo degli anni venti e trenta, è
potuta avvenire sullo sfondo del recupero della propria identità
passata. In un paese di immigrazione, l’origine è un elemento
costitutivo dell’identità, dove si è americani in quanto si. In un
paese di immigrazione come gli USA, l’origine etnica è un elemento
portante della nuova identità. Si è americani non perché si rinnega
il proprio passato italiano, polacco o russo. Per quanto alcune
origini siano state svalutate nel tempo rispetto ad altre, l’origine
entra a far parte più esplicitamente dell’identità nazionale più
ampia. Questo spiega perché all’interno delle comunità ebraiche
degli Stati Uniti sia stata meno traumatica la coniugazione dell’appartenenza
ebraica (anche nazionalitaria) all’appartenenza nazionale più
ampia. Per fare un esempio, in Europa a nessuno verrebbe in mente di
esporre una bandiera israeliana in una sinagoga. In USA può accadere
in una sinagoga riformista e liberal. L’appartenenza religiosa ha
avuto un ruolo particolarmente importante nella società americana, è
stata ed è tuttora un elemento fondante dell’organizzazione
sociale. In questa ottica le religioni sono tutte ugualmente
rispettabili. Questo aspetto caratteristico della vita americana ha
avuto un effetto di ritorno per le stesse associazioni ebraiche più
laiche, di matrice socialiste.
Lei parla di tensioni, anche di quelle interne all'ebraismo, in
termini essenzialmente positivi.
Come insegnava Freud il conflitto è un elemento connaturato
all'esistenza umana. L’essere umano è perennemente in conflitto con
noi stessi, con le proprie identificazioni e controidentificazioni
interiori. Il vero problema per l'essere umano è la regolazione di
tali conflitti, fare appunto in modo che il conflitto non diventi
devastante per il singolo e per la società. Il conflitto può essere
negato o rimosso, ma alla fine riemerge. Da qui la necessità di
regole condivise attraverso cui gestirlo.
Se non c’è conflitto interno si corre il rischio della
cristallizzazione, che è caratteristica dei movimenti fondamentalisti.
Fondamentalismo e ortodossia non sono la stessa cosa. Spesso nel
dibattito culturale c’è una tendenza ad appiattire i due termini,
con gravi conseguenze euristiche e operative. Il fondamentalismo è un
attacco all’ortodossia. L'ortodossia, in ogni tradizione religiosa,
è tendenzialmente più tollerante, appunto perché parla ad un più
ampio numero di fedeli, in quanto deve portare a coerenza fenomeni
compositi della tradizione religiosa. Il fondamentalismo trae origine
da un duplice processo. Da un lato l’irruzione del moderno e la sua
potenza disgregatrice di ogni elemento fondato sulla tradizione. Dall’altro
l’incapacità delle elite tradizionali a mediare le spinte
disgregatrici del moderno su ogni tradizione. Sotto questo aspetto il
fondamentalismo non è un ritorno al passato, ma una protesta contro
il moderno che fossilizza la tradizione fissando alcune regole che
dovrebbero riplasmarla per intero.
Per Gitai i termini sembrano coincidere, lui li usa
intercambiabilmente.
Si tratta di una semplificazione dannosa e inaccettabile, propria di
un discorso ideologico e militante, che ricorda un po’ l’atteggiamento
i certi militanti degli anni ’70 in guerra col mondo dei padri. La
dialettica dei simboli ha a che fare con tempi più lunghi. Accanto ai
tempi politici, che impongono scelte pragmatiche, relative al
possibile, al qui ed ora; vi è un altro tempo che è quello dei
simboli e dei cambiamenti molecolari che investono una determinata
civiltà e cultura che fonda le condizioni stesse del poter fare nel
qui ed ora. Per usare le parole del salimista, i mille anni rascorsi
sono dal punto di vista della logica dei simboli più interni come il
giorno appena trascorso. Tra Sofocle e Shakespeare ci sono millenni
che dal punto di vista intrapsichico somigliano a dei secondi. Il
tempo dei millenni appartiene ai simboli fondanti di una civiltà e di
una cultura.
Come vede il conflitto tra ortodossia e fondamentalismo in Israele?
Dal modo in cui la stampa italiana descrive il dibattito religioso in
Israele, sembra quasi che l'unica ortodossia sia quella
fondamentalista. Lì come altrove ortodossia e fondamentalismo sono in
realtà fenomeni distinti. L’emergere del fondamentalismo, la sua
ascesa significa indebolimento della tradizione ortodossa e suo
impoverimento. L’aspetto nuovo, che segna una svolta rispetto al
passato, è la crescente lettura religiosa dei fenomeni politici, la
rappresentazione dello scontro politico in termini mitici e religiosi.
Sino al 1967 le componenti fondamentaliste della società israeliana
si ponevano in gran parte al di fuori del sionismo e dello stato. Per
i naturei karta, che abitano in prevalenza a Mea Shearim, la nascita
di Israele era da considerarsi un oltraggio al nome divino, in quanto
la redenzione del popolo ebraico poteva avvenire solo per mano divina.
Qualsiasi tentativo umano di affrettare tale processo era da
considerarsi una forma di ibris. Dopo il ’67 si è andata affermando
una nuova forma di fondamentalismo che sta agli antipodi della
precedente. Il ritorno degli ebrei alla propria terra è parte di un
processo di redenzione umana e cosmica, un momento della catarsi
messianica. In questa logica, il controllo di ogni parte dell’Israele
biblico è un obbligo di natura religiosa. Politica e religione
diventano in questa logica un unicum con conseguenze devastanti per la
vita politica e religiosa. Si tratta di un fenomeno nuovo che trova le
sue basi nel movimento dei coloni, composto in gran parte da immigrati
di origine americana, che mette in discussione gli assetti
istituzionali dello stato e del rapporto tra gli stessi ebrei, un
fenomeno la cui logica è agli antipodi del sionismo storico, la sua
negazione in quanto negazione della politica e della separazione tra
fede e politica.
Amos Gitai dice che i movimenti fondamentalisti minano soprattutto
la capacità critica, caratteristica dell'ebraismo ma anche del mondo
moderno.
Quella di esercitare la capacità critica è stato un aspetto che
nella cultura ebraica contemporanea ha avuto eminenti rappresentanti,
da Freud a Benjamin, a Kafka ed Einstein. Sotto questo aspetto si può
dire che l’odio antisemita è stato in realtà rivolta contro il
pensiero, contro quanto di meglio ci è stato nel mondo moderno. La
stessa contrapposizione tra “scienza ariana” e “scienza giudaica”
teorizzata dai nazisti e dai nazisti, è stata in realtà la
contrapposizione tra la scienza dell’ottocento e i nuovi sviluppi
della pensiero scientifico del novecento, dove gli ebrei sono stati
ampiamente presenti. Gli ebrei hanno partecipato in maniera attiva
alla costruzione del mondo moderno perché nel mondo moderno hanno
trovato le condizioni stesse per la loro esistenza come cittadini: non
dimentichiamo che fino ad appena due secoli fa gli ebrei erano
rinchiusi nei ghetti in molte parti dell'Europa. La democrazia, la
tolleranza, la valorizzazione dell'individuo sono condizioni
esistenziali sperimentate in anticipo dagli ebrei, non da singoli
intellettuali ma da grandi masse di persone. Chi usciva dal ghetto
rompeva col mondo delle origini e si sentiva escluso a sua volta dal
mondo dove andava: un doppio processo di esclusione che ti costringeva
se non volevi andare a pezzi a ripensare l'insieme e a guardarti
contemporaneamente da più angolature, con l’occhio tuo e dell’altro.

E' questo il fascino dell'ebraismo per il mondo moderno?
La grande tradizione culturale dell'ebraismo mitteleuropeo - grandi
autori come Kafka o Freud - esalta l'uomo singolo. La fascinazione per
l'ebraismo della cultura democratica nell'Occidente nasce da qui. Il
percorso storico e individuale dell’ebraismo ha assunto il
significato di una metafora umana più ampia, dopo la tragedia dello
sterminio nazista gli ebrei sono diventati una figura dell’etica. Da
qui però anche l'ambivalenza con cui reagiscono molti democratici
(parlo dei democratici sinceri e non degli antisemiti più o meno
camuffati) quando si scopre che gli ebrei reali possano non
corrispondere a tali immagini idealizzate. Come se all'idealizzazione
dell'ebreo Kafka o Freud , l'ebreo universale in cui riconoscersi,
corrispondesse in altre sfere della vita psichica il fastidio nei
confronti dell'ebreo che si è fatto nazione.
A queste va aggiunta la velocità sempre crescente del cambiamento.
La vera grande sfida di fine '800 era quella di conservare la
propria identità in un mondo che scorre e dall'interno erode il
principio stesso di identità. Nel mondo moderno la grande domanda è
come coniugare la continuità con la trasformazione, che
nell'antichità erano processi più integrati perché i cambiamenti
avvenivano in maniera molto più lenta. Con lo sviluppo della tecnica
la trasformazione si è dilatata e accelerata in maniera tale che ci
costringe a inventare culture regolatrici rispetto al processo
trasformativo, per cui la politica è erosa dall'economia, l'economia
è erosa dalla finanza, la religione è erosa dai processi di
mutamento, le certezze sono continuamente erose dal cambiamento.
Sappiamo che la “new economy” e lo sviluppo della tecnologia si
sposano con i processi di accelerazione del mondo e della
trasformazione. Nello Stato di Israele, la “new economy” ha avuto
un ampio sviluppo negli ultimi dieci anni, al punto tale che nel
Nasdaq americano il terzo gruppo quotato sono società israeliane, una
cosa impensabile per un paese di appena 5-6 milioni di abitanti. Dal
punto di vista della combinazione dei fattori ottimali dello sviluppo
tecnologico informatico, della concentrazione di sapere e competenze,
la Silycon Valley israeliana non ha nulla da invidiare al Giappone. E
tutto questo è avvenuto sullo sfondo di una tragedia che ha visto la
distruzione del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, di
un conflitto con i paesi vicini e con le popolazioni arabe anche
all'interno di Israele, di un processo che ha visto la costruzione di
un'identità nazionale composta da popolazioni provenienti da oltre un
centinaio di paesi con lingue diverse. E all'interno della popolazione
ebraica per il 60% ciascuno si porta dietro un lutto che attraversa
almeno tre generazioni di vite frammentate e spezzate. Che il paese
non sia andato a pezzi, nonostante questo, è il vero grande problema
su cui interrogarsi, di cui meravigliarsi, la fonte di una rinnovata
speranza di un accordo di pace.
Un Paese riesce a tenersi unito se riesce a mantenere una coesione
nazionale e culturale. Immaginiamo che cosa possa significare la
diffusione della “new economy” in un paese come Israele: sembra di
assistere alla rappresentazione teatrale sulla scena storica delle
teorie di Einstein quando parlava del rapporto tra la luce, il tempo e
lo spazio. La superficie dello stato di Israele è di appena 21.000 km
quadrati, un territorio che è per la metà desertico, più piccolo
della Sicilia. Il territorio dove dovrà nascere lo Stato palestinese
è di appena 6.000 km quadrati, quanto la provincia di Viterbo. Una
concentrazione unica di spazi e di tempi, dove in un kilometro
quadrato, come può capitare a Gerusalemme, puoi incontrare la
spianata del tempio con le sue grandiose costruzioni islamiche e nel
sottosuolo i resti del Tempio di Gerusalemme, dove in alto pregano gli
arabi e in basso, sul muro occidentale, gli ebrei, e a qualche decina
di metri, all’interno della città vecchia 7 confessioni cristiane
si contendono i lembi del Cristo.
Anche l'accelerazione, dunque, in Israele perde la sua accezione
frenetica?
Il cambiamento fa meno paura se si è in grado di gestirlo
culturalmente, se ci appare comprensibile e decodificabile. Altrimenti
assume il carattere di una formazione bizzarra e persecutoria, che
mina le nostre sicurezze di base. Chi è dentro il “tempo”, chi
partecipa ai processi di cambiamento, chi corre dentro la velocità di
un determinato cosmo non avverte quella velocità. Il conflitto che
attraversa oggi la cultura ebraica e tutte le altre culture è un
conflitto di tempi diversi. Così come l'accelerazione è tale per chi
ne sta fuori, anche la crisi di identità è sperimentata con più
grande angoscia da chi non riesce a darsene ragione. Se rifletto sui
cambiamenti connessi ai processi storici di trasformazione, se sono
impegnato sul settore della riflessione sull'immigrazione, per
esempio, vivo con minore ansia e angoscia questi processi
trasformativi. Non mi sento aggredito dal cambiamento, ne sono invece
parte. Se ne sono fuori, scatta il perturbante, il sentimento sinistro
di spaesamento, l'angoscia collegata al fatto che il mondo non ha più
senso, che non è quella del nevrotico e dell'ossessivo ma quella
dello psicotico.
L’accellerazione dei tempi e la concetrazione dei conflitti in uno
spazio minuscolo ha avuto in Israele dei prezzi molto alti. Per
cinquant’anni le diverse anime dell’ebraismo hanno saputo parlarsi
e capirsi perché c’era una tragedia aperta che li costringeva a
questo. Il patto che ha tenuto l’ebraismo in America come in Europa
e in Israele è stato scritto sulla carne dei sopravvissuti. Per
cinquant’anni tutto questo ha funzionato. Ma ora occorre rinnovare
quel patto alla luce delle nuove sfide e dei problemi vecchi e nuovi.
Occorre un patto tra laici e religiosi, un accordo tra fedi e nazioni
diverse, tra ebrei, cristiani e mussulmani, arabi ed ebrei, israeliani
e palestinesi, perché in gioco è la sopravvivenza di tutti, e non
sarà facile perché in gioco sono anche gli spazi interni dell’identità,
non solo quelli esterni della politica.
Più che osservare che il mondo non ha più senso, si finisce per
pensare di non avere più senso per il mondo.
Proprio così. Se sei dentro il processo di cambiamento la domanda del
non senso è meno angosciante perché sei tu che dai il senso alla
trasformazione, o almeno credi, anche se poi come singolo puoi andare
a pezzi perché cominci a chiederti chi sei e chi non sei.
Perché dall'esterno l'accento viene spesso posto sulla
frammentazione all'interno dello Stato di Israele, invece che sulla
sua capacità di gestire il cambiamento?
Anche perché gli israeliani quando parlano di se lo fanno in rapporto
a quello che erano prima. La crisi dell'intellighentia israeliana,
come nel caso di Amos Gitai, è maturata all'interno di un paese dove
c'era una forte ideologia coagulante, quella dei padri fondatori dello
Stato, ed è collegata alla guerra del Kippur, alla crisi che ha
investito il Paese a partire dagli anni Settanta. Ma per certi aspetti
la società israeliana è molto più coesa di quella occidentale.
Credo anzi che per certi aspetti la società israeliana rispetto agli
cinquanta e sessanta sia diventata più aperta nel senso popperiano
del termine. A differenza di quel che comunemente si crede, vi è
stato in realtà un ampliamento della sfera di rappresentanza e non un
suo restringimento, che ha coinvolto sia la componente ebraica di
origine afroasiatica che la popolazione araba, che prima era tagliata
quasi del tutto dalla politica. La crisi del sistema politico
israeliano e dei laburisti, che per decenni hanno governato il paese,
nasce anche da qui. Portare a coerenza tutto ciò non sarà facile, ma
è la grande sfida della politica.
Quali sono gli obiettivi attuali di Israele?
Posto che si arrivi ad un accordo di pace coi palestinesi ed è
attualmente una necessità imperativa per il bene di tutti, il
problema del rapporto tra laici e religiosi, identità statuale e
identità comunitaria, legge civile e legge religiosa: tutti i grandi
problemi che sono rimasti aperti nella sfida che oppose le diverse
anime del giudaismo nell’ottocento e agli inizi del novecento, che
sono poi i problemi di ogni cultura e civiltà religiosa di fronte
alle sfide del mondo moderno.
Il sionismo aspirava a “normalizzare” l’esistenza ebraica,
rendendo gli ebrei una nazione sovrana come gli altri. A parte il
fatto che non vi è alcunché da normalizzare nell’esistenza
ebraica, la forza del richiamo esercitato da Israele sull’intera
diaspora, le passioni e gli affetti che ha suscitato fra gli ebrei,
deriva dal fatto che il rapporto non è mai stato di tipo “normale”,
almeno nel senso che si attribuisce comunemente a questo termine.
La spinta che ha portato alla nascita di Israele ha avuto come
condizione una grande idealizzazione e una forte identificazione. Nel
bene e nel male si è trattato di un rapporto sovraccarico di emozioni
e di affetti. La domanda per gli ebrei e per gli israeliani è quanto
di questo carico di questa affettività e idealizzazione possa essere
abbandonato senza minare le basi dell’esistenza di quella società.
Paesi grandi come gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia possono
fare a meno di un certo grado di idealizzazione interna per continuare
esistere, perché hanno altri elementi su cui fondare la propria
esistenza sovrana, anche se c’è un limite a tutto (come non
capiscono coloro i quali parlano a vanvera di flessibilità come se si
trattasse di cose e non di persone). Nel caso di Israele che è un
paese piccolo, dipendente ancora per la sua esistenza dal rapporto con
la diaspora ebraica, la domanda è quanta di questa idealizzazione
può essere erosa senza che questo comporti una profonda crisi di
frammentazione interiore? La domanda è come passare dalle forme di
idealizzazione passata coi suoi fantasmi persecutori connessi alla
paura dello sterminio (che non erano però soltanto dei fantasmi
interni, ma anche paure reali, costellate da innumerevoli lutti e
perdite) ad una identificazione positiva capace di convivere con le
zone d’ombra dell’esistenza nazionale. Nella vita singola tutto
ciò è più semplice. Il compito di un terapeuta consiste nel fare
maturare l’Io aiutandolo ad affrontare la duplice sfida delle spinte
pulsionali più distruttive ed i richiami del Super Io. Nella vita
collettiva le cose sono molto più complicate.
Qual è lo strumento culturale più efficace per mediare fra
continuità e trasformazione?
L'umorismo. Solo nell'umorismo è possibile trovare un modello
psichico e culturale adeguato, uno spazio che contenga continuità e
trasformazione. L'umorismo è la grande vera risorsa dell’uomo che
non vede nell’altro un nemico da uccidere, ma un possibile compagno
di viaggio in un mondo che non sembra fatto per fare coesistere gli
umani. Nell’umorismo più vero l’altro non compare come ucciso, ma
come vivo, l’altro ci rivela qualcosa di noi nel momento in cui ne
sveliamo le pulsioni omicide restituendogliele nella forma di un
pensiero accettabile e comprensibile. Se l’inconscio è il regno del
processo primario e la coscienza di quello secondario, l’umorismo è
il regno di un processo terziario, dove i soggetti della comunicazione
si incontrano in una stessa persona, in grado di ridere su di sé, ma
anche di trionfare sui fantasmi persecutori più interni. Solo che l’umorismo
è una risorsa dei singoli, che in certe culture può risultare più
affinata che in altre. Il grado di umorismo presente in una
determinata società e cultura ne misura il vero grado di civiltà e
di reale tolleranza. Laddove l’umorismo viene meno, vuol dire che si
addensano dei gravi pericoli, che è bene affrontare in tempo. Non è
un caso se i movimenti più integralisti e dittatoriali ideologici,
con le loro pretese assurde, siano in genere privi di senso dell’umorismo.
Nella società israeliana c’è umorismo?
Molti credono che sia forte solo l'umorismo fra gli ebrei della
diaspora, ma esiste anche un umorismo israeliano, personalmente l'ho
riscontrato persino negli ambienti militari. E laddove c’è umorismo
c’è vita e c'è speranza.
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