Tra memoria e storia
David Meghnagi
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Segna con una traccia rossa la prima pagina del libro, perché la
ferita è invisibile al suo inizio
Edmond Jabès
Parlare dei pogrom del novembre '45 e del giugno '48 era un tabù. Sul
terrazzo soprastante la casa in cui abitavamo c'era una scritta in
gesso bianco: "novembre 1945, giorno della chomata".
Con questo termine due miei fratelli che ne avevano fatto l‘esperienza
diretta, avevano dato un nome al massacro (mora'aioth) di 145
persone: donne incinte a cui era stato squarciato il ventre, bambini
con la testa spaccata contro le pareti, decine di corpi ammassati e
avviati alle fosse del cimitero ebraico. A questi terribili racconti,
cercavo nella mia infanzia di contrapporne altri, di segno opposto,
che alleviassero il sentimento cupo e di oppressione in cui erano
avvolti quegli eventi. Cercavo le tracce di un’altra storia, quella
dell’autodifesa ebraica che nel ’48 respinse la folla assassina.
Ma anche questo era un tabù. Tutto era avvolto nel mistero: la
memoria viva della tragedia come quella della resistenza e del grande
esodo che aveva coinvolto quasi nove decimi della comunità.
Avevo appreso a riconoscere il significato di certi sguardi furtivi
dei miei genitori, le perifrasi e le allusioni quando il discorso
cadeva sul ’45 o sul ’48. Soltanto venti anni dopo potei ascoltare
dalla viva voce di mio fratello dei corpi che da ragazzo aveva visto
caricare su carretti per essere sepolti in fosse comuni. Era come se
il tempo non fosse mai trascorso. Tra i molti indizi vi era la fossa
comune in una zona appartata del cimitero dove era stata eretta una
grande tomba alla memoria di Moshé Fellah. A casa c’era la foto di
un parente di mio padre detto Muni el Gabbay, un uomo forte che aveva
svolto un ruolo di primo piano nella difesa del quartiere ebraico nel
’45. Il suo nome correva come una leggenda, i suoi lunghi mustacchi
estendevano un alone di protezione su chiunque. Mio padre teneva in
casa anche la foto di Napoleone, sosteneva che fosse ebreo. Come fosse
arrivato a questa conclusione, purtroppo non ho avuto il tempo di
chiederglielo, ma idee del genere circolavano anche fra noi. Un’idea
bizzarra dello stesso tipo l’avrei ritrovata molti anni dopo nell’opera
di Freud con riferimento al generale Massena per via dell’assonanza
con l’ebraico Menashé.
Quand'ero ragazzo anche una partita di pallacanestro poteva
precipitare i precari equilibri con gli arabi. I verità le squadre
arabe non accettavano di perdere, specie se giocavano contro squadre
ebraiche. Anche per noi ragazzi era così. Le partite non finivano e
talora bisognava trovare una onorevole uscita tra sassate reciproche.
Ma che accadesse allo stadio, era l’aspetto caricaturale del nostro
sport. Una partita una volta fu arbitrariamente prolungata per essere
poi sospesa a causa dell’oscurità. In un’altra occasione un’intera
squadra ebraica dovette abbandonare in fuga lo stadio per evitare il
linciaggio. Per una regola non scritta la nostra squadra del cuore, l’Aurora,
non poteva vincere il torneo, nemmeno se confluiva in un circolo
arabo, optando per la formula mista, come accadde per legge nel
biennio 1959-60.
Dopo il grande esodo del '48-'51 eravamo rimasti in pochi. Da
trentasei a quarantamila, che eravamo, ne erano rimasti nel ’51 poco
più di quattromila, di cui la metà circa con passaporto straniero. A
partire erano stati in gran parte i più poveri, quelli venuti dall’interno
del paese, che avevano perduto la speranza stessa di poter fare
ritorno ai luoghi che avevano in tutta fretta abbandonato. Ma anche
tra coloro che erano rimasti, più di un quarto era nei primi anni
Cinquanta nullatenente.
Eravamo una piccola comunità, ma costituivamo un "problema"
per una società attraversata da pulsioni nazionaliste e panarabe, che
anno dopo anno avrebbe eroso le basi sociali del regime monarchico
senussita, moderato e filobritanico. Eravamo un gruppo compatto
esposto alla crescente ostilità dell'ambiente circostante, ma non
eravamo omogenei. L'uso della lingua italiana era un segno distintivo
di status, che ci separava ulteriormente dal paese in cui eravamo
nati. Nella cerchia delle persone di cultura europea il nostro
dialetto era svalutato, chi frequentava il prestigioso liceo italiano
faceva di tutto per mostrarsi più "italiano" degli italiani
nella proprietà del linguaggio. La nostra bella erre era una shibboleth
e a scuola non mancava chi faceva di tutto per nasconderla, sperando
di rendere meno visibile la nostra differenza. Né mancava chi
pateticamente cercava di pronunciarla alla francese.
Nel nostro dialetto, che certi compagni di Liceo ebrei si sforzavano
di dimenticare, io potevo declinare una parola italiana come se fosse
araba, e al contrario potevo coniugare un verbo arabo come se fosse
italiano. Nel dialetto ero libero di collocare i pronomi italiani in
fondo alle parole arabe e viceversa. Potevo passare da un codice
linguistico all'altro, modificare la strutture della frase a seconda
della persona e con lo stesso interlocutore in circostanze diverse.
Potevo chiedere Chif halk (in arabo tripolino "come stai?)
e sentirmi rispondere in tre modi differenti Hali buono, hamdu L'lla;
Hali bai, ringraziamo Dio"; Sto bene, Baruch 'Shem . La
grammatica araba e quella italiana, potevano combinarsi
indifferentemente con quella inglese.
La mia vita era un gioco linguistico. Passare da un codice linguistico
all’altro era come viaggiare da un continente all’altro. Le
lettere e le parole del nostro dialetto, la loro combinazione
rivelavano il nostro percorso geografico e culturale, le differenze
esistenti all'interno di una stessa famiglia, le diverse province
psichiche che entravano in contatto fra loro. Le lettere e le parole
scelte erano mondi attraverso i quali passare velocemente, le
combinazioni linguistiche rivelavano la nostra storia culturale, i
suoi drammi interni; mostravano in sincronia i mutamenti a cui eravamo
andati incontro, la direzione che prendeva la nostra vita; di fronte a
forze storiche che non controllavamo e che avevano contribuito a
segnare il nostro destino rendendoci stranieri nel nostro paese;
indicavano la nostra sospensione tra una incerta "europeizzazione"
e un rifiuto che si respirava nell’aria. Nella proposizione Ringraziamo
Dio l'obbligo di ringraziare sempre Dio avveniva in una nuova
lingua, che era già indice di un passaggio culturale verso nuovi
codici linguistici e modelli comportamentali. Nella versione ebraica Baruch
'Shem ci si atteneva alla regola aurea di non pronunciare mai il
Nome invano. Hamdu L'lla ci portava nel cuore del mondo
islamico e nelle profondità della sua cultura. L'apogeo di questo
intreccio di mondi e di culture lo si poteva raggiungere, parlando
contemporaneamente tre o quattro lingue a seconda dell'interlocutore,
passando da una lingua all'altra con la stessa persona e a seconda
dell'argomento. Era un'oasi dove un ebreo poteva sentirsi italiano e
maltese, greco e arabo, continuando ad essere ebreo. Era una grande
ricchezza, non tutti lo sapevano.
Il vecchio quartiere ebraico con le sue case fatiscenti, dove non era
più tanto sicuro circolare, era ai miei occhi più bello della città
nuova coi suoi viali e giardini. Nella vecchia Hara avevo
cominciato a cercare le tracce di una storia che mi era stata carpita.
Se in una casa aveva abitato uno zio, che sapeva suonare il 'od
(nei due rami della mia famiglia erano numerosi coloro che eccellevano
nell'arte del canto e della musica sinagogale), le mura di quella casa
diventavano un museo. Se in una sinagoga aveva cantato e studiato il
nonno per me aveva un valore più alto. Il sabato passavo da una
sinagoga all’altra in cerca di una sapienza di altri tempi, amavo le
sinagoghe stracolme dei giorni di festa profumate di rose ed estratti
di fior d'arancio, la festa di Shavuoth in cui si offriva latte
di mandorla e bocca di dama e si faceva a gara a chi recitava meglio
il commento aramaico del Cantico dei Cantici.
Un Keter riuscito nella Tefillà di Musaf
di Kippur era oggetto di commenti per molte settimane. Era un
evento cittadino che celebrava i trionfo di chi aveva una bella voce e
nella mia famiglia erano in tanti a contendersi questa parte. Mi
sarebbe piaciuto nascere una o due generazioni prima. Avrei potuto
incontrare dei veri maestri con cui studiare il Talmud e lo Zohar.
Sapevo tutto del Purim shoshan, della storia di Ester,
di Mordekhai e dell'empio Aman. Ma se chiedevo notizie sulle origini
degli altri due Purim, che affettuosamente chiamavamo burim
g’ddabuni (Purim per bugia), per distinguerli dal vero Purim,
che ne forniva il modello secondo schemi consolidati di
resignificazione biblica della più ampia vicenda storica della
diaspora, erano in pochi a potermi illuminare veramente.
Volevo apprendere l'ebraico e poiché non era possibile continuare gli
studi oltre i primi cinque anni delle elementari, mi decisi a tradurre
la Bibbia. Non avendo un vocabolario, mi servivo dell'edizione
italiana del Diodati (in seguito avrei utilizzato anche la traduzione
del Pentateuco della Comunità ebraica italiana). Della versione
ebraica imparavo a memoria, ta'amim compresi, interi brani del
Deuteronomio, dei Salmi e dei Profeti, che poi provvedevo a
confrontare con la versione italiana. Con l’aiuto di un rabbino
cultore di Qabbalah, ne controllavo la fedeltà. Per passare
dall'arabo (che parlavo a casa in dialetto) all'ebraico avevo
elaborato un mio personale sistema. Avevo notato per esempio che
bastava modificare la s in sh, la b in v
per ritrovare in certi casi le stesse parole. All'arabo Shamsi (nel
nostro dialetto sams, sole) corrispondeva shemesh, a 'abd,
("servo") a 'eved, a f''al,
("meriti"), mif'al (impresa, stabilimento). Non
avendo un vocabolario avevo cominciato a fare lo stesso con l'aramaico:
dall'ebraico baruch (benedetto) passavo a berich, da shem
(nome) a shemè.... Senza saperlo riscoprivo il lavoro fatto
nel Medioevo dai grammatici ebrei sulla lingua ebraica a partire dall’arabo.
I miei giochi linguistici erano una vera e propria oasi. Potevano
occuparmi intere giornate. Lì celebravo un mio personale trionfo:
attraversare dall'interno i mondi in cui ero cresciuto, le culture in
cui mi ero formato. Lì le persone non si odiavano se parlavano una
lingua diversa, se avevano religione diversa, le differenze erano una
ricchezza da scambiare.
I comportamenti variavano dalla più stretta osservanza religiosa alla
frequentazione della sinagoga nei soli giorni di festa solenne. Salvo
uno o due "ribelli" i negozi degli ebrei restavano chiusi il
sabato. I cristiani chiudevano la domenica. Le autorità libiche
imposero per tutti il venerdì pomeriggio. I matrimoni avvenivano
nella quasi totalità all'interno del rispettivo gruppo di
appartenenza religioso e in genere tra persone che avevano lo stesso
status sociale. Grande lo scandalo quando avveniva il contrario. La kasheruth
era largamente rispettata, ma cresceva il numero delle persone che non
si vergognavano più di farsi vedere in auto di Shabbath.
L'estraneazione dalla vita pubblica del paese era la regola, la più
elementare delle precauzioni. Del resto se anche l'avessimo voluto non
avremmo mai potuto identificarci coi simboli della nuova nazione.
Potevamo dirci libici ma non arabi, né musulmani, ed era questo alla
fine ciò che più contava nella definizione dell’appartenenza
nazionale. Avevo dieci anni e provavo una solidarietà spontanea per
la lotta del popolo algerino. Non esitavo ad addentrarmi nei luoghi in
cui venivano esposte delle foto. Ma quella solidarietà spontanea
incontrava un suo limite angoscioso di fronte alla prospettiva di
dover aggiungere un nuovo Stato nella lunga lista di quelli che
praticavano il boicottaggio contro Israele. Se anche l’avessi
dimenticato, c’era l’isteria antisraeliana a ricordarmelo.

Le nostre condizioni di vita miglioravano, specie dopo la scoperta de
petrolio negli anni Sessanta da un quarto che erano i poveri della
comunità si erano ridotti a quaranta famiglie. La presenza ebraica
nel tessuto sociale ed economico della città di Tripoli era corposa.
Ma insieme ad essa l’incertezza e l'insicurezza avevano fatto il
loro ingresso duraturo nelle vite di ognuno. Falsa e illusoria era la
sicurezza di chi vantava conoscenze altolocate e aveva il dubbio
privilegio di poter presenziare a qualche cerimonia ufficiale. La
classe politica a cui si affidava la tutela di una traballante
posizione, era essa stessa condannata dai cambiamenti storici e dai
mutati equilibri politici che avevano contribuito a renderci stranieri
nel nostro stesso paese. La marea montante di un antimperialismo
xenofobo, che ci identificava col nemico della nazione araba, il
rifiuto di una nuova borghesia e di un'intellighenzia emergenti, erano
un fosco presagio. Ma l'uomo in genere non obbedisce mai al
comandamento di lasciare la propria casa e i propri luoghi se non
quando vi è effettivamente costretto.
Nella visione tradizionale dell'Islam, gli ebrei avevano il diritto
alla protezione, ma non all'uguaglianza giuridica e sostanziale. Gli
ebrei potevano diventare ricchi e influenti, in quanto la loro
operosità risultava ben accetta alle classi dominanti islamiche più
tradizionali, in particolare gli Ottomani, che sapevano di poter
contare sulla loro lealtà. Ma gli ebrei dovevano saper stare al loro
posto e non sempre questa precauzione era una garanzia di fronte a
crisi sociali acute o a cambiamenti improvvisi nella distribuzione del
potere all'interno della società araba.
L'impatto della società arabo islamica con il colonialismo europeo
aveva rappresentato per gli ebrei una possibilità nuova di
emancipazione da una condizione secolare di oppressione e
subordinazione. Si trattava però di un processo carico di conflitti
con il resto della società araba, che lo aveva subito dall'esterno e
non generato per una sua trasformazione interna. Al tempo stesso era
un processo contraddittorio per le oscillazioni della politica
coloniale italiana divisa, al suo interno, tra opzioni politiche e
culturali fra loro diverse, e non sempre compatibili, che potevano
andare dal desiderio iniziale di una rapida integrazione dell'elemento
ebraico in funzione della politica italiana nel Mediterraneo, alla
preoccupazione di non urtare la suscettibilità della popolazione
araba, alla necessità di fronteggiare il sostegno britannico alla
guerriglia del movimento senussita in Cirenaica.
Per la totalità degli ebrei fu un vero trauma vedere frustati nelle
pubbliche piazze quei pochi che avevano osato sfidare l'ordine delle
autorità coloniali di tenere aperti i battenti dei loro negozi il
giorno di sabato. La decisione del governatore Italo Balbo rientrava
in una politica di italianizzazione forzata di usi e costumi in vigore
nel paese e l'antisemitismo non ne era un corollario. Ma per molti
quelle frustate sulla pubblica piazza erano la fine di un sogno, il
preludio, almeno retrospettivamente, di nuove tragedie e sofferenze.
Due anni dopo, con le leggi razziali, anche per gli Ebrei di Libia, da
un giorno all'altro, fu fatto divieto di frequentare le scuole
pubbliche, far parte dell'amministrazione e salire sui mezzi pubblici.
Con l'arrivo degli inglesi nel gennaio del '43, la comunità sembrò
potersi gettare alle spalle l'incubo delle deportazioni e dei
bombardamenti, del lavoro coatto e delle rappresaglie (in Cirenaica
per via della simpatia mostrata nei confronti dell'avanzata degli
eserciti alleati inserire tragedia di Giado). Le voci sugli stermini
nazisti non erano ancora giunte nel paese (trecento circa furono i
deportati con passaporto britannico), anche se per precauzione non
mancava chi evitava con cura di fare uso di sapone per le voci che i
nazisti facessero uso di grasso umano per produrre sapone. L'incontro
coi soldati dell’Yishuv incorporati nell'ottava armata britannica,
aveva generato entusiasmo. Le associazioni ebraiche di ispirazione
sionista avevano ripreso con forza le loro attività. Dal Maccabi
al Ben Yehudah agli scouts degli Zofim
all'organizzazione giovanile Hechalutz, era tutto un pullulare
di iniziative nuove colme di speranze.
In realtà il ritorno dei vecchi quadri locali del nazionalismo arabo
e l'arrivo al seguito delle truppe di occupazione britannica di
"personale arabo importato", i red fez siriani,
palestinesi e soprattutto egiziani, non di rado inquadrati nei servizi
ausiliari di polizia, avrebbe creato una situazione carica di
conflitti e pericoli. Agitando lo spettro "di un complotto
sionista", i rappresentanti del nazionalismo arabo scoprivano un
mezzo particolarmente insidioso per coagulare l'invidia e le
frustrazioni della plebe con gli interessi dei ceti economici
emergenti desiderosi di soppiantare e di sostituirsi "al capitale
straniero". L'odio contro l'ebreo diventava parte di uno scontro
più ampio per il rovesciamento delle vecchie élites arabe al potere,
accusate di complicità con il colonialismo europeo.
L'interruzione dei flussi economici dall'Italia, la siccità e poi lo
straripamento dei torrenti locali, costituivano lo sfondo di questo
nuovo scenario. Alla notizia dei disordini antiebraici al Cairo e ad
Alessandria, gruppi di arabi avevano segnato di gesso i negozi e le
abitazioni degli ebrei. Fu l'inizio di un sanguinoso pogrom che colse
impreparata la popolazione ebraica. L'esercito britannico intervenne
solo tre giorni dopo quando il peggio era accaduto e la popolazione
araba era stata indotta dall'ambiguo, spesso complice comportamento
della polizia, a pensare che il pogrom fosse stato non solo tollerato,
ma autorizzato. Dopo la farsa delle cerimonie di riconciliazione
arrivarono le intimidazioni per evitare che la mancata adesione della
minoranza ebraica al movimento indipendentista libico potesse offrire
il pretesto alla potenza mandataria britannica di ritardare
l'indipendenza del paese, oppure (come andavano richiedendo le
organizzazioni ebraiche americane) costituire la base per la richiesta
di precise garanzie, a tutela delle minoranze, da incorporare nella
costituzione del nuovo Stato.
La tensione raggiunse di nuovo l'apice tre anni dopo, con l'afflusso
di centinaia e poi di migliaia di arabi del Nord Africa francese,
diretti verso Est, per unirsi agli eserciti arabi nella guerra contro
il nascente Stato di Israele. Ma questa volta la popolazione ebraica
non fu colta impreparata. Armati di coltelli, pietre e talora anche di
pistole e bombe, gruppi di ragazzi e ragazze, clandestinamente
addestrati, avevano apertamente fronteggiato e respinto gli aggressori
all'ingresso del quartiere ebraico. L'intervento dell'esercito
ristabilì questa volta prontamente l'ordine. Ma ormai ogni equilibrio
si era rotto. Una fiumana di gente disperata si era riversata a
Tripoli da ogni luogo e non voleva più fare ritorno alle proprie
case. Gli sfollati dormivano per strada, nei vicoli e nei cortili
delle sinagoghe. Per chi non aveva più casa, la nascita di Israele
era il sogno di un riscatto. Chi possedeva qualcosa la svendeva, per
pochi soldi si liquidava tutto. Il dolore era il segno dei tempi, il
parto di un'era nuova, il Messia era alle porte (chevlèi mashiach).
Le paure più antiche e la speranza si erano incontrati, un'attesa
spasmodica si era impadronita dei cuori. Nascevano canti in cui si
chiedeva al mare di essere amico con chi era clandestinamente partito
su imbarcazioni di fortuna, "acquistato" passaggi su
mercantili e pescherecci in partenza da Tripoli. Per molti i beni più
preziosi erano una coperta e qualche pentola di alluminio, un po'
d'olio messo da parte, un gatto o un cagnolino da cui non ci si voleva
separare, il libro di preghiere e dei semi di gerani e di zafferano da
piantare nella terra dei padri. Il profumo di quei gerani ha
contribuito a rendere meno lancinante la separazione dai luoghi di
nascita, più famigliari i luoghi mitici del ritorno, più contenibile
lo scarto tra le promesse di riscatto e la dura realtà della vita
negli anni cinquanta e sessanta in Israele nelle tendopoli di Beit Lid,
di Tel Litvinski, di Mahane Israel, e nelle ma'abaroth della
nascente cittadina di Bat Yam. Serve oggi come mezzo secolo fa a
profumare il caffè e a benedire l'arrivo dello Shabbath'.
All'indomani dell'indipendenza libica chi tra gli ebrei godeva del
diritto di voto, si guardò bene dall'esercitarlo. Per la paura anche
la concessione di un contributo per coprire le spese necessarie ad un
gruppo di anziani e malati, senza parenti e possibilità di lavoro, in
procinto di partire per Israele, dovette essere negata dalla
comunità. La chiusura del circolo Maccabi con l'accusa di
svolgere "attività sovversiva", venne considerata una
"triste necessità" con cui convivere. Ci si consolava se
dopo la sospensione del servizio postale con Israele, restava almeno
la possibilità di ricevere delle notizie tramite amici e conoscenti
che vivevano in Italia. Negli anni seguenti con una serie di
provvedimenti (1960-'61) ai "non libici", persone fisiche e
giuridiche, venne vietato l'acquisto di beni immobili, vietato agli
agenti di commercio (fra gli ebrei circa 400) di avere più di dieci
rappresentanze ciascuno e applicato per solidarietà con la lotta di
indipendenza algerina il boicottaggio dei prodotti francesi.
Si trattava di disposizioni di legge che colpivano tutti gli stranieri
residenti nel paese. Ma il loro carattere discriminatorio risultava
ben evidente nelle indicazioni non scritte che i notai e gli uffici
giudiziari locali ricevevano per impedire, indipendentemente dal
possesso o meno della cittadinanza libica, ogni presenza ebraica nelle
attività connesse all'industria petrolifera e in quella relativa
all'acquisto di immobili. Agli ebrei era precluso l'impiego
nell'amministrazione pubblica, occorreva un prestanome arabo per
svolgere attività produttive o acquistare terra. Ad un certo momento
le stesse istituzioni comunitarie, coi loro beni, erano state poste
sotto controllo cautelare (dicembre 1958) e i beni degli ebrei che
avevano lasciato il paese nel grande esodo di fatto confiscati e messi
"sotto custodia" (marzo '61).
La scoperta del petrolio e la grande ricchezza che ne derivò, sembrò
in un primo momento poter stabilizzare la monarchia e le vecchie
élites al potere. Nel clima di relativa tranquillità e ottimismo dei
primi anni sessanta, il diritto alla cittadinanza degli ebrei libici
era stato di nuovo riconosciuto grazie ad una petizione appello di un
gruppo di autorevoli esponenti della comunità, con passaporto
straniero, accompagnata da una serie di passi delle organizzazioni
ebraiche americane alle Nazioni Unite. Ma si trattava solo di un gesto
parziale, che limitava il rilascio dei passaporti solo a chi viaggiava
per motivi di salute, e per affari, con la precisa condizione che uno
dei componenti del nucleo famigliare restasse in "ostaggio";
In ogni le autorità si erano guardate bene dal raccogliere la
richiesta di poter tornare ad amministrare direttamente le proprie
istituzioni religiose e di beneficenza, e l'autorizzazione a
ricostituire il tribunale rabbinico facendo venire dall'estero un
rabbino capo, gli insegnanti e i libri di testo necessari a far
funzionare le scuole ebraiche.
Il rafforzamento del regime monarchico fu in realtà solo apparente.
La corruzione dilagante, i privilegi, lo spreco avrebbero ampliato nel
corso degli anni la distanza tra la classe al potere e le aspirazioni
che percorrevano i ceti mercantili emergenti, l'intellighenzia
nazionalista e i quadri più giovani dell'esercito. Un esempio del
mutato clima furono i gravi disordini seguiti alla mancata
partecipazione del re Idrìs al summit panarabo del '64. Poderose
forze storiche all'opera da decenni avevano progressivamente segnato
il nostro destino rendendoci stranieri nel nostro paese. Soggetto ad
una forte erosione del consenso interno, esposto all'accusa di tenere
per sè le grandi ricchezze della nazione araba, anno dopo anno il
regime senussita allineava la propria legislazione antiebraica a
quella dei regimi arabi più radicali. Il nome di Israele risultava
cancellato dalle mappe apposte sulle pareti delle classi scolastiche,
eliminato ogni riferimento dai giornali in lingua straniera, fosse
stato anche un articolo relativo alla partita Israele-Italia per la
qualificazione ai mondiali del Cile (inserimento finale
Inghilterra-Germania partita Italia-Israele di Tel Aviv);
quotidianamente aggiornata la "lista nera" delle imprese con
cui era vietato avere alcun tipo di rapporto, l'acquisto di ogni loro
prodotto era interdetto, perché avevano relazioni economiche con
Israele; la chiusura, nonostante le proteste dell'UNESCO, della scuola
dell'Alliance Israelite Universelle.
Ma la cosa più umiliante era che gli ebrei più benestanti fossero
obbligati a versare un contributo ad una causa, quella dell'OLP di
Shukeiri, il cui scopo dichiarato era la distruzione dello Stato di
Israele. La possibilità di appellarsi alla protezione delle persone
più altolocate per far fronte ai nuovi sviluppi, di far leva
sull'inefficienza dell'amministrazione statale e sulla corruzione
interna del regime per mettere al sicuro all'estero una parte dei
propri averi (soprattutto per chi era in possesso di una cittadinanza
straniera), era fonte di nuove accuse che rendevano ancor più
insidiosa l'agitazione dei gruppi più ferocemente nazionalisti e
apertamente xenofobi. Si creava così un circolo vizioso le cui
conseguenze si sarebbero fatte sentire con lo scoppio della guerra
arabo israeliana del giugno 1967.
Esclusi dalle attività connesse alla lavorazione e trasformazione del
petrolio, gli ebrei avevano trovato ampia compensazione (con un
cambiamento vistoso nelle condizioni generali di vita dell'intera
comunità) nel commercio e in numerose attività di rappresentanza con
l'estero. In meno di sei anni il numero dei "poveri",
valutato nel '57 alla metà circa di coloro che non possedevano un
passaporto straniero, era sceso a non più di quaranta nuclei
famigliari. Il crescente benessere era ampiamente visibile nel
numero di giovani che si iscrivevano al prestigioso "Liceo Dante
Alighieri" (su quaranta studenti del terzo anno nel '67 gli ebrei
erano quasi la metà, ed erano tra i più bravi), nella fuga dal
vecchio quartiere ebraico, ormai abitato in prevalenza da arabi, verso
i quartieri della città nuova.
Nelle settimane precedenti la guerra del giugno '67 la tensione si
respirava nell'aria. Le prime avvisaglie di un nuovo pogrom erano
cominciate il venerdì 2 giugno, quando anche gli ulema dalle
moschee avevano cominciato a proclamare la guerra santa dalle moschee
e a tenere sermoni in tal senso alla radio. Quasi contemporaneamente
veniva indetta per il 5 giugno una settimana di propaganda in favore
della causa palestinese, alla quale sotto la pressione della
propaganda egiziana e siriana, si dovette associare anche il governo,
dichiarando a nome del re che il paese si considerava "in stato
di guerra difensiva" e si poneva a piena disposizione per la
liberazione della Palestina. Le radio accese a tutto spiano in ogni
luogo proclamavano l'imminente distruzione di Israele e dei suoi
abitanti.
Presa dal panico la direzione della comunità ebraica aveva inviato al
re un telegramma di solidarietà, in cui si sottolineava la posizione
di neutralità e la fedeltà alla sua persona. Nel chiuso delle
sinagoghe era stato proclamato il digiuno, nelle case si accendevano i
lumi Rabbì Meir e a Bar Yochai. Temevo per mia sorella,
temevo per mia madre, più di ogni altra cosa mi terrorizzava la
prospettiva di una violenza generalizzata contro le donne. Della mia
personale sopravvivenza ormai non mi importava più. Mi ritrovavo a
fare la fantasia di donare la mia vita al posto di quella dei miei
fratelli. Lo spirito del sacrificio si era impossessato delle fibre
mie più interne. Mi ci sarebbero voluti ani prima di riacquistare il
sentimento di poter vivere anche per me. La preoccupazione per l’imminente
pogrom era in me attenuata solo dall’angoscia prodotta dall’immagine
degli eserciti arabi che accerchiavano lo Stato ebraico. Tel Aviv
distava pochi chilometri dal fronte orientale, il confine a
Gerusalemme era costituito da un reticolato. Nel silenzio della
notte, mi chiedevo cosa sarebbe accaduto se a colpire per primi
fossero stati gli eserciti arabi.
Alla notizia dello scoppio della guerra, il 5 giugno '67, la folla era
esultante per le strade. Radio Cairo annunciava la distruzione di Tel
Aviv e Haifa. Sapevamo che erano notizie false a cui la propaganda
araba ci aveva abituati, ma la paura era grande. Dai balconi della
sede dell'OLP arrivano appelli alla guerra santa. Nell'attesa
silenziosa e interminabile che i famigliari e i vicini tutti facessero
rientro a casa, mi chiedevo angosciato cosa avremmo dovuto fare se la
folla avesse tentato ora di forzare il portone di ingresso del palazzo
in cui abitavamo. Mio fratello Isaac era riuscito a fuggire da una
finestra interna, quando l'ufficio era già in fiamme. Come nel '45 e
nel '48 gruppi di giovani avevano segnato di gesso le case e i negozi
degli Ebrei.
Solo con difficoltà, dopo aver proclamato lo stato di emergenza ed
coprifuoco, le autorità erano riuscite a riprendere il controllo
della situazione. Il momento critico fu giovedì 8 giugno quando la
polizia dovette fronteggiare una marcia su Tripoli dei contadini di
una vicina località (Zawia) che aveva fornito la più alta
percentuale di volontari libici alla guerra contro Israele. Armati di
bastoni e coltelli intendevano ripulire di ogni presenza straniera
ed ebraica la città di Tripoli. La congiunzione delle due proteste
doveva segnare l'inizio di una sollevazione generale che avrebbe
dovuto coinvolgere, nelle intenzioni delle organizzazioni panarabiste
di ispirazione nasseriane, importanti settori dell'esercito. Le cose
andarono per fortuna diversamente. Gli ebrei che vivevano ancora
nell'antico quartiere furono evacuati e trasportati a centinaia
insieme ad altri fatti affluire dai quartieri della città nuova, nei
posti di polizia, nelle caserme e del campo di Gurgi alla periferia
della città.
Nei giorni seguenti le notizie degli scontri avvenuti alla periferia
della città tra la polizia e i rivoltosi si erano mescolate al
terrore panico che l'aviazione israeliana si accingesse a bombardare
il paese. Nella fantasia collettiva Israele era ora potentissimo, i
suo soldati potevano arrivare ovunque per ripagare con la stessa
moneta le efferatezze compiute contro la popolazione ebraica indifesa.
L'isteria collettiva era stata favorita dalla notizia che gli
israeliani erano entrati nello spazio aereo egiziano da ovest e non da
est come ci si attendeva. Dalle tapparelle chiuse delle finestre di
casa era possibile vedere, senza capire perché, gruppi di auto e di
moto cariche di sacchi di farina che si dirigevano velocemente in
direzione della periferia occidentale della città, o forse verso
l'interno. L'attività economica era totalmente paralizzata, la gente
che alcuni giorni prima esultava, vagava ora inebetita. Cessati erano
gli abbracci sotto la sede dell'OLP dei giovani volontari per il
fronte vicino a camion carichi di masserizie, il te' incluso, per una
gita di morte. L'esaltazione parossistica aveva lasciato il posto ad
una cupa disperazione. Il silenzio era rotto di sera dai passi pesanti
dei militari che montavano la guardia alle nostre abitazioni. I camion
della polizia si avvicendavano per le strade deserte per il
coprifuoco.
Chiusi nelle nostre case, passavamo interminabili giornate davanti ad
un televisore comune. Non vi era nulla che indicasse un possibile
ritorno alla normale precarietà di un tempo. Non sapevamo nulla dei
nostri parenti e di mio fratello Simon e temevamo un ammutinamento. Ci
chiedevamo cosa fare se l'esercito o la polizia fossero venuti a
prelevarci per il campo di Gurgi, come garantirci da una trappola.
L'idea era di guadagnare tempo, dire se necessario che eravamo in
contatto con il vicino comando di polizia, chiedere ai capi della
comunità (in particolare quelli che, avendo un passaporto straniero,
godevano di una qualche protezione presso le loro ambasciate) di
informare le autorità generali di polizia e dello Stato di ogni
possibile nuovo sviluppo. Mia madre era ossessionata all'idea che
potessimo fare la fine degli ebrei sotto i nazisti. Le sue paure non
erano infondate. Come avremmo saputo in seguito, con quella tecnica un
gruppo di soldati aveva prelevato e trucidato due famiglie di amici.
Eravamo cinquantadue persone, tra inquilini e rifugiati. Dividevamo il
cibo procurato grazie ad una famiglia di mussulmani di colore, che per
non creare sospetti tra i vicini arabi e palestinesi, chiamavano mia
madre col nome della loro figlia più piccola, Aisà. Come noi
altre famiglie avevano trovato in quei giorni la solidarietà dei
vicini cristiani e mussulmani. In arabo 'Aisa vuol dire vita,
non lo avrei mai dimenticato.
Potevamo dirci fortunati. Abitavamo non molto distanti dal comando
centrale di polizia. La sera ci riunivamo tutti in una casa per
ascoltare insieme le ultime notizie dalla viva voce di Arrigo Levi.
Passata la grande paura, c'era chi scaricava la tensione accumulata
mimando l'ultimo discorso di Nasser, in cui si annunciavano le
dimissioni, e lo scambio di telefonate fra re Hussein ed il rais
egiziano, intercettate dai servizi segreti israeliani. Maliziosamente
qualcuno sorrideva di un uomo anziano risposato da poco, che si faceva
il bagno tutte le sere prima di appartarsi nelle proprie stanze. Un
altro si faceva preparare dalla moglie dei biscotti a forma di stella
di David, che portava al collo festoso. Una sicurezza nuova aveva
trovato posto nei cuori. In molte case si concepivano nuove vite. Alla
vista sul video dei soldati di Israele che pregavano al muro
occidentale la commozione era alta. Ma un pensiero non mi dava pace:
pensavo a chi non era più e mi chiedevo semmai avrei rivisto vivo mio
fratello emigrato nel '60 in Israele.
Le immagini sul video si avvicendavano. Una donna palestinese guadava
col figlio il ponte Allenby. "Poveretti" esclama una bimba
fra noi. "Poveretti mrd" (poveretti un accidente) le
fa eco un altro. "Se fosse andata diversamente, per noi era
finita". Nasce una discussione. Levatasi dalle nostre case
indifese, la voce smarrita di quella colomba era la conferma che la
piccola sorella, evocata all'inizio di ogni anno, non ci aveva mai
abbandonati.
I giorni passavano e noi restavamo rinchiusi nelle nostre case. In
alcune case c’era il telefono che squillava. Il più delle volte
erano telefonate minatorie che mettevano a dura prova i nostri nervi.
Un giovane ebreo che aveva commesso l'imprudenza di riaprire i
battenti della sua macelleria per portare della carne a degli amici,
era stato ucciso a coltellate. Una giovane si era messa il velo arabo
per procurarsi del pane, tradita dal suo accento, era stata uccisa sul
posto. Chi era in possesso di un passaporto straniero aveva già
lasciato la città. Per noi tutto era più complicato. Avevamo bisogno
di un visto di uscita e di un paese disposto almeno a farci transitare
per Israele. Un paese c'era ed era l'Italia. Alla fine dopo lunghe
trattative internazionali, il governo libico aveva deciso di offrire
un visto turistico di tre mesi agli Ebrei che ne avessero fatto
richiesta.
Avrei dovuto essere felice. Quel momento lo avevo accarezzato e
sognato per anni. Ma ora che si avvicinava quel momento ero pieno di
amarezza. Non sapevo chi dei miei amici era ancora vivo, la sera del 5
giugno le fiamme erano salite molto in alto sull'antico quartiere
ebraico. Non l'avevo immaginata così la mia partenza. Se uno di noi
era preso dalla tristezza, vi era sempre qualcuno che lo incoraggiava
benevolmente. Se qualcuno aveva telefonato a dei colleghi di lavoro
arabi per salutarli, ricevendo in cambio ingiurie e minacce di morte,
c'era chi rideva di crepacuore per l'ingenuità e l'inconfessata opera
di seduzione verso un mondo nel contempo amato e odiato.
Durante i preparativi notai che era caduto dalla tasca di mia madre un
calzino. Era di mio fratello. Lo teneva con sé da sette anni. Vedendo
quella scena mi sono detto "Signore fa’ che sia vivo!". Il
giorno della partenza c'era una jeep della polizia ad attenderci. Era
mattino presto, l'aria fresca per la brezza marina. Presto avrebbe
fatto un caldo afoso. Il poliziotto armato di mitra non vedeva l'ora
di liberarsi dall'ingrato carico. Mi sentivo solo con quei bagagli. Il
mio unico desiderio era di lasciarmi per sempre alle spalle quel
mondo. Un mio caro amico italo maltese passava di lì. Ci siamo
scambiati uno sguardo carico di parole, un saluto rapido come se nulla
fosse accaduto, nessuna commozione, nessun abbraccio, ci siamo detti
ciao.
Per molti anni dopo avrei vissuto come se l'esperienza della mia
infanzia fosse appartenuta al passato più remoto. Un grande
spartiacque divideva la mia vita. Il prima e il dopo erano fra loro
irriducibili, anche se erano passati pochi anni. Impegnato a favore
del dialogo per la pace nel Vicino Oriente, l'idea di un ritorno al
mio paese natale, anche per una breve visita, non mi aveva mai
sfiorato. Non c'era più nulla che mi legasse a quel passato. Mi
ritenevo fortunato perché da quell'inferno ero uscito salvo. Il
legame tra le generazioni non era stato spezzato, i figli hanno potuto
conoscere i nonni, la gente ha potuto ricrearsi una vita libera in
luoghi più ospitali.
Ma vi è pur sempre qualcosa di inquietante, nel ritenersi fortunati
perché "altri" hanno avuto un destino peggiore. E’ un
modo di proteggersi dall'intensità di emozioni, che nell'incontro con
i profumi dell'infanzia e nell'attesa ad uno scalo aereo, possono
sciogliersi nella produzione di ricordi nuovi. Sul tabellone che
indicava i voli in partenza, le scritte Roma-Tel Aviv, Roma-Tripoli mi
apparvero come sovrapposte. Mi sembrava che un luogo portasse
all'altro e da uno si potesse tornare all'altro. La mia Tripoli aveva
viaggiato con me, era parte del mio mondo onirico insieme ai ritmi
della musica orientale così ricca ed espressiva, ai canti sinagogali
che udivo in casa, da bambino, nelle caldi notti di plenilunio, alla
nostalgia che provo quando penso agli amici perduti, all'intensità
dei profumi del mio paese natale e alla sua brezza marina, al piacere
che provavo nel passare dall'arabo all'ebraico e dall'ebraico
all'arabo, nel comporre un tema in italiano come se fosse latino col
risultato di prendere brutti voti perché in italiano i verbi non
vengono messi in fondo alla frase ed è meglio utilizzare una prosa
piana. La mia coscienza vigile poteva cedere ad una piacevole
fantasia.
Bibliografia generale.
L. Arbib, The antisemitic riots in Lybia of June 5-th,
luglio 1967, in Archivio dell'American Jewish Committee,
Parigi.
AA.VV. Yahaduth Luv, a cura di F. Zuarez, A Guetta, Z.
Shaked, G. Arbib, F. Tayar, Tel Aviv, 1960.
L. Carpi,La condizione giuridica degli ebrei nel Regno Unito
di Libia, in "Rivista di studi politici internaziali",
1963, pp. 87 e sgg.
R. De Felice, Ebrei in un paese arabo. Gli ebrei nella Libia
contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo
(1835-1970), Il Mulino, Bologna 1970.
H. E. Goldberg, Ecologic and Demographic Aspects of Rural
Tripolitanian Jewry: 1853-1943, in "International Journal of
Middle East Studies,, 1971, pp. 245 sg.
-- Rites and riots: the Tripolitanian pogrom of 1945, in
"Plural Societes", primavera 1977, pp. 35 e sgg.
Z. Habib, I tumulti anti ebraici in Tripolitania 4,5,6 e 7
novembre 1945, relazione aggiornata al 31 dicembre 1945, in
Archivio dell'UNione delle Comunità Israelitiche Italiane,
fascicolo "Fatti di Tripoli".
-- Due relazioni sul pogrom del 12-13 giugno 1948, ibid.
Y. Habib, Memorie inedite.
S. Nemni, Memorie inedite.
Alla vigilia del pogrom del giugno ’67, dei seimilatrecento ebrei
ufficialmente residenti in Libia (il numero reale era inferiore
perché la comunità si guardava bene dal cancellare dal registro dei
suoi iscritti chi era emigrato con la scusa di un viaggio
"turistico"), solo trecento vivevano a Bengasi.
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