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Letti per voi/Una donna contro l'ortodossia



Susannna Nirenstein


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Questo articolo è apparso su la Repubblica  del 19 luglio

Fifi Rozner, sradicata dall'amato quartiere di Tel Aviv dove ha trascorso un pezzo di infanzia per trasferirsi in quello ultraortodosso di Bnei Brak, ha più di una cosa in comune con Rachel Benjamin, figlia di un rabbino chassid di Brooklyn: innanzitutto sono due ragazze ebree, cresciute in famiglie molto osservanti. E poi amano i romanzi. Li leggono di nascosto, li sognano, li pensano, fanno chilometri a piedi per raggiungere biblioteche pubbliche dove nessuno possa vederle entrare, prendere in prestito volumi proibiti dalle norme del loro gruppo, e vivere così infinite vite, volare alto, fuori dai confini. Coltivano insomma una passione di per sé sovversiva: leggere, essere curiose dell'"altro", un atto talmente rivoluzionario in una società chiusa da portarle lentamente, complici mille altri elementi, certo, a rompere, ad andarsene.

Fifi e Rachel sono le coraggiose protagoniste di due libri in gran parte autobiografici: il primo è americano, uscito in Italia nel '97 (La lettrice dei romanzi d'amore, di Pearl Abraham, Einaudi), maturato nella New York ebraica ortodossa; il secondo, (Lo strappo, Feltrinelli, pagg. 301, lire 28.000) da pochi giorni in libreria, è stato scritto da Judith Rotem, nata a Budapest poco prima della fine della guerra, passata attraverso il lager di Bergen Belsen, per un campo profughi in Svizzera e poi, finalmente, approdata in Israele, all'inizio in un ambiente religioso ma sostanzialmente aperto e sionista, e dopo poco, a circa 8 anni, a Bnei Brak, una cittadina tutta di haredim, i più intransigenti ultraortodossi, un mondo "a parte" costruito in mezzo ai "Dio non voglia" e "sia benedetto il Suo nome", sottoposto a infinite regole e tabù ("perché sono stati posti tutti questi divieti?", Fifi chiede un giorno al rabbino, "per proteggerci da noi stessi?").



E' un racconto speciale, capace di entrare senza remore, eppure senza scandalismi, nella vita di tutti i giorni, nelle cucine, nei letti, le sinagoghe, le scuole, per le strade di una comunità blindata (assai più autoconclusa di quanto possa avvenire nella rutilante America), separata dai goym, i gentili, ma più clamorosamentedagli ebrei meno religiosi, e ancor più dagli israeliani sionisti, colpevoli agli occhi degli haredim non tanto, ormai, di non aver atteso il Messia per ritrovare "Israele", ma di aver fondato uno Stato largamente laico, e dunque minaccioso, in grado di corrompere la loro presunta purezza.

Nel romanzo di Judith Rotem, Fifi, che ha tanti nomi quanti desideri di identità o identità imposte (Frédérique, Faradel, Shlomit), forte delle letture segrete della Austen, di Dickens, Tolstoij e di un innato animo ribelle, riesce a convincere suo padre a farle proseguire gli studi e soprattutto a mandarla in un liceo meno fanatico dell'istituto che ha frequentato dove le bambine devono seguire, sotto un controllo sociale totale, norme di comportamento assillanti: calze lunghe marroni, gonne molto sotto il ginocchio, maniche fino ai polsi, modestia nei colori, nella voce, divieto di letture "ripugnanti", ovvero non religiose, di cinema, amicizie permesse solo all'interno della cerchia della yeshiva "Bet Yaakov", la scuola di Torah.

Eppure, Fifi, a 18 anni, non riuscirà a sottrarsi al matrimonio con uno studente di "Bet Yaakov" che, come tutti gli haredim, si farà mantenere da lei per poter dedicare la vita allo studio dei testi sacri. Quell'uomo la schiaccerà e la umilierà continuamente con le sue domande sui periodi di "impurità" o meno ("C'è sangue?"), da cui gli ortodossi fanno dipendere la possibilità di accostarsi, toccarsi, amarsi. Judith Rotem dopo venti anni di matrimonio a Bnei Brak e sette bambini (ma in realtà sono nove, perché due sono morti da piccoli), ha lasciato suo marito e se ne è andata, poco più in là, a Ramat-Gan, nella laica Tel Aviv. Le telefoniamo.

Perché il suo romanzo non finisce con la fuga liberatoria che invece lei ha fatto, ma nello sgomento, nell'incomprensione?

"Il mio è un Bildungsroman, un romanzo di formazione. Ho voluto descrivere dall'inizio la vita di una bambina che si trova stretta tra le norme religiose, spiegarne i principi, gli ingredienti, portarla fino al punto in cui maturerà la svolta, il cambiamento, lo strappo. Non è solo la storia di una ragazza ebrea ortodossa in Israele, è la storia di una giovane che cresce in un ambiente chiuso, strozzato: potrebbe avvenire dovunque".

Così per lei non è la religione di per sé a soffocare la libertà?

"La religione è un ingrediente importante. Ma io ancora non ho capito se è la religione a rendere gli uomini così attaccati ai divieti, o se è la loro natura a farli bisognosi di tabù che vengono poi cercati nell'ortodossia o altrove. Non so se mio marito volesse essere perfetto per motivi religiosi o se fosse così per avere potere su di me. Adesso ho un uomo, è religioso, ma aperto: non siamo sposati, viviamo in due case, accetta il mio non essere osservante, ed è sanamente pieno di dubbi. Ha da poco portato suo figlio, che è più religioso di lui, in un viaggio in Europa: alla fine, dispiaciuto, si chiedeva perché quel ragazzo fosse così maniacale nelle sue 613 mizvot, i precetti indicati dai testi sacri. Gli ho risposto: buongiorno!, benvenuto tra noi. La religione può aiutarci con le risposte rassicuranti che dà alle domande esistenziali. Ma immiserisce e rende infelice chi come me vuole sentirsi libera e non desidera nessuno che gli dica cosa fare o cosa non fare".

Cos'è allora che l'ha trattenuta a Bnei Brak per tanto tempo?

"Loro, gli haredim, sono veri maestri del senso di colpa. Se non hai voglia, nel caldo israeliano, di metterti gonne e calze e maniche lunghe, ti guardano, ti giudicano. Se hai un ragazzo, se leggi un libro, sei colpevole, impaurita, strappata".

Come in Kaddosh, il film di Gitai?

"Per quel che ne ho visto - mi intervistarono durante la proiezione e dunque ne persi dei brani - non mi è piaciuto. L' ho trovato superficiale. Una raffigurazione priva di vita. E poi non c'è più nessuno che ripudi la moglie perché non nascono figli, che non chieda a se stesso se lo sterile è lui, il maschio. Che non adotti, magari".

E' la donna a essere particolarmente offesa, colpita, da questo mondo di divieti?

"Assolutamente sì. Anche se non in tutti i gruppi ultraortodossi. In alcuni almeno studiano, pregano con gli uomini. A Bnei Brak no: "Brucino le parole della Torah pur di non darle alle donne" aveva detto rabbi Eliezer. E se non hai accesso alla conoscenza non avrai mai potere. Poi ci sono le regole sull'impurità, l'intromissione sui giorni del ciclo, il controllo sociale che avviene al bagno rituale, il miqveh: qualcosa che nel libro paragono a uno stupro. Anche se non tutte la pensano così: in alcune riunioni fatte con cinquanta ultraortodosse (da cui ho tratto il mio primo libro Distance sisters), c'erano donne che sostenevano come l'intimità con il marito su questi temi fosse meravigliosa, come alla separazione imposta dal periodo mestruale seguisse un rinnovamento della coppia e del desiderio. Non so se credergli. Io non ammetto di dovermi sentire "impura", mai. E' un concetto primitivo. I religiosi hanno paura di chiedersi se le regole che avevano un senso secoli fa ce l'abbiano ancora. Credo nella tradizione, ma solo se non offende gli altri".

E gli uomini, gli uomini haredim sono felici?

"Hanno accanto delle donne infelici. E anche loro se volessero giocare a football, dipingere, studiare altro, non lo fanno. Sono come marionette. Le mie figlie hanno tutte studiato, e ne sono orgogliosa, Michal è un art designer, Noah lavora nel teatro, Nurit è avvocato, Naomi terapista. Tamar, la più grande, è giornalista. Ho un figlio invece, Eleazar, che è rimasto con suo padre: quando lo guardo mi rattristo. E' intelligente, brillante, poteva diventare qualsiasi cosa. Invece, a 33 anni, ha sei figli e sta solo chiuso nella yeshiva a studiare. Lui dice di essere felice così. Ma se desiderasse cambiare, dov'altro potrebbe andare?".

Che ne dice del fatto che gli ultraortodossi in Israele non facciano il militare?

"Che è immorale. Non è giusto che altri ragazzi muoiano al posto loro. I religiosi, credo, hanno paura soprattutto che i loro figli incontrino altri modi di vita, la diversità. La separazione degli ambienti è ciò che salvaguardia la loro esistenza".

Lei è ancora religiosa?

"No, sono solo molto ebrea. La storia degli ebrei è la mia storia. E sono interessata e legata a tanti religiosi. Così, in casa, mangio kosher: perché anche mio figlio, e gli amici osservanti, possano venire senza imbarazzi. Ma se sono in Italia mangio qualunque cosa. Non importa cosa metti in bocca, ma quel che esce dalle tue labbra, le parole".

Cos'è che l'ha portata via dagli ultraordossi?

"I libri, che mi hanno aperto gli occhi all'amore. Il senso della bellezza e dell' estetica che ho ereditato dalla cultura ungherese. Quello della vita e del costruire, che ho ereditato dagli anni del sionismo. Qualcosa che ho dentro di me: non sono mai stata una "yes girl", ho sempre chiesto molti perché. E' stato comunque un processo lento e doloroso. Il punto di svolta fu quando dissi a mio marito, dopo sette figli, che volevo studiare all'Università. Mi rispose: come puoi paragonare il tuo bisogno di studiare al mio? Dopo due anni, chiesi il divorzio".

E cosa fece quando se ne andò da Bnei Brak?

"Non andai a ballare, non mi misi il bikini. Non ho nessuna propensione ad esibirmi. Iniziai ad avere nuovi amici, degli uomini. Non amanti, amici. Era un'emozione nuova. Ma il primo gesto di libertà lo feci il giorno dell'Indipendenza: misi una bandiera di Israele fuori della porta. Volevo finalmente dire a tutti che amavo Israele ed ero sionista".


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