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David Meghnagi (Tripoli, 1949); membro della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psycoanalytical Association. Insegna psicologia dinamica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre. Ha condotto studi sui modelli di socializzazione dell’infanzia, sul plurilinguismo, sulla psicologia dell’esperienza mistica e religiosa, sull’antisemitismo. Tra le sue pubblicazioni, "Il Kibbutz, aspetti sociopsicologici", "La sinistra in Israele", "Modelli freudiani della critica e teoria psicoanalitica", Freud and Judaism, Il Padre e la legge (Freud e l'ebraismo). Ha curato per l’editore Masrsilio l’edizione italiana delle lettere tra Freud e Arnold Zweig, “Lettere sullo sfondo di una tragedia (1927-1939).

David Meghnagi ragiona secondo un'ottica di lungo periodo, in termini per così dire “intrapsichici” e “transculturali”. Per questo qualunque sua considerazione sul processo di trasformazione che coinvolge (o travolge) la società moderna, e quella ebraica in particolare, tende ad essere filosofica nel senso più profondo del termine. "Non sottovaluto i problemi", dice, "ma sono portato a guardarli in una più ampia prospettiva - o almeno ci provo".

Da psicanalista, inoltre, Meghnagi vede il cambiamento come inevitabile, se gestito con strumenti culturali e psicologici appropriati, e le tensioni, anche quelle che attraversano (e spesso dividono) la comunità ebraica, come salutari. E considera l'umorismo la grande risorsa dell'uomo contemporaneo.


Qual è il rapporto tra ebraismo e ortodossia, soprattutto in Israele?

Innanzitutto va specificato che il termine ortodossia, per quanto concerne l'ebraismo, non è adeguato; sarebbe più corretto parlare di “ortopraxia”, appunto perché si tratta di una tradizione religiosa incentrata sulla prassi. Parlare dell’ebraismo esclusivamente in termini di religione è un errore. L’ebraismo è molte altre cose insieme: popolo, cultura, minoranza, meglio ancora in un’ottica weberiana bisognerebbe parlare di una civiltà ebraica con una sua logica ben distinta, come ha fatto di recente Eisenstadt, di un insieme che coinvolge l’organizzazione del tempo e dello spazioe la riproduzione delle elite.

Del resto il termine religione (dat) è di fatto assente nella Torah (il Pentateuco). La tradizione rabbinica ha coniato il termine Halachà per definire l’insieme di leggi e regole che vanno sotto il nome di Torah orale, da distinguersi da quella scritta. Per la tradizione rabbinica la Torah orale, frutto del dialogo tra le generazioni di rabbini, è parte anch’essa della rivelazione sinaitica, è parola divina nel senso più stretto del termine, anzi è più importante perché attraverso il commento la parola scritta riacquista un nuovo significato.

Come è accaduto per altre tradizioni religiose, la secolarizzazione ha portato alla luce conflitti latenti tra opzioni e scelte diverse. Il trauma dello sterminio nazista ha come immobilizzato queste tensioni e conflitti per circa un cinquantennio. Dopo il ’45 gli ebrei hanno dovuto affrontare una terribile prova, ricostruire le condizioni minime di un’esistenza normale, salvare l’esistenza dello stato ebraico, che era appena nato. Il tutto è avvenuto con una rapidità estrema. In meno di tre anni la quasi totalità dell’ebraismo polacco e di altre importanti comunità sono state annientate. Poi c’è stata la guerra tra Israele e i paesi arabi che ne rifiutarono la nascita. In meno di tra anni lo Stato di Israele con una popolazione di 6.00.000, ha dovuto assorbire 1.200.000 ebrei metà dei quali, e oltre, provenienti dai paesi arabi. Lo sforzo unico ha fatto passare in secondo piano molti altri problemi.

Le tensioni di oggi riportano alla luce problemi che si erano già posti nell’800, con lo sconvolgimento delle condizioni tradizionali dell'esistenza. Accanto agli ebrei credenti e religiosi, ve ne sono altri che si considerano tali senza con ciò essere credenti o religiosi. Ci sono per così dire anche degli “ebrei psicologici”, che si considerano tali, e vogliono restare tali, senza con ciò fare proprio un riferimento di natura religiosa e nazionale. Direi di più, che con la secolarizzazione, accanto alle tradizionali forme di identificazione ebraica, ve ne sono altre estremamente variabili e difficilmente codificabili. Per dirla con Primo Levi ci sono tanti ebraismi quanti sono li ebrei. Si tratta di un fenomeno che trova le sue origini nel processo di secolarizzazione che ha investito il mondo occidentale negli ultimi due secoli e che non coinvolge solo la tradizione religiosa dell’ebraismo. L’aspetto più specificamente ebraico è che gli ebrei non avendo un territorio proprio e uno stato, essendo appunto un popolo diasporico oppresso, che usciva dai ghetti alla ricerca della libertà, hanno fatto questa esperienza in anticipo e nel modo più estremo. Da qui i conflitti e le lacerazioni che hanno fatto la grandezza di Kafka e Benjamin, Proust e Svevo, per non parlare degli altri. La ricchezza del dibattito che c'era nell'800, la conflittualità che ha attraversato la vita ebraica soprattutto nell'Est Europa sono state parzialmente occultate dai processi tipici dell'idealizzazione connessa al lutto.

Una civiltà quindi che va analizzata nel suo complesso, dunque, e nel contesto della civiltà umana in generale.

L'identità ebraica non si è sviluppata nel vuoto, è dentro i processi storici. La specificità ebraica è anche il frutto di intensi scambi e dialoghi con il mondo esterno. Attraverso lo studio delle singole identità ebraiche possiamo farci un quadro del modo in cui è avvenuta nei singoli paesi il passaggio al mondo moderno. Non voglio con ciò assolutamente dire che l’identità ebraica si definisca in termini negativi, che a definirla siano solo gli altri, come pensava per esempio Sartre negli anni cinquanta (ma Sartre si è poi ricreduto ed ha ammesso l’errore di prospettiva). Voglio al contrario sottolineare che i tratti più peculiari dell’identità ebraica, così come si sono andato cristallizzando nel mondo moderno, sono anche il risultato di processi più ampi che coinvolgono la vita dei paesi in cui gli ebrei sono vissuti.

Prendiamo ad esempio il caso dell'Italia: l'identità ebraica moderna in Italia, e questo spiega l'intensità del trauma vissuto dagli ebrei italiani durante le leggi razziali, è fortemente connessa con il processo che ha dato vita alla nascita dello Stato italiano. Come ha sottolineato Momigliano, gli ebrei italiani sono diventati italiani insieme agli altri italiani, anche se con una loro specificità, che Gramsci fece difficoltà a comprendere pienamente. Il processo di emancipazione e di uscita dal ghetto è avvenuto sullo sfondo di un conflitto radicale tra i fautori dell’unità italiana e le forze che vi si opponevano, che erano poi quelle che volevano mantenere la segregazione degli ebrei. Questo spiega la grande presenza degli ebrei nella vita culturale, civile e sociale italiana alla fine dell'800 e agli inizi del ‘900, un processo che va avanti anche nel periodo fascista (un momento di svolta può essere collocato nel ’29, con l’ingresso dei cattolici nella vita pubblica e l’affermazione di uno statuto discriminatorio per i cittadini di confessione non cattolica, che si vedranno di fatto schedati). Agli inizi del '900 troviamo addirittura esponenti ebrei nella gerarchia militare italiana, il che era impensabile in altri paesi, e un sindaco ebreo a Roma. Al contrario in Germania il processo di emancipazione degli ebrei, il loro ingresso nella vita nazionale è avvenuto sullo sfondo di una rivolta antimoderna della cultura tedesca, di una contrapposizione violenta contro i valori dell’illuminismo. In questa logica perversità la lotta contro la modernità e l’odio contro gli ebrei sono diventati un tutt’uno.

Al contrario negli Stati Uniti, paese di forte immigrazione, dove in linea teorica a tutti è data la possibilità di diventare un leader, il processo di integrazione degli ebrei alla più ampia realtà del paese, nonostante l’antisemitismo degli anni venti e trenta, è potuta avvenire sullo sfondo del recupero della propria identità passata. In un paese di immigrazione, l’origine è un elemento costitutivo dell’identità, dove si è americani in quanto si. In un paese di immigrazione come gli USA, l’origine etnica è un elemento portante della nuova identità. Si è americani non perché si rinnega il proprio passato italiano, polacco o russo. Per quanto alcune origini siano state svalutate nel tempo rispetto ad altre, l’origine entra a far parte più esplicitamente dell’identità nazionale più ampia. Questo spiega perché all’interno delle comunità ebraiche degli Stati Uniti sia stata meno traumatica la coniugazione dell’appartenenza ebraica (anche nazionalitaria) all’appartenenza nazionale più ampia. Per fare un esempio, in Europa a nessuno verrebbe in mente di esporre una bandiera israeliana in una sinagoga. In USA può accadere in una sinagoga riformista e liberal. L’appartenenza religiosa ha avuto un ruolo particolarmente importante nella società americana, è stata ed è tuttora un elemento fondante dell’organizzazione sociale. In questa ottica le religioni sono tutte ugualmente rispettabili. Questo aspetto caratteristico della vita americana ha avuto un effetto di ritorno per le stesse associazioni ebraiche più laiche, di matrice socialiste.

Lei parla di tensioni, anche di quelle interne all'ebraismo, in termini essenzialmente positivi.

Come insegnava Freud il conflitto è un elemento connaturato all'esistenza umana. L’essere umano è perennemente in conflitto con noi stessi, con le proprie identificazioni e controidentificazioni interiori. Il vero problema per l'essere umano è la regolazione di tali conflitti, fare appunto in modo che il conflitto non diventi devastante per il singolo e per la società. Il conflitto può essere negato o rimosso, ma alla fine riemerge. Da qui la necessità di regole condivise attraverso cui gestirlo.

Se non c’è conflitto interno si corre il rischio della cristallizzazione, che è caratteristica dei movimenti fondamentalisti.


Fondamentalismo e ortodossia non sono la stessa cosa. Spesso nel dibattito culturale c’è una tendenza ad appiattire i due termini, con gravi conseguenze euristiche e operative. Il fondamentalismo è un attacco all’ortodossia. L'ortodossia, in ogni tradizione religiosa, è tendenzialmente più tollerante, appunto perché parla ad un più ampio numero di fedeli, in quanto deve portare a coerenza fenomeni compositi della tradizione religiosa. Il fondamentalismo trae origine da un duplice processo. Da un lato l’irruzione del moderno e la sua potenza disgregatrice di ogni elemento fondato sulla tradizione. Dall’altro l’incapacità delle elite tradizionali a mediare le spinte disgregatrici del moderno su ogni tradizione. Sotto questo aspetto il fondamentalismo non è un ritorno al passato, ma una protesta contro il moderno che fossilizza la tradizione fissando alcune regole che dovrebbero riplasmarla per intero.

Per Gitai i termini sembrano coincidere, lui li usa intercambiabilmente.

Si tratta di una semplificazione dannosa e inaccettabile, propria di un discorso ideologico e militante, che ricorda un po’ l’atteggiamento i certi militanti degli anni ’70 in guerra col mondo dei padri. La dialettica dei simboli ha a che fare con tempi più lunghi. Accanto ai tempi politici, che impongono scelte pragmatiche, relative al possibile, al qui ed ora; vi è un altro tempo che è quello dei simboli e dei cambiamenti molecolari che investono una determinata civiltà e cultura che fonda le condizioni stesse del poter fare nel qui ed ora. Per usare le parole del salimista, i mille anni rascorsi sono dal punto di vista della logica dei simboli più interni come il giorno appena trascorso. Tra Sofocle e Shakespeare ci sono millenni che dal punto di vista intrapsichico somigliano a dei secondi. Il tempo dei millenni appartiene ai simboli fondanti di una civiltà e di una cultura.

Come vede il conflitto tra ortodossia e fondamentalismo in Israele?

Dal modo in cui la stampa italiana descrive il dibattito religioso in Israele, sembra quasi che l'unica ortodossia sia quella fondamentalista. Lì come altrove ortodossia e fondamentalismo sono in realtà fenomeni distinti. L’emergere del fondamentalismo, la sua ascesa significa indebolimento della tradizione ortodossa e suo impoverimento. L’aspetto nuovo, che segna una svolta rispetto al passato, è la crescente lettura religiosa dei fenomeni politici, la rappresentazione dello scontro politico in termini mitici e religiosi. Sino al 1967 le componenti fondamentaliste della società israeliana si ponevano in gran parte al di fuori del sionismo e dello stato. Per i naturei karta, che abitano in prevalenza a Mea Shearim, la nascita di Israele era da considerarsi un oltraggio al nome divino, in quanto la redenzione del popolo ebraico poteva avvenire solo per mano divina. Qualsiasi tentativo umano di affrettare tale processo era da considerarsi una forma di ibris. Dopo il ’67 si è andata affermando una nuova forma di fondamentalismo che sta agli antipodi della precedente. Il ritorno degli ebrei alla propria terra è parte di un processo di redenzione umana e cosmica, un momento della catarsi messianica. In questa logica, il controllo di ogni parte dell’Israele biblico è un obbligo di natura religiosa. Politica e religione diventano in questa logica un unicum con conseguenze devastanti per la vita politica e religiosa. Si tratta di un fenomeno nuovo che trova le sue basi nel movimento dei coloni, composto in gran parte da immigrati di origine americana, che mette in discussione gli assetti istituzionali dello stato e del rapporto tra gli stessi ebrei, un fenomeno la cui logica è agli antipodi del sionismo storico, la sua negazione in quanto negazione della politica e della separazione tra fede e politica.

Amos Gitai dice che i movimenti fondamentalisti minano soprattutto la capacità critica, caratteristica dell'ebraismo ma anche del mondo moderno.

Quella di esercitare la capacità critica è stato un aspetto che nella cultura ebraica contemporanea ha avuto eminenti rappresentanti, da Freud a Benjamin, a Kafka ed Einstein. Sotto questo aspetto si può dire che l’odio antisemita è stato in realtà rivolta contro il pensiero, contro quanto di meglio ci è stato nel mondo moderno. La stessa contrapposizione tra “scienza ariana” e “scienza giudaica” teorizzata dai nazisti e dai nazisti, è stata in realtà la contrapposizione tra la scienza dell’ottocento e i nuovi sviluppi della pensiero scientifico del novecento, dove gli ebrei sono stati ampiamente presenti. Gli ebrei hanno partecipato in maniera attiva alla costruzione del mondo moderno perché nel mondo moderno hanno trovato le condizioni stesse per la loro esistenza come cittadini: non dimentichiamo che fino ad appena due secoli fa gli ebrei erano rinchiusi nei ghetti in molte parti dell'Europa. La democrazia, la tolleranza, la valorizzazione dell'individuo sono condizioni esistenziali sperimentate in anticipo dagli ebrei, non da singoli intellettuali ma da grandi masse di persone. Chi usciva dal ghetto rompeva col mondo delle origini e si sentiva escluso a sua volta dal mondo dove andava: un doppio processo di esclusione che ti costringeva se non volevi andare a pezzi a ripensare l'insieme e a guardarti contemporaneamente da più angolature, con l’occhio tuo e dell’altro.


E' questo il fascino dell'ebraismo per il mondo moderno?

La grande tradizione culturale dell'ebraismo mitteleuropeo - grandi autori come Kafka o Freud - esalta l'uomo singolo. La fascinazione per l'ebraismo della cultura democratica nell'Occidente nasce da qui. Il percorso storico e individuale dell’ebraismo ha assunto il significato di una metafora umana più ampia, dopo la tragedia dello sterminio nazista gli ebrei sono diventati una figura dell’etica. Da qui però anche l'ambivalenza con cui reagiscono molti democratici (parlo dei democratici sinceri e non degli antisemiti più o meno camuffati) quando si scopre che gli ebrei reali possano non corrispondere a tali immagini idealizzate. Come se all'idealizzazione dell'ebreo Kafka o Freud , l'ebreo universale in cui riconoscersi, corrispondesse in altre sfere della vita psichica il fastidio nei confronti dell'ebreo che si è fatto nazione.

A queste va aggiunta la velocità sempre crescente del cambiamento.

La vera grande sfida di fine '800 era quella di conservare la propria identità in un mondo che scorre e dall'interno erode il principio stesso di identità. Nel mondo moderno la grande domanda è come coniugare la continuità con la trasformazione, che nell'antichità erano processi più integrati perché i cambiamenti avvenivano in maniera molto più lenta. Con lo sviluppo della tecnica la trasformazione si è dilatata e accelerata in maniera tale che ci costringe a inventare culture regolatrici rispetto al processo trasformativo, per cui la politica è erosa dall'economia, l'economia è erosa dalla finanza, la religione è erosa dai processi di mutamento, le certezze sono continuamente erose dal cambiamento.

Sappiamo che la “new economy” e lo sviluppo della tecnologia si sposano con i processi di accelerazione del mondo e della trasformazione. Nello Stato di Israele, la “new economy” ha avuto un ampio sviluppo negli ultimi dieci anni, al punto tale che nel Nasdaq americano il terzo gruppo quotato sono società israeliane, una cosa impensabile per un paese di appena 5-6 milioni di abitanti. Dal punto di vista della combinazione dei fattori ottimali dello sviluppo tecnologico informatico, della concentrazione di sapere e competenze, la Silycon Valley israeliana non ha nulla da invidiare al Giappone. E tutto questo è avvenuto sullo sfondo di una tragedia che ha visto la distruzione del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, di un conflitto con i paesi vicini e con le popolazioni arabe anche all'interno di Israele, di un processo che ha visto la costruzione di un'identità nazionale composta da popolazioni provenienti da oltre un centinaio di paesi con lingue diverse. E all'interno della popolazione ebraica per il 60% ciascuno si porta dietro un lutto che attraversa almeno tre generazioni di vite frammentate e spezzate. Che il paese non sia andato a pezzi, nonostante questo, è il vero grande problema su cui interrogarsi, di cui meravigliarsi, la fonte di una rinnovata speranza di un accordo di pace.

Un Paese riesce a tenersi unito se riesce a mantenere una coesione nazionale e culturale. Immaginiamo che cosa possa significare la diffusione della “new economy” in un paese come Israele: sembra di assistere alla rappresentazione teatrale sulla scena storica delle teorie di Einstein quando parlava del rapporto tra la luce, il tempo e lo spazio. La superficie dello stato di Israele è di appena 21.000 km quadrati, un territorio che è per la metà desertico, più piccolo della Sicilia. Il territorio dove dovrà nascere lo Stato palestinese è di appena 6.000 km quadrati, quanto la provincia di Viterbo. Una concentrazione unica di spazi e di tempi, dove in un kilometro quadrato, come può capitare a Gerusalemme, puoi incontrare la spianata del tempio con le sue grandiose costruzioni islamiche e nel sottosuolo i resti del Tempio di Gerusalemme, dove in alto pregano gli arabi e in basso, sul muro occidentale, gli ebrei, e a qualche decina di metri, all’interno della città vecchia 7 confessioni cristiane si contendono i lembi del Cristo.

Anche l'accelerazione, dunque, in Israele perde la sua accezione frenetica?

Il cambiamento fa meno paura se si è in grado di gestirlo culturalmente, se ci appare comprensibile e decodificabile. Altrimenti assume il carattere di una formazione bizzarra e persecutoria, che mina le nostre sicurezze di base. Chi è dentro il “tempo”, chi partecipa ai processi di cambiamento, chi corre dentro la velocità di un determinato cosmo non avverte quella velocità. Il conflitto che attraversa oggi la cultura ebraica e tutte le altre culture è un conflitto di tempi diversi. Così come l'accelerazione è tale per chi ne sta fuori, anche la crisi di identità è sperimentata con più grande angoscia da chi non riesce a darsene ragione. Se rifletto sui cambiamenti connessi ai processi storici di trasformazione, se sono impegnato sul settore della riflessione sull'immigrazione, per esempio, vivo con minore ansia e angoscia questi processi trasformativi. Non mi sento aggredito dal cambiamento, ne sono invece parte. Se ne sono fuori, scatta il perturbante, il sentimento sinistro di spaesamento, l'angoscia collegata al fatto che il mondo non ha più senso, che non è quella del nevrotico e dell'ossessivo ma quella dello psicotico.

L’accellerazione dei tempi e la concetrazione dei conflitti in uno spazio minuscolo ha avuto in Israele dei prezzi molto alti. Per cinquant’anni le diverse anime dell’ebraismo hanno saputo parlarsi e capirsi perché c’era una tragedia aperta che li costringeva a questo. Il patto che ha tenuto l’ebraismo in America come in Europa e in Israele è stato scritto sulla carne dei sopravvissuti. Per cinquant’anni tutto questo ha funzionato. Ma ora occorre rinnovare quel patto alla luce delle nuove sfide e dei problemi vecchi e nuovi. Occorre un patto tra laici e religiosi, un accordo tra fedi e nazioni diverse, tra ebrei, cristiani e mussulmani, arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi, perché in gioco è la sopravvivenza di tutti, e non sarà facile perché in gioco sono anche gli spazi interni dell’identità, non solo quelli esterni della politica.

Più che osservare che il mondo non ha più senso, si finisce per pensare di non avere più senso per il mondo.

Proprio così. Se sei dentro il processo di cambiamento la domanda del non senso è meno angosciante perché sei tu che dai il senso alla trasformazione, o almeno credi, anche se poi come singolo puoi andare a pezzi perché cominci a chiederti chi sei e chi non sei.

Perché dall'esterno l'accento viene spesso posto sulla frammentazione all'interno dello Stato di Israele, invece che sulla sua capacità di gestire il cambiamento?

Anche perché gli israeliani quando parlano di se lo fanno in rapporto a quello che erano prima. La crisi dell'intellighentia israeliana, come nel caso di Amos Gitai, è maturata all'interno di un paese dove c'era una forte ideologia coagulante, quella dei padri fondatori dello Stato, ed è collegata alla guerra del Kippur, alla crisi che ha investito il Paese a partire dagli anni Settanta. Ma per certi aspetti la società israeliana è molto più coesa di quella occidentale. Credo anzi che per certi aspetti la società israeliana rispetto agli cinquanta e sessanta sia diventata più aperta nel senso popperiano del termine. A differenza di quel che comunemente si crede, vi è stato in realtà un ampliamento della sfera di rappresentanza e non un suo restringimento, che ha coinvolto sia la componente ebraica di origine afroasiatica che la popolazione araba, che prima era tagliata quasi del tutto dalla politica. La crisi del sistema politico israeliano e dei laburisti, che per decenni hanno governato il paese, nasce anche da qui. Portare a coerenza tutto ciò non sarà facile, ma è la grande sfida della politica.

Quali sono gli obiettivi attuali di Israele?

Posto che si arrivi ad un accordo di pace coi palestinesi ed è attualmente una necessità imperativa per il bene di tutti, il problema del rapporto tra laici e religiosi, identità statuale e identità comunitaria, legge civile e legge religiosa: tutti i grandi problemi che sono rimasti aperti nella sfida che oppose le diverse anime del giudaismo nell’ottocento e agli inizi del novecento, che sono poi i problemi di ogni cultura e civiltà religiosa di fronte alle sfide del mondo moderno.

Il sionismo aspirava a “normalizzare” l’esistenza ebraica, rendendo gli ebrei una nazione sovrana come gli altri. A parte il fatto che non vi è alcunché da normalizzare nell’esistenza ebraica, la forza del richiamo esercitato da Israele sull’intera diaspora, le passioni e gli affetti che ha suscitato fra gli ebrei, deriva dal fatto che il rapporto non è mai stato di tipo “normale”, almeno nel senso che si attribuisce comunemente a questo termine.

La spinta che ha portato alla nascita di Israele ha avuto come condizione una grande idealizzazione e una forte identificazione. Nel bene e nel male si è trattato di un rapporto sovraccarico di emozioni e di affetti. La domanda per gli ebrei e per gli israeliani è quanto di questo carico di questa affettività e idealizzazione possa essere abbandonato senza minare le basi dell’esistenza di quella società. Paesi grandi come gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia possono fare a meno di un certo grado di idealizzazione interna per continuare esistere, perché hanno altri elementi su cui fondare la propria esistenza sovrana, anche se c’è un limite a tutto (come non capiscono coloro i quali parlano a vanvera di flessibilità come se si trattasse di cose e non di persone). Nel caso di Israele che è un paese piccolo, dipendente ancora per la sua esistenza dal rapporto con la diaspora ebraica, la domanda è quanta di questa idealizzazione può essere erosa senza che questo comporti una profonda crisi di frammentazione interiore? La domanda è come passare dalle forme di idealizzazione passata coi suoi fantasmi persecutori connessi alla paura dello sterminio (che non erano però soltanto dei fantasmi interni, ma anche paure reali, costellate da innumerevoli lutti e perdite) ad una identificazione positiva capace di convivere con le zone d’ombra dell’esistenza nazionale. Nella vita singola tutto ciò è più semplice. Il compito di un terapeuta consiste nel fare maturare l’Io aiutandolo ad affrontare la duplice sfida delle spinte pulsionali più distruttive ed i richiami del Super Io. Nella vita collettiva le cose sono molto più complicate.

Qual è lo strumento culturale più efficace per mediare fra continuità e trasformazione?

L'umorismo. Solo nell'umorismo è possibile trovare un modello psichico e culturale adeguato, uno spazio che contenga continuità e trasformazione. L'umorismo è la grande vera risorsa dell’uomo che non vede nell’altro un nemico da uccidere, ma un possibile compagno di viaggio in un mondo che non sembra fatto per fare coesistere gli umani. Nell’umorismo più vero l’altro non compare come ucciso, ma come vivo, l’altro ci rivela qualcosa di noi nel momento in cui ne sveliamo le pulsioni omicide restituendogliele nella forma di un pensiero accettabile e comprensibile. Se l’inconscio è il regno del processo primario e la coscienza di quello secondario, l’umorismo è il regno di un processo terziario, dove i soggetti della comunicazione si incontrano in una stessa persona, in grado di ridere su di sé, ma anche di trionfare sui fantasmi persecutori più interni. Solo che l’umorismo è una risorsa dei singoli, che in certe culture può risultare più affinata che in altre. Il grado di umorismo presente in una determinata società e cultura ne misura il vero grado di civiltà e di reale tolleranza. Laddove l’umorismo viene meno, vuol dire che si addensano dei gravi pericoli, che è bene affrontare in tempo. Non è un caso se i movimenti più integralisti e dittatoriali ideologici, con le loro pretese assurde, siano in genere privi di senso dell’umorismo.

Nella società israeliana c’è umorismo?


Molti credono che sia forte solo l'umorismo fra gli ebrei della diaspora, ma esiste anche un umorismo israeliano, personalmente l'ho riscontrato persino negli ambienti militari. E laddove c’è umorismo c’è vita e c'è speranza.


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