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Rai Educational/Ebraismo e modernita’



Sergio Quinzio con Giancarlo Burghi


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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it


Il pensiero ebraico, direttamente o attraverso quella che Lei chiama "l'eresia cristiana", ha avuto un ruolo decisivo nella formazione della modernità: Lei ha ricostruito l'intera vicenda dell'Occidente proprio alla luce delle categorie bibliche ed ebraiche. Lei sostiene che si tratta di una provenienza destinale e nel suo celebre "Radici ebraiche del moderno", rifacendosi ad un'espressione di Marx, ha parlato di "giudaizzazione del mondo". In che senso l'ebreo esprimerebbe l'inquietudine tipica della modernità?

Direi che intanto la tradizione ebraica ci riporta proprio a un'epoca, a una vicenda di questi popoli nomadi, di questi popoli di pastori che non avevano consistenza territoriale, che non ancoravano la loro vita ad un territorio in maniera stabile, ma poi c'è proprio una fondamentale contrapposizione, che è stata vista da molti, tra quella che è l'ottica greca, che è quella in cui il mondo classico ci è pervenuto classicamente, e quella ebraica. Il cosmo greco è un cosmo sostenuto da un "logos", da un ordine, cioè qualche cosa che ha una consistenza, una compattezza, mentre invece nell'ottica ebraica il mondo è puramente contingente, è creato da Dio e come tale è qualcosa che Dio mette in atto ma che in qualunque momento potrebbe revocare a sé - e sa il racconto ebraico, la leggenda ebraica di Dio che avrebbe creato duecentocinquantatre mondi prima di questo, ma li aveva creati secondo la misura della giustizia, per cui dinanzi alla sua perfetta giustizia non potevano sussistere, e quindi ha dovuto distruggerli, fin quando ha creato questo, che è secondo la misericordia, cioè viene tollerato anche il male e per questo può sussistere. Perché dunque "giudaizzazione del mondo"? Perché se c'è qualche cosa di tipico nella modernità è proprio l'idea che non siamo sostenuti, non siamo garantiti da nessun supporto stabile, non c'è nessun cosmo, non c'è nessun "logos", non c'è nessuna consistenza. L'uomo moderno fa l'esperienza che torna ad essere l'esperienza del nomade; mi ricordo la frase di Jankelevitch a proposito di un libro del musicista Liszt, il quale portava gli zingari come esempio di popolo nomade; gli zingari vagano, non hanno una terra: Jankelevitch, il filosofo ebreo, osserva che però non parla del nomadismo ebraico, esattamente opposto al nomadismo degli zingari, perché lo zingaro gira per la Terra e ogni luogo è il suo luogo, mentre l'ebreo gira per la Terra perché nessun luogo è il suo luogo. Questa esperienza per cui l'uomo non trova un luogo è un'esperienza tipicamente moderna; se prendiamo la grande letteratura contemporanea, è proprio il senso che non c'è un "ubi consistam", non c'è un qualche cosa di solido al quale aggrapparsi, non c'è una struttura rigida, assoluta, sicura. In questo senso parlerei di "giudaizzazione del mondo", perché stranamente c'è stato un processo, agli inizi del cristianesimo, di ellenizzazione: molte categorie del mondo greco, del pensiero speculativo greco, sono entrate nel cristianesimo e per secoli il cristianesimo è stato espresso il più delle volte secondo quelle categorie. In realtá, a lungo andare, le radici ebraiche, le radici bibliche, hanno finito per scalzare quell'orizzonte e sono riaffiorati nella modernità questi elementi fondati sull'insicurezza, sulla totale contingenza del mondo.

La cultura greca a cui Lei accennava è dominata dalla percezione ciclica del tempo, c'è un cosmo identico a sé; invece l'idea lineare della temporalità nasce proprio grazie al messianesimo e all'escatologia ebraica, e questa è l'idea del filosofo ebreo tedesco Karl Löwith nel libro "Significato e fine della storia". La lettura che Lei dá del Cristianesimo è opposta rispetto a quella di Nietzsche?

Sí, perché in fondo è il Nietzsche dell'"eterno ritorno", ma Nietzsche aveva la sfortuna di essere figlio di un pastore protestante e, quindi, di avere del cristianesimo, anche nel momento in cui lo contestava, un'immagine non adeguata. Anche la distinzione fra tempo ciclico e tempo lineare, che fondamentalmente è di Mircea Eliade, grande storico delle religioni, è stata contestata da qualcuno, è stata criticata, facendo notare che non tutto quello che è al di fuori della tradizione ebraico-cristiana è necessariamente cosmico - per esempio Zoroastro e la tradizione zoroastriana - e d'altra parte neppure tutto quello che è all'interno della tradizione biblica è necessariamente soltanto lineare: se prendiamo l'Ecclesiaste: tutto torna, la verità delle vanità, l'acqua va al fiume e dal fiume ritorna a scorrere nuovamente. Probabilmente non si può fare una distinzione assolutamente netta dicendo che questo è il tempo ciclico e questo è il tempo lineare, nel senso che delle interferenze tra i due ci sono. Malgrado questo sia stato fatto osservare da molti, resta fondamentalmente vero, io credo, che ci sono due atteggiamenti diversi: il tempo pagano, se vogliamo usare questo termine, è il tempo della natura - nella natura tutto ritorna, il giorno e la notte si succedono e si succedono le varie stagioni, si succedono le varie generazioni e ad ogni primavera rifiorisce la natura -, allora in questo senso il tempo è un tempo che ritorna continuamente e come tale il futuro non ha in definitiva senso, perché tutto quello che è già stato in qualche modo o identico o simile tornerà ad essere ancora; è stato detto che nelle memorie la guerra di Troia è stata combattuta infinite volte. È chiaro che in una concezione del genere non c'è spazio per il futuro. Nell'ottica biblica il tempo è lineare, è un tempo non più ricalcato sui ritmi del cosmo ma ricalcato sui ritmi della storia, perché Dio, il Dio biblico, è un Dio che interviene nella storia: crea, manda i suoi profeti, unge i suoi re. Tutta la vicenda in cui si articola il corso del tempo biblico è una vicenda in cui si compiono degli eventi che sono degli eventi storici, e questo fino alla fine del mondo. Queste due strutture sono incompatibili una con l'altra, sebbene ci siano naturalmente delle interferenze, ma fondamentalmente sono incompatibili. Dopo i secoli medioevali, durante i quali la vita dei monaci medievali era ancora una vita che avveniva nel cosmo, il mondo moderno è esploso come una tendenza storica: il futuro diventa importante sotto forma di progresso, e il progresso che cos'è se non in definitiva una trascrizione, una razionalizzazione di quella che è un'idea escatologica, nel senso che qualcosa ci attende di decisivo, di fondamentale, di importante, nel futuro?

L'ebreo e marxista Bloch dice che dall'idea ebraica dell'attesa, del non essere ancora, si genera proprio la fiducia moderna nel progetto e nella storia; però la conseguenza di questo passaggio, che Lei illustrava, dalla garanzia di un ordine cosmico alla percezione del mondo come storia lineare, è proprio la consapevolezza della realtà come rischio, precarietà e insidia. Analizzando l’idea biblica di storicità concepita come rischio, non è in contrasto con tutte le ottimistiche filosofie della storia, i messianismi che la modernità ha prodotto? Inoltre questa storicità del pensiero ebraico non è in contrasto con la tradizione apocalittica, secondo la quale il tempo non è un operare imprevedibile di Dio ma una concatenazione di eventi in qualche modo garantiti a priori?

Comincerei da questa seconda parte. C'è un pensiero apocalittico a cavallo dei due secoli dell'Antico e del Nuovo Testamento. Questi libri apocalittici hanno la struttura di una conoscenza della storia, cioè la storia è conosciuta perché si articola in diverse epoche: attraverso queste diverse epoche Dio conduce la storia fino al suo esito finale. È stato detto da molti autori notevoli che l'apocalittica si riconduce, piuttosto che al profetismo, alla filosofia sapienziale, ai libri sapienziali della Bibbia, perché si tratta pur sempre di un conoscere quello che avviene nella natura. Non credo che sia necessariamente così, perché quando l'autore apocalittico espone questa vicenda di epoche successive fino ad approdare all'esito finale della storia, è vero che la espone come se si trattasse di una conoscenza che lui ha, ma in realtà non è una conoscenza, nel senso che è tutto fondato sulla fede, nel senso che lui vede la storia del mondo disporsi secondo questa successione di epoche, con questa vicenda, perché per rivelazione le vede dalla fine, le vede dall'"escatòn". Questa è l'idea dell'ebreo Benjamin, ma anche l'idea islamica, in cui il futuro praticamente non sta davanti a noi: il futuro sta alle nostre spalle e ci scorre, via via che passa lo mettiamo dinanzi a noi come passato, in realtà però futuro sarà.. Come sostiene Benjamin nelle "Tesi sulla filosofia della storia", la storia del mondo acquista un senso: può essere riconosciuta una concatenazione fra un'epoca e l'altra, non perché viene conosciuta dal presente ma perché dal futuro escatologico viene proiettata e riceve luce, tutto quello che è accaduto nel passato riceve luce dal suo esito; quello che per il mondo greco è l'origine, per il mondo ebraico in fondo è la meta. Krause dice "La meta è l'origine".

L'ebraismo è quindi la scaturigine profonda della modernità; nella Sua riflessione sembra anche essere la base della dissoluzione, della crisi della modernità.. Si dice che viviamo nel cosiddetto postmoderno, sperimentiamo la delusione, il disincanto, ad esempio la crisi del comunismo, interpretabile come una sorta di sottoprodotto della speranza giudaico-cristiana, un avvento del regno di Dio senza Dio: con la dissoluzione del comunismo è entrata in crisi l'idea stessa di una progettualità della storia. Lei parla di "illusione estetica" e "tentazione mistica" a proposito di questa crisi della modernità. Che cosa intende?

Vorrei ricordare che Gerschom Scholem, grande studioso dell'ebraismo, afferma che l'orizzonte messianico è inseparabile dall'orizzonte apocalittico. Ossia, è vero che c'è un ottimismo storico, una progettualità, un qualcosa che ci fa vedere il futuro come futuro salvifico - il regno di Dio, la giustizia di Dio che si realizza completamente -, ma è vero che questo non avviene attraverso un processo graduale di crescita, secondo la tradizione originariamente ebraico-cristiana, ma avviene attraverso quello che è stato chiamato un "giudizio", il giudizio di Dio sulla storia del mondo. Quindi questi due elementi, quello dell'esito positivo, dell'esito finale buono, consolante, e quello che è il tramite che ci conduce, la via obbligata che ci conduce a questo esito in modo tragico, come si rappresenta anche nella croce: la croce è uno strumento di salvezza ma insieme è anche un patibolo. Nella storia dell'Occidente vengono assunti entrambi questi elementi che sono in contrasto, ma in un contrasto dialettico: sono in qualche modo legati l'uno all'altro. È l'idea del progresso, l'idea di qualche cosa che ci porta verso un futuro migliore, che realizza una finalità conforme alle aspettative e ai bisogni dell'uomo, ma che insieme contiene il germe della strada paradossale, della strada dolorosa che deve essere percorsa per raggiungere quel traguardo.

Già nell'Apocalisse c'è questo duplice esito?

Sí. Quando il profeta Isaia dice che nel giorno di Dio splenderanno nel cielo sette soli, esprime che non c'è una gradualità, ma che c'è questa rottura, quest'irrompere di una realtà ulteriore nei confronti della quale non si perviene scalino dopo scalino. D'altra parte, è vero che proprio l'aspettativa di un futuro redento, di un futuro salvato, rende addirittura invivibile la vita dell'uomo. È un paradosso. L'uomo pagano, per usare questo termine, accetta un fato: le cose sono come sono, prima si è giovani e poi si è vecchi, prima si è vivi e poi si è morti, d'inverno fa freddo e d'estate fa caldo. Le cose stanno così, non c'è nulla da fare e per questa via si perviene a una certa rassegnazione, cioè se ne regge il dolore: è la "mesòtes", la "giusta misura" fra le cose. Si crea, magari con un fondo di tristezza, una forma di equilibrio, una forma di stabilità.. Invece l'uomo biblico è un uomo che viene sempre sollecitato da questo pungolo per cui le cose potrebbero essere radicalmente diverse da quelle che sono. Scholem dice che allora l'uomo ebreo vive nel futuro; ma nel futuro non si può vivere perché l'uomo vive sempre nel presente. L'uomo che ha quest'aspettativa finale, escatologica, questa storia che ha una meta, è un uomo totalmente infelice, un uomo totalmente lacerato. Kafka, Krause e tutti i grandi autori ebrei, testimoniano di questa condizione, cioè di un uomo che non è contento delle cose come sono; ci si mette nell'atteggiamento che le cose non dovrebbero essere così come sono, il bambino non dovrebbe morire. Questo rende la vita infelice, perché ogni volta si fa l'esperienza del contrario.

La Sua lettura sembra radicalizzare quel motivo presente già in Löwith, cioè non si tratta semplicemente della modernità come secolarizzazione del messianismo ebraico: la secolarizzazione sembra insita, nella lettura che Lei fa della Bibbia, nell'essenza stessa dell'ebraismo e della sua storia. Lévinas, in quel celebre libro "Dal sacro al santo", parla di "demitizzazione del religioso" operata dalla saggezza ebraica. In che senso il sacro ebraico è già un sacro profano, mondano?

Questa è una domanda interessante. Io sono convinto che la secolarizzazione ha origini bibliche, perché se pensiamo a quello che era il mondo "pagano", questo era un mondo tutto permeato dal divino: il mare era Nettuno, il sole era Apollo; una sorgente, le onde, tutto era animato da presenze divine; c'era un divino immanente al mondo. La cultura ebraica fa l'operazione opposta, perché trasferisce tutta la sacralità o la santità - i termini "sacro" e "santo" hanno una storia lunga e complicata - in Dio: è un Dio trascendente rispetto al mondo. Quando tutta questa sacralità è trasferita in Dio, il mondo diventa profano, liberato dalle presenze divine; l'uomo non guarda più con venerazione tremebonda al mare, alla terra, agli astri, che nascondono chissà quali potenze divine incontrollabili, ma guarda al mondo come un luogo che gli è stato dato in uso da Dio che l'ha creato, è stato possessore della terra, ha assoggettato tutte le creature. Questo è l'insegnamento biblico. In questa maniera il mondo viene desacralizzato: in un primo tempo perché la sacralità viene totalmente concentrata in un Dio trascendente, dopo anche perché, andando avanti, questo Dio trascendente diventa sempre meno presente alla vita dell'uomo e quindi l'uomo va perdendo il riferimento alla sacralità di Dio attraverso la storia e gli resta un mondo totalmente profano. Questo comporta aspetti positivi, perché un mondo profano è un mondo progettabile, in qualche modo nelle mani dell'uomo; del resto ci sono tutti i rischi che noi vediamo nel postmoderno, ossia di un mondo sostenuto assolutamente da nulla. Quindi c'era questa totale contingenza del mondo, ma era sostenuta da un atto della volontà di Dio; il giorno che viene meno questo atto della volontà di Dio che sostiene il mondo creato, il mondo creato è solo nulla: da qui l'angoscia dell'uomo contemporaneo.

Il rapporto sacro-profano espresso in questi termini, paradossalmente, o non tanto paradossalmente viste le radici ebraiche, si ritrova in Lutero, nell'idea del "Beruf" come "vocazione" ma anche "mestiere" e "professione". A me è capitato che qualcuno mi ha rimproverato dicendomi: "Ma insomma, tu da che parte stai? Vai verso un ritorno all'ebraismo o vai verso una specie di luteranesimo?". In realtà Lutero è stato, secondo me, un potente restitutore dell'ottica biblica. Nel mondo prima di Lutero sostanzialmente c'erano dei ruoli sacri, permanevano ancora dei ruoli sacri e dei ruoli profani: un conto è il sacerdote che celebra o il monaco che prega, un altro conto è il contadino che zappa: la prima operazione è sacra, la seconda è profana. Proprio ritornando alla Bibbia, alla "sola scriptura", solo Dio è diverso: la sacralità e la santitá appartengono esclusivamente a Dio, tutti gli altri ruoli umani, che siano quelli del vescovo o che siano quelli di chi fa il lavoro più basso e più umile, sono tutti connotati allo stesso modo, perché la sacralità è totalmente posta in Dio. Nasce questo strano destino della parola tedesca "Beruf", perché "Beruf" è la "vocazione" intesa come vocazione religiosa, la vocazione a diventare sacerdote, a farsi religioso. Invece il Beruf ha acquistato anche linguisticamente il significato di "incarico", di un "compito" raffinato: c'è il Beruf del giardiniere, c'è il Beruf del pescatore, e così via. In questo senso Lutero ci ha riportato alle origini bibliche.

Tornando al tema del nomadismo ebreo, che Lei ha indagato come fatto non solo geografico, etnico, ma anche spirituale e culturale, Lévinas, ad esempio, oppone l'eroe pagano per eccellenza, Ulisse, al credente Abramo. Di che tipo di opposizione si tratta?

E' un'opposizione per me molto convincente. Ulisse fa un percorso circolare; come la storia è una storia ciclica, così il percorso, il tempo è ciclico. Ulisse parte, compie una vicenda molto tormentata, molto dolorosa, piena di prove, però ritorna a Itaca. Questa è la vicenda omerica. Invece la vicenda di Abramo è una vicenda in cui anche lo spazio, come il tempo, è lineare, perché: "Abramo, va e parti!". Per dove? Nessuno dice dove devi andare, non c'è nessun luogo al quale tu debba tornare o al quale tu debba approdare, tu semplicemente vai. In questo senso è un nomadismo molto più radicale; forse per questo, in epoca cristiana si aggiunge all'Ulisse la vicenda dantesca dell'Ulisse che fuoriesce dalle colonne d'Ercole e finisce nel Purgatorio, perché in epoca cristiana, in effetti, si percepisce che la vicenda di Ulisse è una vicenda in qualche modo conclusa, mentre la coscienza, la consapevolezza e la sensibilità dell'uomo cristiano, dell'uomo fondato sulla Bibbia, sulla tradizione ebraico-cristiana, hanno invece il senso del racconto ebraico dei due ebrei che si incontrano: "Dove vai?" "Parto" "Ma dove vai?" "Vado lontano" "Ma lontano da dove?". Non c'è un dove: in questo senso Abramo va, ma non ha nessuna garanzia del senso, della direzione e del dove dovrà giungere. Quindi anche lo spazio, non solo il tempo ebraico, è aperto.

Nell'indagare le radici ebraiche del moderno, Lei dice che anche la malinconia, questo tormento dell'uomo moderno, è una connotazione psicologica tipicamente ebraica.

Credo che questo si possa dire nel senso che l'uomo ebreo, l'uomo ebraico-cristiano, fin quando si mantiene questa continuità, ha il senso della precarietà della sua condizione. La malinconia in fondo è il senso di un vuoto, è il senso di non avere nessuna sicurezza intorno, è il senso della propria solitudine, è il senso della propria incertezza, della propria precarietà.. Questo deriva proprio dalla concezione di un mondo come è stato creato e si sostiene soltanto su un atto di volontà: il mondo è stato creato come ai tempi in cui i figli non venivano programmati ma nascevano perché nascevano; così Dio ha creato il mondo senza prevedere le conseguenze della sua creazione. È chiaro che nell'uomo, precipitato in questa esistenza così imprevista e imprevedibile, si genera un senso di malinconia, di solitudine, di angoscia.

Lei diceva prima che l'uomo contemporaneo percepisce il mondo come insensato proprio grazie alla provocazione biblica di una promessa di redenzione. Le cito un Suo brano: "Il moderno è una enorme malattia, cresciuta nello spazio del mancato evento escatologico". Però c'è un duplice rapporto, quasi di continuità e di discontinuità, tra cristianesimo e modernità, perché è come se ci fossero due movenze nel moderno: da una parte sembra che Dio sia liquidato, perché ha deluso - così anche la storia ha deluso l'uomo moderno -, però è come se poi l'uomo detronizzasse Dio, cercasse di salvare la terra. Lei parla di questi surrogati della promessa divina tipici della modernità. Quali potrebbero essere questi surrogati?

Direi che proprio Löwith mostra questo senso. Quest'aspettativa e questa tensione escatologica vengono ad essere secolarizzate: quest'ideale escatologico, che era fondato soltanto sulla speranza, sull'attesa, sull'invocazione del miracolo di Dio che avrebbe creato nuovi cieli e nuova terra, viene poi razionalizzato e interpretato come una possibilità di continuità ascendente nella storia. Un contrassegno fra i più tipici della modernità è proprio l'idea di progresso, mentre le civiltà antiche non conoscevano l'idea di un progresso, di un avanzamento storico. L'idea di progresso, l'idea di avanzamento della scienza, di avanzamento della tecnica, la stessa idea di rivoluzione sociale, sono forme in cui è ancora riconoscibile l'impronta originaria biblica, nel senso che si tratta pur sempre di vie attraverso le quali si spera o si ritiene o si pensa di dover pervenire a una condizione redenta, a una condizione salvata, liberata: "liberazione" è una parola moderna, ma entro la quale si sente ancora la parola redenzione.

Come è noto, Lei non ha nessuna simpatia per le contaminazioni tra filosofia e fede; la fede è soprattutto esegesi biblica. I sostenitori della teologia naturale, coloro che affermano che la ragione possa avere un ruolo nella fede, si appellano ad alcuni brani della Bibbia: "stultus dicit Deus non est", oppure la Lettera ai Romani, in cui si dice che si può giungere a Dio "perea que facta sunt", "attraverso le cose create". Davvero non si può pensare Dio? Davvero dobbiamo ridurci a parlare con Dio, come diceva Martin Buber, ma non possiamo rappresentarcelo filosoficamente?

Io tengo ferma questa posizione anche rendendomi conto della paradossalità, nel senso che è vero che non necessariamente soltanto la mia opinione trova conferma o consenso nelle Scritture: evidentemente se delle Scritture sono state date letture diverse attraverso i secoli e i millenni, vuol dire che le Scritture consentono anche tali letture. Io continuo a dire che è enormemente prevalente nell'orizzonte ebraico-cristiano quest'idea di Dio del quale non si parla. Non c'è discorso tematico su Dio, perché o Dio parla e ci rivela la sua volontà e ci dà i suoi ordini, oppure a Dio si parla per pregarlo, per chiedergli qualcosa, per adorarlo; al di fuori di questo non c'è nessuna possibilità. Il ruolo della ragione nella fede è un ruolo che c'è già nei libri sapienzali dell'Antico Testamento. Anche nei libri sapienzali si accoglie questa sapienza naturale, per esempio il libro dei Proverbi dice: "Stai attento a non dispiacere il potente perché il potente ti potrà minacciare", "Guardati dalla pigrizia". C'è tutta un'area in cui vengono assunte delle esperienze comunemente umane, tra le quali entrano anche queste: "Vi rendete pur conto che c'è un universo, che le cose ci sono, quindi ci sarà un creatore, ci sarà un'origine". Non direi peró che questo viene mai posto al centro, perché nell'orizzonte biblico prevale enormemente la parola di Dio anche quando contraddice totalmente tutte le regole che si possono dedurre dalla esperienza naturale; per esempio, quando Dio ordina ad Abramo di uccidere il figlio, evidentemente va in una direzione totalmente opposta a quella che è la legge "naturale"; o quando gli promette un figlio dal grembo sterile e vecchio di Sara essendo lui centenario, in definitiva prevale sempre l'aspetto paradossale. In San Paolo queste cose ci sono, perché San Paolo, dopo aver negato il valore della legge, le scelte umane, tutto è dato per grazia: le opere non contano, poi le sue lettere le termina con un capitolo di ammonizione: "Ricordatevi dunque che il vostro corpo deve essere degno di varcare il tempio dello Spirito Santo"; il che non è molto coerente con la premessa che le opere sono indifferenti. Quindi questi aspetti coesistono: c’è un aspetto in cui certi valori naturali sono riconoscibili e possono avvicinarci a Dio, ma è anche vero che Dio, quando parla, trascende di gran lunga e spezza questa logica naturale, mondana, per darci una verità che sta al di lá di quella; e questo aspetto mi pare molto più decisivo di quell'altro.

Nella Sua prospettiva la teologia sembra istituire una sorta di ambito atemporale, eleatico, tipicamente pagano, cioè pensa Dio come oggetto metafisico, si disinteressa del passato e del futuro. E' possibile deellenizzare la teologia? Come?

Uccidendola, penso che non ci siano molte alternative: non c'è una teologia ebraica se non in un senso del tutto improprio. Noi ci troviamo di fronte a dei concilii dell'antichità che hanno teologicamente definito l'impassibilità, l'immutabilità di Dio per adorare poi un Dio che muore crocefisso in Cristo. Si legge ancora questa tensione estrema tra quelle che sono le categorie greche, con le quali è stato rivestito il messaggio biblico e che attraversano un lunghissimo sincretismo medievale e moderno, per arrivare a rendersi conto che sono due categorie inconciliabili, anche se c'è chi continua a tentare di conciliarle: ma probabilmente sono in effetti irriducibili l'una all'altra.

Il cristianesimo originario è la celebrazione del valore del lavoro, anche perché si diffonde nelle classi più umili; poi, con l'ascetismo cristiano, con l'"Ora et labora" medioevale, il lavoro sembra acquistare una connotazione diversa, diventa uno strumento ascetico. Come avviene questo passaggio?

Anche il lavoro ha una sua ambiguità, intanto perché è dato come pena del peccato, per cui è già contrassegnato fin dalle origini da una negatività.. Il fatto che l'uomo sia condannato a lavorare, a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, ha in sé qualche cosa di negativo. Ma vi sono queste frequenti inversioni nell'orizzonte biblico, nell'orizzonte ebraico-cristiano, che è paradossale: la croce che è patibolo e diventa strumento di salvezza, il concetto di espiazione, che possiamo trovare in Dostoevskij: non che il delitto sia in sé positivamente buono, ma, attraverso l'espiazione, consente il riconoscimento di una condizione che l'uomo non avrebbe mai conosciuta. Lo stesso è il lavoro: il lavoro ha una sua positività perché è ordinato da Dio, non c'è nessun altro criterio: è bene ciò che vuole Dio, quindi Dio ha stabilito che l'uomo deve lavorare a seguito di quelle note vicende, per cui l'uomo deve lavorare. Arrivati a questo punto però c'è la positività del compiere la volontà di Dio, ma è anche vero che l'uomo, compiendo la volontà di Dio, patisce, perché Dio ha inteso stabilire quel precetto per dare una sofferenza all'uomo, per concedere un'espiazione all'uomo. Ancora non abbiamo deciso se il lavoro sia positivo o negativo; fondiamo le nostre repubbliche, i nostri Stati sul lavoro, ma poi facciamo l'elogio del tempo libero, per cui l'uomo non deve essere costretto a lavorare. Questo è un residuo di quella irrisolta contraddizione presente già all'interno della rivelazione biblica.

Lei afferma che l'ermeneutica, la filosofia dominante oggi, la filosofia dell'interpretazione, trova la sua origine nel pensiero ebraico. Quindi anche i moderni filosofi dell'ermeneutica, da Gadamer, troverebbero le loro origini nel pensiero ebraico.

Io forse tendo a forzare un po' la mano, però che l'ermeneutica sia una categoria originariamente ebraica, questo mi sembra che si possa dire, anche perché storicamente l'ermeneutica nasce dall'interpretazione della Bibbia. Quando tutto viene fondato su dei testi che sono attribuiti a Dio e che hanno un'autorità divina, l'unica cosa che si può fare non è dedurre da, ma è cercare di interpretare, perché la parola di Dio è una parola che trascende di gran lunga le possibilità di comprensione. Quando gli Ebrei dicono che ogni versetto biblico ha almeno settanta significati, questi settanta significati non esauriscono il significato del versetto biblico, tanto che l'ipotesi è sempre che la venuta del Messia dia una lettura talmente piena di quel versetto biblico, di quella rivelazione biblica, che gli uomini non hanno potuto o non hanno saputo dare in tutto il corso della storia. Quindi la Bibbia è costruita ermeneuticamente, perché ogni libro della Bibbia è un'interpretazione del libro precedente: la Genesi racconta una certa vicenda; l'Esodo rappresenta una continuazione, dà un significato a quello che è accaduto prima dal punto di vista di quello che è accaduto dopo. Tutti i libri dei profeti sono libri che, in qualche modo, interpretano; ci sono delle forme addirittura paradossali in cui certe profezie vengono reinterpretate: settant'anni diventano settanta settimane di anni, da Geremia a Daniele. D'altra parte è così, perché non si perviene mai, nell'orizzonte della tradizione ebraica, a dire che questa è la verità e che quella è la falsità. Leggendo il versetto si danno letture diverse, e tutte hanno una loro legittimità; ma, a differenza dell'ermeneutica moderna, c'è un appello alla rivelazione finale, messianica: alla fine verrà il Messia e rivelerà tutto. Non so se Lei ricorda questi due esempi: due saggi che discutono nel giardino della Sinagoga: "Se è vera questa interpretazione del versetto, questo fiume retroceda", dice uno; e infatti il fiume retrocede; e l'altro dice: "Se è vera la mia interpretazione contraria, il muro di questa Sinagoga cada". In effetti tutti hanno degli argomenti, ma nessuno ha l'argomento decisivo e questo credo che sia il senso dell'atteggiamento ermeneutico, non esistono che interpretazioni. Con la differenza che lá esiste la verità, e anche se per qualcuno dei nostri ermeneuti esiste la verità, questa è una verità che non si sa bene come coesista con l'interpretazione.

Il linguaggio biblico fornisce altri strumenti alla cultura moderna: la stessa dialettica sembrerebbe essere figlia dell'ebraismo. È evidente che il pensiero luterano è un pensiero dialettico, vive di tensioni: filosofia, teologia, libertà, servo arbitrio, scrittura, tradizione; ma lungo il percorso che va da Lutero ad Hegel Lei ad un certo punto ricorda Hamann, che innesterebbe nell'idealismo tedesco la tradizione biblica. Ed è nella Bibbia, solo nella Bibbia, che Lei rintraccia la forma più radicale di pensiero dialettico e tragico, perché lo stesso Kierkegaard e lo stesso Lutero tornerebbero ad una sorta di pensiero dell'identità. Vuole spiegarci questa suggestiva idea?

E' vero, hanno qualche tentazione. La cosa che mi ha colpito di più quando ho cominciato a leggere la Bibbia è la contraddittorietà: quasi ad ogni pagina della Bibbia ci si imbatte in contraddizioni. Per esempio, la prima presentazione di Dio è Dio clemente, misericordioso, di pietà, di tenerezza; però è anche il Dio degli eserciti, è il vendicatore, quello che rende giustizia, quello che punisce, che fa espiare le colpe dei padri fino alla terza e alla quarta generazione dei figli. Quindi il pensiero ebraico si costruisce per interpretazioni successive, ma che danno luogo a conflitti dialettici fra di loro. Però non è una dialettica che ha un suo superamento immanente, perché in effetti viene risolta messianicamente, viene risolta nei "nuovi cieli e nuova terra". Quello che colpisce è proprio tutta la struttura del Talmud. Il Talmud sono dei verbali di assemblee accademiche di rabbini, in cui si alzò un rabbino e disse: "Questo versetto significa questo, questo e quell'altro"; l'altro rabbino disse: "No, è sbagliato, questo versetto va interpretato così"; è il verbale di queste continue contraddizioni, senza mai la preoccupazione di conciliarle. Invece i nostri filosofi direbbero: "No, a questo punto cerchiamo di conciliare; tu hai detto questo, egli ha detto quello, vediamo come queste cose possono essere messe insieme, possono stare assieme". Lá non stanno insieme. Quindi c'è una coscienza tragica che l'uomo, fin dalla condizione premessianica, di esilio, non può pervenire a nessuna sintesi compiuta. Vive condannato a continue interpretazioni che spesso sfociano in interminabili scontri dialettici.

Secondo Lei nemmeno nella tradizione mistica, nella teologia negativa di Eckhart, si istituirebbero la contraddizione e il conflitto: il nulla di cui parla Eckhart non compromette la natura della divinitá?

Io sono uno studioso di Eckhart, ma se lo confronto, per esempio, con la radicalità che tuttavia resta in Lutero, vi è, in definitiva, un tentativo di sintesi. La mistica renana, come quella di Eckhart, nasce da un eccesso di razionalizzazione, perché in fondo si tratta di pensare una cosa spogliando sempre più le affermazioni dei loro contenuti particolari, per arrivare all'affermazione più generale possibile secondo cui l'essere coincide con il nulla.

Nella Sua idea tragica di fede, una sorta di stupendo e drammatico ossimoro, una "speranza disperata", neanche l'etica sembra poter soccorrere il credente: lo stesso Kierkegaard oppone l'ambito della fede a quello dell'etica; Lei ricordava prima Abramo, a cui Dio ordina di uccidere il figlio contro ogni evidenza etica e giuridica. Lei afferma che il giudaismo è la proibizione stessa di un'etica e ritrova questa idea anche nel teologo protestante Bonhoeffer. Secondo Lei l'intuizione più valida di questo teologo protestante è proprio la consapevolezza dell'impossibilità di un'etica.

Se vogliamo partire da Bonhoeffer e da questo suo libro "Etica", ricostruito fortunosamente raccogliendo il materiale salvatosi dall'intervento nazista, si nota che Bonhoeffer afferma - fedele a tutta la tradizione protestante, luterana perlomeno - che il vero peccato originale consiste nel fatto che l'uomo ritiene di poter scegliere tra bene e male. L'uomo avrebbe una conoscenza al di sopra delle situazioni che gli consentirebbe in ogni momento di dire che questo è bene e questo è male, di fare la scelta buona o fare la scelta cattiva. Questa sarebbe l'etica. Se per etica dobbiamo intendere questo, l’etica è il peccato originale, cioè la presunzione che l'uomo possa distinguere tra il bene e il male. Credo che pochissimi mi perdonerebbero l’affermazione che nell'ebraismo l'etica non è fondamentale, a cominciare da Lévinas, ma qui si fa, a mio giudizio, una confusione tra quello che è l'etica e quello che è l'obbedienza al precetto di Dio, cioè non si distingue tra colpa e peccato. Un pio ebreo, al quale si chiedesse "Tu perché non mangi gli animali marini che non hanno squame?", risponderebbe che è una norma che viene data da Dio e che non puó neanche mettere in discussione, perché se mi cominciassi a domandare perché è stata data questa norma, mi avventurerei in quella via proprio etica in cui tenderei a giustificare, a trovare una motivazione dei miei comportamenti. L'obbedienza alla legge di Dio non è un fatto etico, tanto che dice: "Tu uccidi tuo figlio", "Tu uccidi i popoli che occupano la Terra Santa", quindi non è un'etica. Il peccato non è la colpa in senso etico: questa è la differenza. In altri termini, l'unica cosa che si può dire, da ebreo, è che una cosa è giusta perché Dio la comanda. Ma questa non è etica, perché un'etica totalmente eteronoma - la norma c'è, io la obbedisco, non so perché, non ho diritto di interrogarmi sul perché, non posso trovare motivazioni razionali - non è più una dottrina etica; questa è semplicemente l'obbedienza a un comando.

L'etica sembra aver prodotto un altro danno con l'idea di colpa, che ha funzionato, secondo Lei, come un nascondimento dello scandalo della sofferenza, rendendola spiegabile, giustificabile, addirittura buona. Per Agostino la colpa è il vero male e la sofferenza è la conseguenza: Lei dice che l'etica abolisce in maniera ipocrita la sofferenza negando che sia un male. Non è possibile anche la prospettiva opposta, cioè che sia proprio la riconduzione della sofferenza ad una colpa che rende questa sofferenza scandalosa, tragica, inaccettabile, altrimenti sarebbe un fatto naturale, inevitabile? Vale a dire, la tragicità del male come sofferenza non deriva proprio dall'idea che sia una conseguenza di una colpa?

Qui certo la tradizione ebraica, malgrado la proclamazione ufficiale, biblica, che la pena è dovuta come conseguenza della colpa, molto spesso lascia affiorare l'ipotesi che questa idea di colpa venga tirata fuori quasi per giustificare la sofferenza. I rabbini, dinanzi al fatto che gli Ebrei venivano perseguitati, trovavano un'unica risposta per consolarli, la quale tuttavia ne aumentava le sofferenze: "Tu sei perseguitato, tu sei ucciso, ma questo accade perché tu non ubbidisci alla legge di Dio"; il che aggravava il dolore, perché alla sofferenza si aggiungeva il senso della colpa, anche se la spiegava. Io credo che fondamentalmente, quando Freud dice che la sofferenza non nasce dalla colpa, ma la colpa nasce dalla sofferenza, abbia ragione, mi sembra molto giusto. Se uno legge il quarantesimo capitolo del Libro di Isaia, in cui si dice "Consolate, consolate il mio popolo", perché ha patito il doppio per tutto il male che ha commesso, ha senso che uno patisca il doppio? Questo è conciliabile con la giustizia di Dio? Probabilmente no. Naturalmente c'è l'interpretazione che vuol dare Lei. Io eviterei di usare il termine "naturale", perché in questo caso, se l'uomo è condannato per sua natura alla sofferenza, Lei lo considera un fatto naturale, ma lo è da un punto di vista non creazionistico. C'è un qualche mistero - c'è il mistero dell'arretrazione di Dio, dell'impotenza di Dio - per il quale l'uomo fa l'esperienza fondamentale di una condizione di mancanza, di sofferenza: la fa già nell'Eden, nel Paradiso terrestre, in quanto non gli manca nulla - perché ha da mangiare, ha da bere, ha la compagna -, peró di fatto è infelice, di fatto gli manca qualche cosa, tanto che si lascia tentare, può essere tentato.

Lei ha amato e letto Kierkegaard e Lutero proprio per la loro radice biblica ed ebraica; qualcuno però ha obiettato che è difficile tenere insieme la Germania di Lutero e la Bibbia di Israele. E' un'obiezione che le hanno fatto: sembrerebbe folle per un ebreo il principio luterano della giustificazione per sola fede, senza le opere. Come risponde a un'obiezione del genere?

Questo non è certo molto facile, perché a prima vista l'opposizione è netta. Però Lei sa che, d'altra parte, quelli che hanno studiato l'ebraismo, come per esempio Paolo Sacchi, hanno proprio distinto tra "teologia della legge" e "teologia del patto". C'è una struttura fondamentale biblica che dice: "Questa è la legge che io ti do -dice Dio al suo popolo-: se tu la osserverai vivrai, se tu non la osserverai morrai". Ma c'è anche tutta l'esperienza profetica, in cui colui che compie il male spesso vive bene e colui che compie il bene spesso vive male. Lo scandalo di questo fatto, che non c'è corrispondenza tra legge e conseguenze dell'obbedienza o disobbedienza alla legge, è qualche cosa che fa sì che già all'interno dell'ebraismo esista questa duplicità, un luteranesimo ur-biblico. In fondo chi è che viene salvato? Viene salvato il resto, il piccolo resto di Israele. Chi sono questo resto di Israele? Sono l'uomo della terra - anche Gesù ripeterà la stessa cosa -, sono coloro che non sanno la legge; lo dirà ancora Kafka, quando parlerà degli ebrei orientali, i peggiori, che non rispettano la regola di Kasherut, che mangiano quello che trovano, che litigano, che tirano fuori il coltello; ma hanno l'attaccamento alla vita che gli altri non hanno. Quindi c'è già nell'orizzonte dei profeti questa salvezza promessa a chi non osserva la legge. "Le prostitute, i pubblicani vi precederanno nel regno dei cieli", ma già i profeti lo dicevano: verrà salvato proprio quel resto di popolo che non conosce la legge; Gesù viene applaudito dal popolo e viene condannato dall'autorità religiosa e politica.

Lei ha espresso molta diffidenza nei confronti di questo presunto ritorno del sacro, un fenomeno al centro dell'attenzione di storici della religione e sociologi: il sacro di Jung, di Hermann Hesse, di Heidegger; secondo Lei sarebbe il ritorno a una sacralità cosmica, che poi è il sacro consumato da molti giovani del mondo contemporaneo, è il sacro dell'Oriente, quindi non è il sacro storicamente incarnato della Bibbia. Eliade, di fronte al terrore della storia, interpreta il sacro come fuga; anche Ernesto De Martino, di fronte alla storia vista come luogo di insidia, di minaccia a Dio, parla di "destorificazione", di un sottrarsi alla storia per attingere, nel mito e nel rito, una sorta di liberazione. Perché, secondo Lei, questo presunto ritorno al sacro è un segno di un'età postcristiana, postbiblica?

Perché, se è vero che c'è fondamentalmente questa contrapposizione tra tempo ciclico e tempo storico aperto a un futuro, quando noi ritorniamo al mito, ritorniamo a una sacralità di tipo pagano, ritorniamo a una ricerca delle origini, tentiamo di ripercorrere all'indietro quello che è stato il corso della storia occidentale. Invece la fede, adeguata a dar conto dell'esperienza che ha fatto l'uomo occidentale, è quella religione o quella fede che percorre la via che abbiamo percorso, non quella che dice: va bene, la via che abbiamo percorso è quello che è, torniamo indietro perché tanto ad ogni fine corrisponde un nuovo inizio. In realtà questo è un non accettare l'evidenza, è come il non accettare l'appartenenza religiosa: lo dico io che sono cattolico e che ho moltissimi motivi di insoddisfazione nell'essere cattolico, però accetto l'appartenenza, perché non sono come Cartesio che si può mettere dietro la stufa a scrivere: non mi ricostruisco un mondo a modo mio, ma sono nato in un certo orizzonte, a quell'orizzonte appartengo, posso tentarlo, posso metterlo in discussione, ma fondamentalmente lí devo stare. Quando chiudo il libro della Bibbia vado a vedere cosa dice Buddha, lo posso fare ma sempre tenendo conto che io sono quello della Bibbia, io sono l'uomo della Bibbia, non sono l'uomo del mahayana. Bisogna farsi carico di questa appartenenza storica; noi siamo quelli che, venendo da quella iniziale idea di un futuro salvifico, abbiamo percorso tutta la delusione di questo e non possiamo fare altro che andare avanti per questa strada e domandarci: “Che cosa significa?” “Perché è successo questo?” “Perché non si è compiuta quell'attesa?” “Perché siamo delusi?” Se invece dico che è successo quello che è successo ma ricominciamo da capo, facciamo una cosa inadeguata alla nostra esperienza.

Nella nostra conversazione abbiamo utilizzato una parola che forse non abbiamo tematizzato, cioè la parola "fede". Lei scrive: "Il Dio cristiano può coincidere con il metafisico motore immobile di Aristotele o dissolversi nel simbolismo della liturgia, ridursi alla metafora del Cristo modello di uomo, identificarsi con l'energia cosmica che anima l'universo, addirittura realizzarsi nella rivoluzione marxista. Per me queste e altre interpretazioni riduttive ed elusive della fede in sostanza si equivalgono tutte". È dunque possibile una lettura letterale della Sacra Scrittura, oppure ogni nostro sguardo su Dio è metaforico, che sconta il carattere simbolico del linguaggio?

Come ha detto Lei, ogni nostra parola in qualche modo ha in sé una carica metaforica, non c'è la possibilità di arrivare ad un "sine glossa" assoluto. Ma, come per esempio nel linguaggio c'è una componente convenzionale - è inevitabile pensare che ci sia, ma giustamente autorevoli autori come Benjamin o come Scholem hanno protestato, dicendo che se noi riduciamo il linguaggio a pura convenzionalità, noi distruggiamo il linguaggio, perché il linguaggio non ha più nessun senso in sé nel momento in cui è soltanto la conseguenza di una nostra convenzione -, così quando parliamo di fede biblica, parliamo attraverso tutti i filtri e tutte le mediazioni della nostra esperienza. Anche il "sine glossa", il tentativo di uscire dalla metafora, non può avere un successo pieno: ciò non toglie che noi dobbiamo avere il coraggio di cercare il più possibile di avvicinarci alla lettura originaria, ben sapendo che questa dava luogo a interpretazioni diverse. Anche la nostra non può essere altro che un'interpretazione, però bisogna tener fermo che un senso c'è e sarà quello rivelato messianicamente, escatologicamente, perché se noi partiamo già dalla premessa che il nostro linguaggio è necessariamente metaforico, convenzionale, allora in questa maniera ci precludiamo il diritto anche di capire quelle espressioni bibliche il cui significato è chiarissimo anche per noi. Per esempio quando leggiamo la parabola nel Vangelo di Luca - "Quanto a coloro che non volevano che regnassi su di loro, portateli qui e sgozzateli alla mia presenza" dice Cristo -, noi cristiani, verso questo Cristo che fa sgozzare i suoi nemici, siccome ci turba, cerchiamo di dare un'interpretazione metaforica, però di fatto sappiamo che c'è un significato letterale. In molti casi il significato letterale, con una certa approssimazione, è riattingibile; se invece partiamo dal presupposto che il nostro linguaggio sarà sempre largamente metaforico, largamente convenzionale, ci precludiamo la possibilità di capire quel poco che si poteva sperare di capire.

Nel Suo libro "Silenzio di Dio", Lei enuncia alcune buone ragioni per non credere, facendosi carico del dramma moderno dell'ateismo, e ricorda l'ebreo Horkheimer, il quale sostiene che la religione dovrà comprendere il dubbio: la sua salvezza è possibile solo a questa condizione. È significativo che le ragioni che Lei enuncia per non credere, come l'esistenza del male, la soverchiante trascendenza di Dio in grado di annullare la libertà dell'uomo, l'impossibilità di una verità assoluta, la deludente storia del cristianesimo, la scienza che entra in collisione con la fede tutte queste ragioni sono le stesse che potrebbe addurre il credente. Questo significa, in altri termini, che tutte le ragioni per non credere sono comprensibili dentro l'orizzonte della fede cristiana?

Per fare l'esempio dell'esistenza del male, credo che l'esistenza del male sia la prova più forte contro Dio, perché sembra negare la sua giustizia: il male non è distribuito equamente, c'è un eccesso di male. Quindi il fatto che ci sia il male può essere vissuto come una prova contro l'esistenza di Dio; però è anche vero che se quest'idea di male deriva esclusivamente dal fatto che ipotizziamo un principio di bene assoluto. Qualche volta penso, per esempio, alle lamentele di Leopardi contro la natura matrigna, terribile, che fa soffrire le sue creature, le uccide, "lo sterminator Vesevo": ma questo è molto cristiano, perché un autore pagano non avrebbe avuto nessun motivo di scandalizzarsi del fatto che la natura fosse matrigna. Leopardi si scandalizza per la buona ragione che credeva che la natura dovesse essere madre. Ecco allora che l'idea del male come prova contro Dio diventa paradossalmente una conferma di Dio, perché noi non avremmo neppure l'idea del male se non potessimo contrapporla alla perfezione di un bene.

Lei afferma, in maniera molto esaustiva, che il male è un'invenzione ebraico-cristiana. Anche l’idea di una libertà del soggetto, dell'uomo che si ribella a quella che Lei definisce "trascendenza di Dio", del Dio onnipotente, è un'idea comprensibile soltanto all'interno dell'orizzonte biblico?

Lutero dice che quando l'uomo naturale non ha nessun sospetto del peccato, quindi del male. In realtà la prima azione salvifica che Dio compie nei nostri confronti è proprio renderci consapevoli del peccato, imputandoci il peccato: soltanto così l'uomo si accorge di questo suo limite. È chiaro che, se per un verso la libertà è questa possibilità dell'uomo di allontanarsi anche da Dio, di scegliere contro Dio, con la conseguenza di avere il senso di questo Dio che tende ad opprimerci con la sua legge, una legge che tende ad imporci qualche cosa e, come tale, in qualche modo ci soverchia con la sua strapotenza; d’altro canto è anche vero che l'uomo può disubbidire a Dio, non è mai costretto. Dunque, questa libertà, che è pur data da Dio, si può rivolgere contro la stessa legge di Dio: in altre parole, se per un verso Dio ci impone la sua legge, dall’altro ci lascia liberi, ci offre la possibilità di violarla, pertanto si può giocare su tutti e due i piani. C'è l’elemento del conflitto con Dio che torna poi in tutto il chassidismo: si litiga con Dio. Ci sono dei bellissimi racconti chassidici, per esempio in Buber, in cui con Dio si litiga; ci sono delle storie chassidiche in cui Dio viene trascinato dinanzi al tribunale rabbinico: "Tu hai promesso a chi osserva la legge ogni bene e invece io sono stato colpito da questa e questa disgrazia". Qui la stessa libertà dell'uomo si instaura nella possibilità di contrapporsi, perché se non ci fosse questa sponda di biliardo, che è quella che assolutamente tende ad imporre qualcosa, non ci sarebbe neanche il valore di questa possibilità di contrastarla, di violarla.

Lei ha scritto che l'ateismo risulta un problema di teologia della storia, ma Lei rifiuta ogni prospettiva storicistica, idealistica, che concepisce il presente causalisticamente come prodotto del passato. In che senso allora l'ateismo è un prodotto storico del cristianesimo?

Quando parliamo di storia e di storicismo partiamo sempre dal postulato che il senso della storia debba essere un senso ascendente: questo io intendo negare. Ma proprio perché la Bibbia è una rivelazione storica di Dio, avviene attraverso la storia, attraverso questo tempo lineare, non nego che nella storia gli eventi conseguano l'uno all'altro, che quanto accade nella storia sia legato come causa ad effetto; quello che è contestabile, secondo me, è l'idea che questa catena di cause ed effetti, di conseguenze e di motivazioni, vada in senso ascendente; contesto l'idea che se la storia ha senso, deve essere necessariamente un senso ascendente, che necessariamente l'oggi dovrebbe essere meglio di ieri. Questo lo contesto, ma non rinuncerei al fatto che certi eventi sono spiegabili soltanto alla luce di determinate vicende storiche precedenti.

In qualche modo l'ateismo è inscrivibile nell'orizzonte biblico e cristiano, è il prodotto della sconfitta del Dio biblico e della elusione della promessa?

Io credo proprio di sí, perché in effetti l'ateismo è un fenomeno soltanto nell'ambito dell'Occidente cristiano. Le antiche società conoscevano delle forme di ateismo, ma erano delle pure forme di indifferentismo religioso raccontato dagli storici greci; ma questo rifiuto di massa, questa apostasia di massa, questo ateismo che si pone come una forma di cultura, come una forma di civiltà, questo ha senso soltanto in un orizzonte in cui si era posto un assoluto: il tirannicidio ha senso solo se c'è il tiranno.

Lei parla in maniera molto suggestiva di una sorta di superiorità del credente, di colui che decide per la fede, rispetto all'agnostico: è una tragica superiorità quella che ha il credente rispetto all'agnostico in quanto chi crede può capire la non-fede, cosa che invece l'agnostico o l'ateo non può fare?

A me sembra così, nel senso che la fede, se la portiamo alla sua estrema radicalità, è la negazione di ogni possibilità di conoscenza. San Paolo nella "Lettera ai Romani" scrive: "Come uno non può sperare quello che già possiede - perché se ce l'ha non lo può sperare -, così nessuno può credere in qualche cosa che già conosce", per cui la fede è sostanzialmente mancanza di conoscenza.
In questo noto una paradossale superiorità, perché mi sembra di vedere il non-credente che, in mille modi, si aggrappa agli specchi per cercare di dimostrare che qualcosa conosce; invece la fede può consentire questo dubbio assoluto, radicale, perché tutto è nelle mani di Dio e solo Dio è vero. Se noi pensiamo alla totale contingenza della creazione, ci rendiamo conto che si tratta diuna pura contingenza che può essere revocata in qualunque momento. È chiaro che in questo orizzonte non c'è nessuna conoscenza, c'è soltanto una speranza, c'è soltanto un'invocazione, c'è soltanto una volontà: Horkheimer parlava di una “nostalgia del totalmente altro” quando diceva: "Io non sono disposto ad accettare una realtà in cui il carnefice prevalga eternamente sulla vittima". Non sa quale sarà il destino del carnefice, quale sarà il destino della vittima, fino a che punto potrà rispondere a questa sua esigenza di non vedere il carnefice sempre prevalere sulla vittima: non lo sa, però lo spera, però lo crede.


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