| Forum/Sapere, sesso, politica 
 
 
 a cura della redazione di Reset
 
 
 
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 Il ritorno di Alice Schwarzer
 Il problema della differenza
 Al forum che segue, organizzato da “Reset”, partecipano quattro
          delle più eminenti teoriche, e attiviste, femministe contemporanee,
          europee e americane (vedi articoli collegati). Un appassionato
          confronto a tutto campo su femminismo, politica, trasformazioni
          tecnologiche e rapporti intergenerazionali. Il dossier completo appare
          sul numero 63 di Reset attualmente in edicola e in libreria.
 
 Reset: Che cosa significa, oggi, “ricerca femminista”. Siamo
          stati abituati a vedere il femminismo come un movimento sociale con
          compiti e risultati anche di ordine politico. Oggi sembra che non sia
          più così. In questo incontro internazionale di femministe sembra che
          si tratti di un fenomeno collegato più saldamente alla ricerca
          accademica. Che cosa sta diventando, allora, il femminismo? Qualcosa
          di meno politico, o per nulla politico? È ancora un movimento
          sociale? Sta diventando semplicemente un nuovo campo della ricerca
          accademica, o qualcosa del genere?
 
 Tutte: No! No! No!
 
 Scott: Mi sembra, prima di tutto, che l’idea stessa che non vi
          sia un movimento politico o sociale sia sbagliata. Ed è altrettanto
          sbagliata l’idea che la ricerca accademica non si debba collegare ad
          esso. Vorrei proporvi l’esempio della ricerca che proprio in questo
          periodo sto svolgendo su le Mouvement pour la Parité in France,
          iniziata alla fine degli anni ottanta. Questo movimento voleva una
          pari rappresentanza per uomini e donne nei partiti politici, nonché
          nelle cariche politiche. Oggi c’è parité almeno nelle liste
          elettorali per le elezioni comunali, regionali ed europee: tali liste
          debbono essere composte per metà da donne e per metà da uomini, e si
          deve garantire che le donne non siano collocate tutte in fondo alla
          lista, mentre gli uomini ne occupano le prime posizioni. Per questo,
          ogni sei nomi, tre sono femminili. Questo è un esempio di femminismo
          come movimento politico. Contro di esso sono state mosse numerose
          critiche, ma dobbiamo riconoscere che la pratica si è dimostrata
          estremamente efficace nell’incrementare la possibilità di accesso
          delle donne alla politica e alla rappresentanza elettorale. Eppure le
          sue richieste erano strettamente legate ai temi della ricerca
          femminista, che rappresentavano la posta in gioco tanto in Francia
          come negli Stati Uniti in generale. Per queste ragioni, non ritengo
          corretto accettare questa idea della separazione tra la ricerca
          femminista e il movimento politico.
 
 Reset: Sulla base dei commenti di Joan Scott, potremmo
          affermare che è un errore sostenere che il movimento politico
          femminista è scomparso. Ma forse non è sbagliato dire che l’onda
          del femminismo in quanto movimento politico è in calo.
 
 Haraway: Dipende dal punto di vista. È certamente vero che i
          movimenti di liberazione e i movimenti sociali di ogni genere hanno
          attraversato periodi di crisi e di decostruzione. Il mio punto di
          vista, comunque, tiene conto di una più ampia diversificazione,
          differenziazione e interazione tra i movimenti sociali. Il movimento
          femminista informa, per esempio, ampi segmenti dell’ambientalismo
          contemporaneo, il lavoro politico fatto sui posti di lavoro relativi
          all’informazione, nonché la costruzione dei sistemi informatici.
          Sono al corrente di questa tendenza grazie alle mie colleghe che
          operano nel settore degli studi scientifici. In questa particolare
          area di ricerca accademica e professionale, è certo che esiste un’area
          di lavoro femminista molto forte. Possiamo vedere nel campo delle
          aziende di progettazione di software e in quello delle scienze
          informatiche, come il femminismo abbia fatto la differenza.
 
 La politica femminista è maturata in molti modi, ma ha perso anche
          diversi aspetti del movimento sociale di massa. Tuttavia, sarebbe
          secondo me un terribile errore ridurre la somma complessiva dei
          movimenti sociali esclusivamente alla loro forma di massa, che tanta
          importanza ebbe negli anni settanta. Penso inoltre che l’istituzionalizzazione
          degli studi accademici sulle donne e sulle differenze di genere sia un’area
          di enorme importanza per la riproduzione e la trasformazione del
          femminismo. Anzi, le giovani femministe reinventano di continuo il
          femminismo nel loro lavoro, nelle espressioni culturali, nelle arti,
          nella ricerca, nella politica. Mi sembra quindi un errore considerare
          gli studi delle donne - che una volta istituzionalizzati hanno
          ottenuto grandi successi - come un settore da contrapporre alla
          politica e all’attivismo politico.
 
 Braidotti: Anch’io non condivido la domanda iniziale. Io vivo in
          Olanda, nei Paesi Bassi, quindi sono un’europea del nord. È quindi
          da una prospettiva molto diversa che io definirei, per esempio, ciò
          che è sociale o ciò che è politico. In risposta alla domanda, direi
          che il femminismo non è soltanto un campo della ricerca accademica,
          anzi, non è nemmeno un campo della ricerca accademica. È quasi
          inesistente in molti paesi al di sotto delle Alpi. Stiamo quindi
          parlando di qualcosa che è ancora molto trasgressivo, ancora molto
          interdisciplinare, ancora molto poco istituzionalizzato, certamente in
          Italia. Ma se andate in Francia, le cose non stanno certo molto
          meglio. Lo stesso vale per la Grecia. Forse la situazione è un po’
          migliore in Spagna. Stiamo quindi parlando di qualcosa che sta ancora
          cercando di trovare la sua forma entro una cornice istituzionale, dove
          persino l’università incontra grandi difficoltà nel sopravvivere
          in quanto istituzione, in grado di giustificare la propria funzione.
 
 Con il nuovo Trattato di Bologna e l’indicazione di istituire corsi
          di master e di dottorato, stiamo in realtà chiedendo di trasformare
          le università in corsi di formazione. Eppure non c’è denaro per la
          ricerca. Fare il docente nel Nord Europa significa portare all’interno
          dell’Università un terzo, se non la metà, del patrimonio dei tuoi
          programmi. Le cose non vanno meglio in Inghilterra, anche da quello
          che mi risulta dalla London School of Economics.
 
 Prendiamo quindi in esame la trasformazione gestionale delle
          università. Da una parte sembrano più aperte allo sviluppo delle
          aree di studio interdisciplinare ad orientamento sociale che tengono d’occhio
          il mercato; dall’altra sono invece disastrose per uno strumento che
          volesse essere socialmente, autenticamente e politicamente rilevante,
          nel senso che si dava una volta a questa espressione. Io inserirei
          pertanto la questione delle femministe più giovani e del rinnovamento
          del femminismo all’interno di una crisi istituzionale più ampia,
          che nelle università risulta essere addirittura enorme.
 
 Altri due rapidi punti: la crisi - come hanno sottolineato anche
          giornaliste politiche come Ida Dominjanni - non è meno profonda,
          quando si tratta di definire concetti quali il sociale o il politico.
          E mi spiego: che cosa è sociale nell’era dell’informazione, della
          telecomunicazione, delle frontiere elettroniche, del
          post-insustrialismo e della globalizzazione? Dove sta il sociale? Sta
          forse qui? E che dire delle e-mail? Esiste una esplosione, o una
          implosione, nel settore sociale? Ciò non rende affatto le cose più
          facili quando si parla di rinnovare il femminismo. La stessa
          considerazione vale anche per ciò che è politico. Vedo, tra gli
          studenti e le donne più giovani che cerchiamo di educare, un grande
          desiderio di fare politica, ma anche un grande interrogativo: “Quale
          forma potrebbe effettivamente assumere, in un’epoca in cui si
          verificano tali e tante trasformazioni?”
 
 Scott: Penso che dobbiamo riconoscere come negli ultimi anni si
          sia verificata, al di là dei confini nazionali, anche una
          istituzionalizzazione del movimento femminista, che ha preso il posto
          delle precedenti forme dei movimenti sociali di massa. Non dobbiamo
          pertanto limitarci a considerare soltanto i programmi di studio delle
          donne, ma dobbiamo anche ricordare il ruolo delle Organizzazioni
          Non-Governative (Ong). Esse rispondono ai proclami e alle direttive
          delle Nazioni Unite in merito al rispetto dei diritti umani delle
          donne, proclami e direttive che sono l’esito di anni di conferenze
          dedicate alle donne. C’è quasi una specie di industria, connessa
          alle attività politiche, sociali, accademiche che riguardano le
          questioni femminile, una volta istituzionalizzate.
 
 Questa istituzionalizzazione avviene nelle università, nelle Ong, in
          relazione alla politica delle Nazioni Unite. Essa esercita pressioni
          sui governi perché raccolgano informazioni e promuovano politiche
          sociali conformi alle dichiarazioni dell’Onu. La questione è quindi
          assai più complessa di quanto pensiamo. Riguarda l’«istituzionalizzazione»
          di temi che erano finora lasciati al di fuori delle istituzioni,
          mentre ora si esercitano pressioni sulle istituzioni perché
          incrementino i processi di rappresentanza e di inclusione.
 
 Reset: In che modo, secondo voi, le questioni femministe possono
          diventare, nel corso del nuovo decennio, un tema centrale all’ordine
          del giorno dell’agenda pubblica? Ci sarà un soggetto politico,
          attori politici del femminismo? Oppure ritenete che le questioni
          femminili saranno piuttosto un tema dominante diffuso e riconosciuto
          da tutti i soggetti politici e promosso dalle istituzioni?
 
 Haraway: Quello che viene considerato come il soggetto politico è
          ovviamente una posta in gioco nella pratica reale, concreta. Se
          pensiamo al soggetto politico solo come a una sorta di rappresentante
          sul modello storico del rapporto tra la classe operaia e i suoi
          partiti, se è in qualche misura questa la nostra idea di ciò che
          conta realmente come soggetto politico, allora non riusciremo a capire
          gran parte di ciò che sta accadendo nella politica del secolo in cui
          viviamo. Ma l’alternativa non è semplicemente il soggetto politico
          disperso, ovverosia, chiunque esso sia, in qualunque luogo. Forse la
          geometria che viene chiamata in causa a proposito della tematizzazione
          del soggetto politico riguarda piuttosto i concetti di
          intersezionalità o di soggetti in congiunzione.
 
 Possiamo vedere tale pratica nelle opere di femministe che lavorano
          sull’anti-razzismo. Qui vengono sottolineate le diverse posizioni
          del soggetto, a livello nazionale, etnico e così via, in relazione
          alla differenza di genere, così come viene vissuta quotidianamente. L’accento
          viene qui posto su sistemi multipli di relazioni, oltre che sulla
          questione della repressione. I soggetti si producono come un verbo
          nella loro azione, in rapporto a coalizioni, progetti e programmi. Il
          soggetto politico in quanto tale non esiste; l’azione di
          congiunzione produce i suoi soggetti politici, che sono inseriti in
          alleanze di rapporti di vario genere. Se incominciassimo quindi a
          parlare, per esempio, con le 600 femministe che sono qui oggi a
          Bologna, potremmo iniziare a scoprire a quali reti di rapporto diano
          vita, anche sul luogo di lavoro. Ma potremmo anche trovare un ampio
          strato di femminismo trans-nazionale, rizomatico, che si è andato
          affermando, ramificando e stratificando sia nel tempo, sia nello
          spazio. Ed è questa una geometria molto migliore per comprendere oggi
          i soggetti politici. I soggetti si creano nelle situazioni cui
          appartengono. Penso veramente, quindi, che uno dei contributi più
          importanti della teoria femminista sia stato uno tipo specifico di
          immaginazione della politica. Non si può dare la «donna» come
          soggetto politico assoluto, perché proprio non funziona.
 
 Reset: Il femminismo ha ridefinito in modo assolutamente
          rivoluzionario i concetti tradizionali della modernità, criticando la
          metafisica, provocando una rivoluzione nella concezione del mondo, nei
          rapporti tra i generi, nel nostro rapporto con l’ambiente, con gli
          animali e in tante altre cose. Ma nonostante tutto questo, non si può
          tuttavia affermare che ci sia omogeneità di scuole di pensiero tra le
          studiose femministe. Come mai?
 
 Braidotti: Si tratta di una domanda estremamente complessa.
          Possiamo soltanto iniziare ad abbozzare una risposta. Cercherò di
          raccontarlo nel modo seguente, anche se è possibile usare altre
          narrazioni per spiegarlo. Il femminismo si è emancipato dalla “donna”
          in quanto classico “altro” metafisico. Ciò è accaduto in un
          periodo compreso tra gli anni sessanta e i settanta. Esiste però una
          distinzione fondamentale, direi addirittura epistemologica, tra la “donna”
          e il “soggetto femminista”. Alcune donne sono soggetti femministi,
          altre non lo sono. L’evoluzione epistemologica di un soggetto
          femminista è il vero marchio di fabbrica del femminismo moderno, o
          meglio della seconda ondata di femminismo, opposto a quello delle
          suffragette che per prime rivendicarono il diritto di voto per le
          donne. In un certo senso, quando le donne si sono liberate, si sono
          liberate anche dalla femminilità classica.
 
 E' quindi lecito chiederci: “Qual è il soggetto femminista dell’anno
          2000?”. Ma ci si potrebbe anche chiedere: “Qual era il soggetto
          femminista nel 1968? “. Era la “donna”»? Ma le donne dicevano:
          «Tremate, tremate le streghe son tornate». E a tornare sono state le
          “streghe”, non le “donne”. Per l’appunto, non volevano
          essere più “donne”. Esiste dunque una distinzione epistemologica
          e politica, che alcuni chiamerebbero “spirituale””, tra la
          femminilità, l’altro del soggetto classico, e un soggetto
          femminista che pretende di agire, di esercitare un impatto di tipo
          sociale e politico e quindi di poter fare la differenza. Possiamo
          usare questa stessa storia per dire anche che il post-modernismo segna
          il ritorno dell’”altro”, in quanto modernità. Come ho avuto
          occasione di ricordare nel mio contributo, i nativi, gli “altri”
          etnici, stanno tornando più numerosi di prima, ma il loro ritorno
          lacera l’intero tessuto della soggettività. Non tornano solo per
          dire: “Ehi, siamo qui, fateci entrare!”. Il loro ritorno manda in
          pezzi la struttura di quello che eravamo abituati a considerare il
          soggetto, e rivendicano la ridistribuzione dell’intero profitto.
 
 Mi piacerebbe narrare in questi termini la questione di donne e
          femminismo. Penso si tratti di una crisi molto positiva, perché ha
          costretto il soggetto - in particolare quello del centro, bianco e
          maschio - a guardarsi dentro. La crisi è una crisi del centro, non
          della periferia: gli altri se la cavano benissimo! È il centro che ha
          bisogno di interrogarsi. Ed è quanto è accaduto, soprattutto nel
          femminismo sud-europeo. E’ la messa in discussione e l’elaborazione
          di diversi interrogativi, che riguardano il mondo. Ma il centro non è
          ancora è in grado di accettarla. Il centro se ne sta nel suo
          splendido isolamento, totalmente analfabeta per quel che concerne la
          sua stessa crisi. Penso che la crisi sia la crisi di questo genere di
          soggetto politico, mentre gli altri soggetti politici sono attivi e
          vitali. Prendiamo Praga, prendiamo questa conferenza, prendiamo il
          femminismo trans-nazionale: non c’è alcuna crisi qui. La crisi è
          nel centro, ed è il cuore morto del centro che non ha la più pallida
          idea di che cosa fare di se stesso. Ribalterei quindi la domanda: “qual
          è secondo voi il soggetto politico del XXI secolo? E che cosa
          dovrebbe fare?”. Guardiamo alla sinistra, alla sua incapacità di
          agire in quanto tale. Guardiamo alla débacle della
          sinistra in tutta Europa. Bella sinistra che abbiamo! Quindi, la crisi
          non è dell’”altro”. È solo la crisi dello “stesso”.
 
 Haraway: Viviamo in un’epoca di incredibile proliferazione di
          nuove forme di ricchezza, di proprietà, di corpi mutati, secondo vari
          generi e grandezze: da quelli di dimensioni infinitesimali, le
          molecole del Dna, fino a quelle immense delle foreste pluviali dell’emisfero
          settentrionale. Assistiamo all’inter-conversione fra forme diverse
          di materialità, cosicché viviamo immersi in questa sorta di
          straordinaria riformulazione degli stili di vita. Biologi e
          informatici sono ormai diventati pappa e ciccia, come ben sapete. Le
          femministe sono molto attive in tutti questi settori. A volte si
          definiscono femministe, altre volte no. Sono attive nei movimenti
          delle popolazioni indigene, dove si tratta di stabilire se un gruppo
          sia una tribù o un popolo, oppure quando vengono a mutamento
          condizioni di sovranità che sfidano le tradizionali forme patriarcali
          degli indigeni.
 
 Le femministe sono attive quando devono essere definite le pratiche
          genetiche che vengono a interessare le aziende farmaceutiche. Questi
          sono in genere i temi all’ordine del giorno. Ci troviamo spesso a
          dover affrontare il problema se cooperare o meno con un progetto di
          campionatura del sangue finalizzato allo studio di una particolare
          malattia, oppure ci chiediamo quali generi di etnia e di sessualità
          emergeranno dalla genomica comparata. Stiamo andando verso medicine di
          nicchia, ovvero a medicamenti progettati per piccoli gruppi di
          popolazione: non ci saranno più solo boutique di abbigliamento,
          bensì anche boutique farmaceutiche, strategie terapeutiche fortemente
          individualizzate e razionalmente orientate. Ci chiediamo allora quali
          saranno i gruppi che potranno accedere alle terapie per ricchi e a
          quale prezzo: come saranno gestite, razionalizzate, quale genere di
          sistema bancario e distributivo della conoscenza potrà esistere.
 
 Le femministe sono attivissime su tutti questi punti, attivissime
          nello studio del genoma, nella medicina, nelle politiche relative al
          trattamento del cancro al seno, le cui problematiche si intrecciano
          con quelle sopra accennate. Questi settori, che si riferiscono a nuovi
          corpi e a nuove ricchezze, sono - a mio modo di vedere - proprio
          quella particolare area in cui il soggetto politico del femminismo
          trova oggi il proprio significato e la possibilità di ulteriori
          formulazioni politiche.
 
 Reset: In che modo questa tendenza si collega alle battaglie delle
          donne?
 
 Haraway: È parte integrante delle battaglie delle donne. Fa parte
          dell’intero tessuto, anche se non esiste la «battaglia delle
          donne».
 
 Reset: Consentitemi di chiarire ancora una volta la domanda a
          proposito delle visioni politiche che il femminismo intende oggi
          assumere. Forse voi rifiutate il paragone tra femminismo e democrazia
          sociale, nel senso che le due principali rivoluzioni del secolo scorso
          sono state la rivoluzione femminile e la rivoluzione sociale? Possiamo
          affermare che esiste un declino di questi due soggetti - il movimento
          operaio e il movimento delle donne - perché in un certo senso hanno
          raggiunto entrambi i loro obiettivi principali? C’è una sorta di
          fine temporanea di questi movimenti perché hanno conseguito i loro
          scopi istituzionali, cioè lo stato sociale e una nuova condizione per
          le donne? Oppure rifiutate questo parallelo?
 
 Haraway: Non è vero che tutti gli obiettivi sono stati raggiunti.
          Penso al mercato internazionale del sesso, alle miserabili condizioni
          di donne e bambini che lavorano in aziende che li sfruttano
          ignobilmente in tutto il mondo, certamente anche a Los Angeles e a San
          Francisco, non soltanto a Manila. Questi obiettivi sono ben lontani
          dall’essere acquisiti, sia che si tratti degli obiettivi
          tradizionali della socialdemocrazia, sia di quelli del femminismo.
          Sono stati solo da poco - anche se moderatamente - raggiunti,
          istituzionalizzati, ma solo in alcune regioni del mondo.
 
 Braidotti: In merito al movimento operaio, io, che vengo dal
          Friuli, mi chiedo oggi: «Chi è il lavoratore del terzo millennio nel
          nord-est di questo paese?». Non è forse una domanda interessante? La
          classe operaia si è completamente fusa con il concetto di etnia,
          immigrazione, cittadinanza parziale e flessibilità, che significa
          insicurezza strutturale. Ma non possiamo dire che non esista il
          movimento operaio, perché esiste: sono gli addetti alle pulizie dei
          ristoranti McDonald, a salario zero…
 
 Scott: Penso che dissociare il soggetto politico dal contesto
          storico in cui lavora sia un grosso errore. Non possiamo dire che il
          soggetto politico del XIX e XX secolo - lavoratori e donne - abbiano
          raggiunto i loro obiettivi, per cui non sia rimasto loro più nulla da
          fare. Significherebbe ignorare il contesto storico ed economico in cui
          operano o hanno operato. Ciò che sta descrivendo Rosi è la
          trasformazione dell’economia e della politica, che rende obsoleti
          questi soggetti come modalità di stabilire una serie di richieste
          politiche e sociali. Quel che vogliamo dire è che oggi ci troviamo in
          una situazione nella quale le forme tradizionali dell’organizzazione
          e della soggettività politica non sono più adeguate per affrontare
          le questioni della razza, dell’etnia, del capitalismo globale, delle
          nuove forme di tecnologia, delle nuove abitudini e delle nuove
          concezioni del corpo e così via. C’è bisogno di qualcosa d’altro,
          diverso da quello che aveva funzionato benissimo nel XIX secolo e
          parzialmente nel XX secolo.
 
 Reset: La risposta, quindi, è «no, perché abbiamo nuove
          priorità».
 
 Braidotti: E un mondo di compiti nuovi.
 
 Haraway: ...basato su problemi diversi.
 
 Mitchell: Concordo su quanto è stato detto. Penso però che sia
          molto importante sottolineare anche la specificità delle donne in
          relazione alle domande poste. In Gran Bretagna, di fatto, le donne si
          trovano sempre più spesso al livello più basso di incertezza
          economica; la loro situazione sociale va peggiorando; le madri singole
          stanno molto peggio degli operai o di molti gruppi di disoccupati. Le
          madri singole occupano una ben distinta categoria di povertà. E
          questo avviene nel Primo mondo. Altre domande, cui non pensiamo quando
          parliamo di «globalizzazione», e lo trovo terribile, riguardano l’incremento
          della mortalità e malnutrizione. Quindi, mentre i paesi occidentali
          diventano sempre più ricchi, in altri paesi i bambini continuano a
          morire e a essere denutriti, anzi lo sono sempre di più.
 
 Faccio riferimento al lavoro di una collega e amica che opera in
          Ghana, ed è consulente dell’Ilo per le tematiche femminili. Ha
          preso in esame la globalizzazione considerandola nel contesto di
          quanto è accaduto a donne e bambini. Ora, se le donne sono madri e i
          loro figli muoiono sempre di più mentre la ricchezza aumenta, questo
          ci dice qualcosa riguardo alla condizione delle donne. Studiando le
          fasi iniziali dell’industrializzazione, gli storici hanno
          sottolineato che i nuovi modelli di occupazione femminile avevano
          trasformato i modelli di mortalità dei bambini e delle dimensioni
          delle famiglie. Quel che accade oggi, è che il lavoro femminile sta
          cambiando. Si stanno in parte urbanizzando per poter lavorare,
          cambiando anche la natura del lavoro agricolo femminile, in quanto non
          stanno più a casa e non possono dunque allattare al seno i propri
          figli. Pertanto, l’allattamento al seno diminuisce, il latte Nestlé
          aumenta.
 
 Il problema è che si tratta di latte in polvere. Ma per il latte in
          polvere ci vuole l’acqua, che dev’essere sterilizzata, e
          ovviamente sterilizzare l’acqua in queste condizioni è difficile e
          pericoloso. E poi non c’è abbastanza acqua. A questo si aggiunge il
          fatto che viene meno la contraccezione naturale che si verifica
          durante l’allattamento al seno, ma anche la contraccezione
          culturale, che deriva dall’evitare i rapporti sessuali durante l’allattamento.
          Le gravidanze diventano quindi molto più ravvicinate, e di
          conseguenza diminusice l’assistenza per i bambini. Si tratta di
          problemi che riguardano da vicino anche le madri singole, le ragazze
          madri del Primo mondo, mentre nei paesi in via di sviluppo le
          questioni sono soprattutto correlate al cambiamento dei modelli di
          occupazione femminile. C’è quindi un legame, ritengo, tra le donne
          di tutto il mondo. Perciò sono d’accordo con l’apertura alle
          questioni etniche e razziali, così da poter considerare e mettere a
          tema, in modo estremamente concreto, l’attuale condizione delle
          donne.
 
 Haraway: Posso confermare ciò, anche sulla base di un libro di
          Nancy Shepherd dal titolo 'Death without Weeping' (Morte senza
          piangere). La Shepherd ha dato un nome a questo fenomeno: la “modernizzazione
          della mortalità infantile”. Qui si sostiene che per quanto riguarda
          la mortalità infantile e materna il miglioramento è di norma un
          segno distintivo, caratteristico della diffusione della democrazia,
          degli stati nazionali e del benessere sociale. Ma esiste una forma
          molto specifica di mortalità infantile dovuta a diarrea, che è
          direttamente collegata ai paesi occidentali, e non solo al Terzo
          mondo. Si tratta ovviamente di preoccupazioni che sono cruciali per le
          femministe, ma che non soltanto per loro.
 
 Braidotti: Vorrei rispondere alla stessa domanda, a partire da un
          diverso punto di vista. Se la domanda è «Ci sono nuove generazioni
          politiche impegnate nel rinnovamento del femminismo?» «Esiste un
          nuovo femminismo politico in fieri o è già attivo?», allora la
          risposta è certamente «Sì». Oggi sono già attive diverse
          generazioni di nuove femministe politiche. Se ne possono osservare
          alcune in questa conferenza; altre si possono incontrare un po’
          ovunque. Sono molto inserite nel tessuto locale, molto localizzate, ma
          anche dis-locate. Sono le figlie dell’Unione Europea, in questo
          continente; sono le figlie dell’economia globale in un continente di
          nuovo tipo, dove si sentono perfettamente a loro agio davanti a fatti
          verso i quali noi proviamo ancora disagio: la nostra generazione non
          è a suo agio davanti alle identità ibride.
 
 Anche nella loro sessualità, sono perfettamente abituate alla
          non-definizione, a rifiutare ogni etichetta. Hanno un atteggiamento
          molto critico nei confronti delle etichette, anche verso quelle
          radicali delle generazioni che le hanno precedute. Pensiamo alla
          performance che è stata preparata per questa conferenza dal gruppo
          “Next/Genderation”. Stanno percorrendo una strada che è tutta
          loro, perfettamente consapevoli dei gap generazionali, del loro venire
          5 o 6 generazioni dopo il primo femminismo, e ne sono fiere. Sono
          anche corporative per quanto riguarda l’età: l’età è una
          categoria politica nell’Europa di oggi. In un certo senso, non era
          così per chi ha fatto le rivoluzioni del 68 e nemmeno del 77.
 
 Oggi l’età è una categoria politica in termini di salute, di
          aspetto esteriore e di possibilità di lavoro, e anche in termini di
          prospettive elettorali. C’è maggiore solidarietà nei gruppi di
          pari età di quanta ve ne sia in gruppi accomunati dall’appartenenza
          sessuale. Ragazzi e ragazze della stessa età sono più legati tra
          loro di quanto potrebbero esserlo con persone dello stesso sesso, ma
          di una diversa generazione. C’è un gran bisogno di radicalismo.
          Loro salgono sui treni e si accalcano in piedi per dieci ore a Praga
          perché vorrebbero fare a pezzi l’Fmi. C’è un gran bisogno di
          azione diretta. Almeno, questo è quello che vedo io oggi in Olanda, e
          mi preoccupa profondamente. In effetti, se vai e spacchi qualche
          vetrina o finestra, dopo ti senti meglio? La realtà virtuale è
          diventata per loro troppo virtuale, e si avverte fortemente la
          sensazione che le istituzioni vanno usate principalmente come mezzi
          per i propri fini.
 
 C’è una specie di pragmatismo, quando si sa come sfruttare la
          situazione per conseguire i propri scopi. Questa generazione sa anche
          come usare le risorse dei media. Sanno come realizzare una
          presentazione efficace, come vendere qualsiasi cosa. Sono
          perfettamente a loro agio con i poteri istituzionali, anche se non si
          definiscono, fondamentalmente, in rapporto a ciò. Hanno modi
          completamente diversi di fare politica e assumono posizioni totalmente
          diverse nei confronti della società, modi che sono certamente molto
          diversi dai miei e da quelli della mia generazione di quarantenni. Non
          parliamo poi di quelli delle generazioni precedenti.
 
 Reset: Sulla base delle vostre considerazioni, quale potrebbe
          essere il modello dei rapporti di genere che ci sta venendo incontro
          nei prossimi anni dal punto di vista delle abitudini, dello stile di
          vita, dei rapporti di forza tra i generi e così via?
 
 Braidotti: Qui possiamo osservare diverse generazioni di
          femministe. La generazione X più vecchia, la generazione Y più
          radicale e arrabbiata. La generazione X non va a Praga. La generazione
          Y va a Praga, e ha appena dai 20 ai 23 anni. Hanno troppa Internet,
          troppi modem. Adesso vogliono un po’ di vita vera, vogliono che
          succeda qualcosa. La generazione X quindi è pronta ad andare in
          pensione, perché non è vendibile, non è capace di vendersi ai
          media. Si infuria con i media che sfruttano i loro corpi: Clavin Klein,
          le anoressiche, i corpi perfetti. Ci tengono al loro corpo, ma sono
          furiose per il modo in cui le ragazze sotto i trenta sono state
          fabbricate, impacchettate e date in pasto ai media sotto forma di
          corpi da desiderare.
 
 La generazione Y non si preoccupa minimamente di come si veste, e
          rifiuta completamente l’estetica della generazione X: Uma Thurman è
          «passé». Le questioni intergenerazionali e il pronto consumo stanno
          conoscendo una accelerazione rapidissima. Le nuove generazioni sono
          formate da consumatori accorti, di buon senso. La generazione X ha
          consumato quella dei baby-boomers, la generazione Y ha già consumato
          la generazione X. E chissà come sarà e che cosa farà la generazione
          W. Di conseguenza, c’è una fortissima accelerazione in termini di
          moda, di pastiche, di collage, di riciclaggio dei media, di
          spaventosa capacità di cancellare e riscrivere. Dove troveranno la
          loro identità, dobbiamo ancora scoprirlo.
 
 Reset: Rispetto al tema della trasformazione dell’identità di
          genere e dei rapporti tra i sessi, una domanda potrebbe riguardare
          anche il fatto che gli uomini si stanno prendendo sempre più cura del
          loro corpo. Secondo voi, perché anche gli uomini hanno sviluppato
          questa sorta di sensibilità psicofisica nei confronti del loro corpo?
          È possibile che la trasformazione del corpo femminile abbia
          contagiato anche gli uomini?
 
 Braidotti: I pochi uomini che hanno accettato che il processo di
          cambiamento entrasse nelle loro esistenze non erano baby-boomers. I
          baby booomers si sono aggrappati alla loro identità come si fa in
          tempo di crisi. La mascolinità era in crisi, ma era pur sempre
          mascolinità. La crisi, per i baby-boomers, è diventata il modus
          vivendi della mascolinità. Prendiamo il pensiero debole, il
          postmodernismo, prendiamo Bill Clinton: sono perennemente in crisi, e
          vanno avanti benissimo così. La crisi è diventata il modus vivendi
          di una generazione che dal cambiamento è stata appena scalfita. Io
          tendo ad essere molto dura con questa generazione che non ha raccolto
          la sfida del cambiamento.
 
 La generazione successiva è tutta un’altra storia. Adoro questi
          ragazzi. Sono i figli dei baby-boomers; hanno modelli di mascolinità
          del tutto diversi. Hanno lavorato molto di più per distruggere alcuni
          stereotipi, per cercare di inventare modi diversi di essere uomini, e
          in realtà sono estremamente produttivi. Se ne vedono alcuni qui
          attorno. Alcuni diventano più androgini, alcuni sono indecisi, alcuni
          sono decisamente gay. Ma c’è più di una rinegoziazione in corso.
 
 Scott: Hai trascurato però quello che più mi colpisce nelle
          avanguardie, almeno negli Stati Uniti, cioè la questione del “trans-genere”.
          Ci sono studenti, appena ventenni o poco più, che rifiutano di essere
          catalogati in un genere ben preciso, o in entrambe le direzioni. In
          alcuni casi adottano semplicemente un abbigliamento trasversale all’altro
          sesso; in altri casi assumono farmaci e ormoni per ottenere le
          caratteristiche secondarie del sesso a cui non appartengono. I ragazzi
          stanno realmente trasformando i loro corpi, per rifiutare una semplice
          assegnazione diretta a una categoria di genere piuttosto che a un’altra.
          Ci sono ragazzi con barba e vagina, che hanno rapporti tra loro, che
          non hanno una posizione specifica, chiaramente assegnata, maschile o
          femminile, almeno per come noi pensiamo di conoscere questi termini.
          Sono queste persone quelle che mettono più radicalmente in
          discussione gli standard dell’assegnazione del genere.
 
 Haraway: Ragazzi così frequentano anche le mie lezioni. Li
          riconosco. Non posso nemmeno dire ragazzi o ragazze, perché so che ci
          sono anche queste persone, e sono persone estremamente interessanti.
          Possiamo vedere tipi incredibili, tutti intenti a costruirsi enormi
          muscoli in palestra, che adottano stili di espressione facciale, di
          pettinatura e di abbigliamento, di prestanza fisica e di elementi
          olfattivi tipici di una mascolinità giovane, a volte molto razzista,
          anche se c’è uno straordinario influsso della cultura africana e
          afro-americana sui ragazzi bianchi. Insomma, credo che il ritratto
          della categoria di genere sia oggi estremamente complesso.
 
 Mitchell: Mi sento una vecchia reazionaria. Credo infatti che
          dobbiamo collocare questo tema anche nel contesto del fatto che il
          mondo occidentale si sta avvicinando alla crescita zero. Questo
          fenomeno esula dalla riproduzione e dal fatto che la gente abbia o
          meno figli. Quindi non possiamo accontentarci di celebrare questa
          sorta di natura rivoluzionaria, perché ancora non abbiamo avuto modo
          di metterla alla prova.
 
 Haraway: Io festeggerei la fine di una eccessiva riproduzione!
 
 Braidotti: Io festeggerei il fatto che a livello sociale si sia
          realizzata la separazione tra sessualità e riproduzione, che almeno
          sia stata accolta e assorbita la lezione della psicanalisi freudiana.
          Quali sono le implicazioni di questo genere di sessualità, nel senso
          del divenire disincarnati? O ancora, che cosa significa ottenere un
          altro corpo, che non è più il corpo riproduttivo, adatto alla
          procreazione? C’è un grosso salto, un vuoto nel nuovo millennio.
 
 Mitchell. È esattamente questo che volevo introdurre in questo
          dibattito. Non si tratta più del corpo riproduttivo, anzi va
          direttamente contro il corpo riproduttivo, e mettendolo alla prova. In
          tal caso, la sperimentazione diventa alla portata di tutti, ma non è
          più sperimentazione.
 
 Scott: Credo che sarebbe un errore porre un’enfasi eccessiva sul
          determinismo della riproduzione, perché per centinaia di anni, e
          addirittura prima dell’avvento di un sistema affidabile di controllo
          delle nascite, una forma di separazione tra sessualità e riproduzione
          è sempre esistita. Pensiamo a quello che facevano le famiglie
          borghesi, e addirittura quelle aristocratiche: la famiglia legittima
          in contrapposizione alla famiglia illegittima. Penso quindi che
          possiamo scorgere ora nuovi aspetti, ma che si tratti comunque di un’altra
          manifestazione di quella separazione tra sessualità e riproduzione
          che ha una lunga storia - una storia molto più lunga di quella
          recente.
 
 Mitchell: Quello che c’è oggi di diverso, secondo me, è che
          questo fenomeno sta diventando centrale. La separazione tra
          sessualità e riproduzione sta diventando la forma egemone, centrale e
          borghese. Non è emarginata; non riguarda la differenza tra vita
          domestica e prostituzione. Non ci sono prostitute separate, non
          finalizzate alla procreazione, non riconosciute per la sessualità
          riproduttiva. La sessualità senza procreazione oggi è al centro
          della famiglia borghese.
 
 Scott: Ma sai bene che le famiglie borghesi non esistono più.
 
 Haraway: Ce n’è ancora qualcuna in circolazione.
 
 Braidotti: Ma non tra quei ragazzi!
 
 Haraway: Penso comunque che ci sia un’altra serie di temi che si
          vanno affacciando: la riformulazione di corpi che non saranno
          biologicamente in grado di riprodursi. È ben altra cosa dal dire:
          «Quelli non vogliono prendersi cura dei bambini», oppure non
          vogliono essere coinvolti nel fare e partorire bambini. Penso anzi che
          la questione dei bambini sia separata dal tema della procreazione,
          anche se spesso in modi che vengono eccessivamente gonfiati nei vari
          dibattiti sulla clonazione, l’ingegneria genetica, la riproduzione
          in vitro o altre forme di procreazione assistita. Sono problemi che
          sono allo stesso tempo reali e gonfiati. Entrambi assolvono la
          funzione di una sorta di metafora paradigmatica, per quanto si tratti
          di pratiche concrete, reali. Vedo anche, tra i miei studenti e in
          molte altre persone, nuove forme di rapporto con i bambini, per quanto
          riguarda non solo l’avere figli, ma anche l’aver cura di loro. Non
          mi è quindi chiaro se queste nuove “incarnazioni” rimarranno
          senza figli per il fatto che non sono in grado di riprodursi.
 
 Braidotti: Per me non è chiaro se queste nuove forme di
          incarnazione debbano codificare necessariamente o esclusivamente una
          immagine transessuale. Penso che l’iconografia transessuale eserciti
          un grande fascino in questo periodo, che le proviene da un numero di
          fonti diverse. Mi sembra - tra le altre cose - che si possa
          considerare come l’ultima ondata di una immaginazione di tipo
          gotico, che abbiamo ricevuto tramite il post-modernismo. È un fascino
          che contiene diversi tipi di incrostazioni, di inclusioni
          frankesteiniane, mostruosità, tecno-teratologie della postmodernità,
          come le ho chiamate nel mio ultimo libro. Ma questa non è che una
          delle molteplici iconografie attuali. Vi sono anche immagini di
          fusione, di confusione; vi sono immagini di esseri angelici che
          restano al di sopra e al di fuori dei giochi, immagini di metamorfosi
          in insetti, immagini di imitazione delle macchine.
 
 Possiamo trovare iconografie di ogni genere, ma oggi nel femminismo
          esiste una egemonia della immagine transessuale che non mi sento di
          condividere. È solo per via della mia genealogia, del mio essere
          profondamente e concretamente incarnata in un corpo, del mio sentirmi
          molto femmina. Mi preoccupa: perché dovrebbe essere questo il
          paradigma della ridistribuzione dell’identità sessuale? Perché il
          modello deve essere questo, e non quello di una trasformazione in
          insetti, che significherebbe uscire dal puramente umano? Può essere
          un po’ provocatorio, ma io la inserirei tra le possibili immagini.
          È in corso una lotta a proposito di quale sarà l’immagine sessuale
          che finiremo per innestare su queste forme radicali di nuova
          incarnazione.
 
 Mitchell: Non credi che la gente sia già arrivata a un qualche
          insieme di cambiamenti immaginati? Voglio dire: sesso e procreazione
          sono sempre stati separati. Ma oggi noi attraversiamo questo confine
          secondo modalità diverse. La gente ha sempre immaginato figure
          androgine, chimere e grottesche. Nella Metamorfosi di Kafka,
          Gregor Samsa è una specie di scarafaggio. Come sapete, esiste una
          lunga storia di modalità di immaginare i cambiamenti genetici. In un
          certo senso, quel che c’è oggi di diverso è il fatto che
          possediamo gli strumenti tecnologici per realizzarli, per attraversare
          i confini tra generi e specie. Nel suo discorso, Donna ha parlato di
          questo tema in termini di genoma canino e di donna/cane. Questi temi
          sono oggi, di fatto, tecnologicamente possibili.
 
 Haraway: La salute è una delle fonti principali di nuova
          ricchezza. Non si tratta solo di mezzi tecnologici, per quanto in
          questo settore vengano investite enormi quantità di denaro. La
          riformulazione della bio-materia come forma di ricchezza è un tema
          già grandissimo, destinato a diventare ancora più grande. Questo
          significa che non è solo questione di possibilità tecnologica; ci
          sono anche interessi estremamente seri su questo, dal punto di vista
          delle nuove forme di accumulazione di capitale.
 
 Braidotti: Direi che abbiamo nuove tecnologie, ma stiamo
          innestando su di esse le immagini sbagliate. Il problema è che non
          abbiamo le immagini adatte al genere di incarnazioni che già viviamo,
          e al tipo di tecnologie che noi stessi abbiamo inventato: perché
          queste tecnologie, di fatto, vengono da noi. Abbiamo quindi un ritardo
          del nostro immaginario e delle leggi a questo riguardo. Dobbiamo
          riscrivere il copione dell’immaginario, perché la nostra realtà
          materiale incarnata è in una fase di transizione. Non tutto il nostro
          mondo è un mondo alieno. Perché allora dobbiamo servirci di un
          immaginario del XIX secolo, per una situazione del XXI secolo? Perché
          non inventiamo nuovi paradigmi? In filosofia, questa è una domanda
          cruciale da 50 anni a questa parte: noi non stiamo rappresentando
          queste realtà a noi stessi, all’interno della nostra creatività.
          Di conseguenza, ce ne usciamo con vecchi copioni. E allora, ecco
          sempre lo stesso racconto gotico dell’Ottocento, mentre noi ci
          troviamo invece sull’orlo di qualcosa di completamente altro. Il
          fatto è che ci manca il repertorio.
 
 Mitchell: Vorrei tornare su questo tema citando il mio lavoro
          clinico di consulente in un ospedale inglese. Nel mio reparto ho a che
          fare con molte persone che si vogliono sottoporre ad esperimenti di
          cambiamento transessuale. Mi trovo dunque di fronte anche ad una
          quantità enorme di documenti. Tuttavia c’è una necessità assoluta
          di opporsi a quel che sta facendo la gente. Vi è quindi anche questa
          specie di guerra contro i cambiamenti di sesso.
 
 Braidotti: Stai sostenendo allora che l’immaginario transessuale
          potrebbe non essere, in realtà, il corpo transessuale?
 
 Mitchell: Be’, in effetti volevo dire proprio questo. Ma è
          anche il suo contrario. Il nostro immaginario ci può essere, ma in un
          certo senso la tecnologia limita questo immaginario rendendolo
          possibile e reale. E ciò in certo modo limita l’immaginario in sé.
 
 Braidotti: Allora secondo te il principio di realtà è all’interno
          della tecnologia?
 
 Mitchell: Sì, esatto.
 
 Reset: Pensate che l’immaginario visionario sia oggi utile? E
          perché? Potrebbe esserlo anche l’utopia?
 
 Haraway: Le fantasie di speranza sono sempre utili. Ma non credo
          in realtà che le utopie siano necessarie oggi. Penso piuttosto a
          qualche genere di percezione di come le cose potrebbero stare
          altrimenti. Abbiamo bisogno di persone in grado di immaginarlo per noi
          - realizzandolo, mettendolo in pratica. Credo che ne abbiamo bisogno
          come parte del nostro lavoro congiunturale, e allo stesso modo ci
          occorrono immaginazioni fervide, in grado di percepire come il mondo
          non dovrebbe essere. Ci occorrono immaginazioni al di fuori delle
          determinazioni. Non è la stessa cosa dell’aver bisogno di un’utopia.
          Sono stanca della trasgressione fine a se stessa.
 
 Scott: Siamo arrivati storicamente a un punto in cui ogni
          possibilità di immaginare intere utopie di trasformazione in grado
          davvero di redimere, di cambiare il mondo intero e di renderlo
          migliore, è svanita del tutto. Sono perfettamente d’accordo con
          Wendy Brown, una politologa americana, che sostiene come sia ormai
          venuta meno quell’idea di progresso - appartenente alla visione
          ottocentesca della storia - secondo la quale a salvarci sarà il
          cammino della storia sempre rivolto verso il progresso, verso un mondo
          migliore. Ed è venuta meno per una serie di motivi, tra i quali c’è
          il fallimento della possibilità comunista come alternativa al
          capitalismo. Quindi la diffusa fiducia della gente nella storia come
          progresso, e nel fatto che la storia ci porterà qualcosa di meglio
          rispetto all’esistente, è ormai finita. E ciò solleva un’altra
          domanda: come è possibile immaginare il futuro?
 
 In mancanza di un quadro completo del futuro, che è stato
          estremamente negativo ma anche estremamente positivo, nella sua
          capacità di mobilitare politicamente tante persone, che cosa possiamo
          fare? Come potremo capire verso quale direzione stiamo andando? Come
          potremo comprendere i cambiamenti, se non pensiamo di avere una
          direzione storica necessaria? Credo che sia questo il dilemma della
          politica del XXI secolo.
 
 Reset: Abbiamo quindi a che fare con nuove iconografie, dovute
          anche alla fine di forme tradizionali di pensiero teleologico. Ma per
          tornare alla tecnologia, all’immaginazione e alla sperimentazione,
          vorrei ritornare all’intervento di Haraway fatto qui a Bologna, in
          merito al rapporto tra i cani e gli esseri umani, alla possibilità di
          mischiare organismi, macchine e genere. Mi sembra si tratti più che
          altro di una specie di quadro visionario, di fantasia più che di
          realtà.
 
 Haraway: Invece è lavoro quotidiano per molti laboratori in tutto
          il mondo. È una fantasia già molto realizzata. Penso che abbiamo
          sopravvalutato l’immaginario, e sottovalutato la pratica materiale
          mondana. La prassi di inserire pezzetti di un organismo in un altro
          organismo, con uno scopo preciso, è diventata ormai del tutto
          normale. Frammenti di genoma del lievito sono stati trapiantati negli
          organi di una pecora allo scopo di produrre determinate
          immunoglobuline destinate a essere vendute per una particolare nicchia
          di mercato, collegata a certe malattie del metabolismo. E questo è
          solo il procedimento di un progetto particolare, ma questo tipo di
          prassi è ormai comune e diffuso. In realtà coinvolge molti
          interessanti tipi di nuove discipline, procedure di laboratorio e
          problemi di marketing. Sbaglieremmo di grosso a considerare questo
          fenomeno come una sorta di mondo fantastico.
 
 Quel che cercavo di spiegare nella mia conferenza, era la necessità
          di insistere sul mondano, sul comune e consueto. La necessità di
          comprendere e afferrare il quotidiano. Stiamo sopravvalutando la
          natura del fantastico nel nostro mondo, e sottovalutando la realtà.
          Il gioco che dobbiamo giocare già si chiama così, e non è né buono
          né cattivo: per potervi partecipare, è necessaria la nostra miglior
          capacità immaginativa, il massimo dei nostri sforzi fisici e dei
          nostri interessi intellettuali. Capite quel che sto cercando di fare?
          Sto cercando di rendere meno apocalittiche queste nuove realizzazioni.
 
 Reset: Mi piacerebbe riprendere la domanda sull’utopia, l’immaginario,
          la realtà e la fine della teleologia nella storia. Ma ciò significa
          anche la fine della filosofia della storia per il movimento femminista
          in quanto soggetto politico compatto. Oggi abbiamo scuole di pensiero
          differenziate, storie e culture differenziate. Abbiamo diverse
          modalità di femminismo: esperienze provenienti dall’Europa, dall’America
          ma anche da paesi in via di transizione o di sviluppo. All’inizio
          del nostro dibattito abbiamo cominciato col dire che al di là delle
          differenze culturali e generazionali, il pensiero e il movimento
          femminista resta sempre trasversale rispetto ai confini nazionali e
          culturali. Ma rimane non soltanto in quanto pensiero politico e
          critico, ma anche in quanto riflessione teoretica ed epistemologica,
          capace al tempo stesso di riformulare la tradizionale teoria della
          conoscenza e di comprendere lo sviluppo delle nuove tecnologie. Come
          possiamo concludere questa conferenza? Forse semplicemente chiedendo:
          che facciamo ora? E dopo?
 
 Braidotti: Non si può fare. Sarebbe impossibile concludere una
          conferenza come questa, stabilendo una linea. Quel che speriamo di
          riuscire a fare è di offrire una buona cartografia delle tendenze
          attuali, di quello che sta accadendo, di quali siano le forze in
          gioco. Esiste certamente una generazione del rinnovamento. Siamo
          certamente alla fine di un certo tipo di modo progressista teleologico
          di guardare al movimento sociale del femminismo. Siamo certamente alla
          fine della differenza sessuale essenzializzata della femminilità, che
          in Italia ha prodotto un impatto enorme. Siamo certamente in presenza
          di un nuovo rapporto con le tecnologie. Ma speriamo che ci sia anche
          un nuovo dialogo con le femministe americane, e queste sono alleanze
          transatlantiche, transnazinali, davvero importanti. Sarebbe comunque
          molto ingiusto considerare Joan Scott e Donna Haraway semplicemente
          come «le americane».
 
 Sono così vicine a noi, così in sintonia con noi, che questa è
          davvero un’etichettatura che dovremmo evitare. Il nostro obiettivo
          era di delineare una mappatura, una sorta di lettura, l’istantanea
          di una situazione, sapendo che è un po’ come una mappa
          meteorologica, destinata a cambiare già domani perché la situazione
          si evolve con una rapidità vertiginosa. Se riuscissimo a far capire
          con chiarezza ai media che stanno accadendo tante cose nuove; se
          riuscissimo a far vedere che cosa sta succedendo tra le giovanissime,
          che si considerano ancora come femministe anche se voi operatori dei
          media e noi, vecchie femministe, possiamo non riconoscerle come tali.
          Se questo messaggio riuscisse a superare i confini di questa
          conferenza, potremo dire che è stata un successo. Nel corso della sua
          performance durante questa conferenza, il gruppo Next/Genderation,
          composto da donne più giovani, ha ben chiarito questo punto:
          «Vogliamo questa etichetta, vogliamo questa categoria, ma intendiamo
          ridefinirlo in modo tale, che voi rischiate di non riconoscerlo». Il
          femminismo sta andando avanti, e quanto più diventa diverso, tanto
          più può diventare migliore.
 
 (Traduzione di Anna Tagliavini)
 
 
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