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Il dovere della testimonianza



Edith Bruck con Maria Teresa Cinanni


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Nata in Ungheria da una famiglia ebraica, Edith Bruck ha subito le discriminazioni razziali e la deportazione a soli 12 anni. Sopravvissuta ad Auschwitz, dove ha perso i genitori e alcuni parenti, ha vissuto tra l’Ungheria e l’Italia, ove si è stabilita definitivamente nel 1954, dedicandosi scrupolosamente agli studi che il nazismo le ha impedito di compiere, frequentando i circoli letterari dell’epoca e diventando amica di Montale, Ungaretti, Luzi e, soprattutto, di Primo Levi, cui la lega la medesima esperienza passata e le difficoltà di integrazione presenti. Sollecitata da questo “amico fraterno” e dall’impellente bisogno di testimoniare, perché il mondo non dimenticasse quell’atroce e lucida follia, ha cominciato le sue peregrinazioni per le scuole italiane ed europee, dove racconta agli studenti la sua esperienza nei campi di concentramento. La necessità di mantenere viva la memoria della Shoah sta alla base della sua scrittura di autodidatta. Fra le sue pubblicazioni Nuda proprietà, L'attrice, Il silenzio degli amanti, Chi ti ama così, Transit, Due stanze vuote.

Edith Bruck ci parla della particolare situazione degli ebrei italiani all'epoca delle persecuzioni antisemite, del valore della testimonianza, e dell'importanza storica di Miklos Radnoti*, l'unico autore che sia riuscito a raccontare attraverso la poesia la propria esperienza in un campo di concentramento nel momento stesso in cui la viveva.


"L’Italia era una nazione impreparata alla ghettizzazione e allo sterminio - afferma Edith Bruck - lo testimonia l’aiuto che gli italiani cercarono di dare agli ebrei ricercati, offrendo loro nascondigli e improvvisando sotterfugi, e, ancor di più, il fatto che, anche dopo il lager, noi ebrei fummo accolti benevolmente dalla popolazione italiana. Ricordo la mia esperienza di ragazzina sballottata per l’Europa e poi finalmente accolta in una grande famiglia sconosciuta, disposta a dividere con me la minestrina della cena o il pasto di mezzogiorno. Era l’Italia degli anni ’50 che, dietro tante contraddizioni, celava però un calore umano che sapeva ancora di guerra e di miseria. E di memoria viva".

Una visione quasi idilliaca dell’Italia, conforme a ciò che Attilio Milano scrive a proposito della spiegazione etimologica che tutti gli ebrei davano della parola Italia, in yiddish J-tal - yak,cioè "isola della rugiada divina"?

"Conosco questa spiegazione, ma io non vedo l'Italia esattamente così. Amo questo Paese, ma ciò non mi impedisce di denunciare quelle che sono le sue innumerevoli carenze, soprattutto politico-istituzionali. Mi dispiace constatare che chi per decenni ha avuto in mano le redini del paese non è riuscito a dare l’esempio necessario a modellare le nuove generazioni educandole all’onestà privata e pubblica".


 

Che rapporti ha invece con l’Ungheria, il suo Paese natale?

"Mi manca, e cerco di tornarci spesso. Ma non dimentico che è stata proprio l'Ungheria a darmi in pasto ai leoni e a uccidere barbaramente i miei genitori. Credo comunque che la nazione d’appartenenza abbia un’importanza relativa e che ognuno possa rimanere se stesso indipendentemente dal contesto in cui vive".

Che rapporti aveva con la sua famiglia?

"Da bambina mi sentivo amata, ma non capita. Mia madre credeva che Dio fosse ovunque, sapesse e potesse tutto. Aveva una fede assoluta e austera dove non c’era posto per i miei dubbi di bambina precoce e piena di perché. Le rare volte in cui le ponevo qualche domanda lei, anziché rispondere, alzava gli occhi verso l’alto chiedendo perdono per me, figlia idealista e piena di sogni, come il padre"

La sua “ebraicità” è cambiata rispetto alla sua infanzia?

"Essere ebrea già di per sé comporta un destino avverso, ma è un'identità che resiste persino ad Auschwitz, non legata alla fede o ai precetti, ma a qualcos’altro, di indefinibile. Forse possono autodefinirsi solo coloro che hanno i propri vivi e i propri morti sullo stesso suolo. Io su quale tomba avrei potuto pregare e portare i fiori? Sulla bocca del crematorio che ha inghiottito mia madre e mio fratello? O in qualche campo coltivato e concimato con ciò che era rimasto di mio padre? Chi ha perso anche le tracce dei propri morti è privato di una terra che possa dire sua".


Lei continua a portare la sua testimonianza nelle scuole?

"E’ il mio compito e il mio tormento. Tante volte ho rifiutato gli inviti, stanca e oppressa dai miei stessi racconti, ma alla fine credo sia dovere di noi pochi superstiti rinnovare il ricordo, portare la nostra testimonianza, far sì che la memoria non perisca con la nostra morte. Dinanzi a scolaresche attonite, mi sono più volte sentita in colpa per ciò che stavo narrando. Che diritto avevo di turbare la loro infanzia? Così smettevo per un po’, ma la parola, dono e tormento dei nostri ricordi, mi spingeva a proseguire, a ricominciare da capo, esattamente dal momento in cui “gli aguzzini” si impossessarono di me, rendendomi per sempre una vittima. Il sopravvissuto non può andare 'oltre', si barcamena per una vita tra i lacci di una memoria cui non si scappa e il desiderio di liberarsi dal peso insopportabile di un passato che lo inchioda nel ruolo di 'testimone'".

Testimonianza che spesso sfida tutto e tutti, come nel caso del poeta Miklos Radnoti, suo connazionale?

"Radnoti rappresenta un caso unico nella storia della letteratura ebraica: il solo poeta che è riuscito a comporre anche all’interno del campo di concentramento ove era rinchiuso. L’unico deportato che ha dato una testimonianza 'in diretta' di ciò che stava avvenendo. Le sue poesie dal lager, raccolte nel 'Taccuino di Bor', sono un monumento per l’umanità, un po’ come il 'Diario di Anna Frank'. Per noi sopravvissuti, inoltre, i libri di testimonianza sono doppiamente preziosi, perché rivelano gli eventi di ieri all’oggi e al domani, scuotendo l’umanità dalla comoda smemoratezza in cui si rifugia mistificando la storia, e perché permettono il perpetuare della cultura ebraica, da sempre basata sul racconto e la testimonianza. Una cultura la nostra in cui è difficile scindere i singoli autori dalla loro origine, da un destino spesso comune anche per chi ignora la lingua yiddish o ha optato per la conversione, come Radnoti".

* Miklos Radnoti, nato a Budapest nel 1909 e morto nel 1945 nel campo di Bor, durante la marcia forzata, fu, come la maggior parte degli appartenenti all’intellighenzia ebraica, un ebreo solo anagrafico, un libero pensatore che cercò di professare la sua verità di poeta e di elevare la letteratura al di sopra di qualsiasi limitazione o barriera umana. Anelò al trascendente come rifugio in una dimensione religiosa, alla quale però le circostanze della vita non gli permisero di approdare, se non per brevi periodi. Nei suoi componimenti, infatti, appaiono senza distinzione i nomi di Maria, Giovanni Battista, Giacobbe, Isacco e Jupiter, simboli tutti di un’esistenza noumenica confinata in un mondo di pace, immemore delle sofferenze umane.

Dinanzi alla furia che imperversava nel mondo, Radnoti continuò a difendere senza sosta la sua nazionalità e il suo ebraismo, non perché ci credesse veramente, bensì perché vedeva in essi il simbolo dell’emarginazione sociale, contro cui combattere per ottenere la vera indipendenza di tutti gli uomini e, allo stesso tempo, per perpetuare una cultura millenaria "che è sopravvissuta - continua ancora la Bruck - perché ha trovato nel racconto e nel cammino la propria continuità e proprio l’eterna intolleranza nei suoi confronti, le persecuzioni, le discriminazioni e le ingiustizie subite, hanno stimolato l’ebreo a rimanere tale, a difendere la propria appartenenza anche quando questa era solamente culturale e non religiosa". Eppure - come scrisse Nelo Risi, traducendo nel 1964 insieme alla Bruck alcune sue poesie di Radnoti - "il suo canto ha risonanze bibliche e i suoi versi risentono del carisma lungimirante dei profeti".


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