Recensione/L’Arpa di Davita
Antonia Anania
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Davita entra per la prima volta in una sinagoga di Shabbos, per caso e
per curiosità, di nascosto dai genitori, seguendo i suoi vicini di
casa. E’ la prima di una serie di visite in cui Davita scopre feste
ebraiche come il bar mitzvah, e tutti i loro rituali: i mantelli
bianchi degli uomini, il rotolo portato in processione, le candele
accese, le recite delle preghiere andando avanti e indietro col corpo,
la divisione della sinagoga in due spazi, quello per gli uomini e
quello per le donne.
“L’Arpa di Davita”, scritto dal rabbino romanziere Chaim Potok,
ed edito da Garzanti-Gli elefanti, è stato pubblicato per la prima
volta nel 1985 e in Italia nell'89. Perché raccontare di un libro
uscito parecchi anni fa? Perché è un modo per avvicinarsi all’Yiddishkeit
- la gente, la cultura, la lingua, le feste, la cucina kosher, le
preghiere, le leggi - attraverso gli occhi e la mente intelligente e
curiosa di una bambina che, diventando adolescente, ha anche modo di
sperimentare personalmente la posizione femminile all'interno di una
comunità ebraica.
Davita è ebrea sin dalla nascita perché sua madre è ebrea, ma non
è mai vissuta all’interno di una comunità ebraica. Le vicende
raccontate nel romanzo si svolgono negli Anni 30, a New York. Ilana
Davita Chandal è una bambina singolare perché ha una famiglia
singolare: i genitori sono entrambi comunisti militanti; il padre,
Michael Chandal, è un cristiano non credente che scrive per un
giornale di sinistra, la madre, Channah, che proviene dall’Europa,
è un’ebrea non praticante, che fa l’assistente sociale e l’insegnante
d’inglese. Ecco perché Ilana Davita (femminile di Davide), non
conosce né il senso né il valore delle sue origini ebraiche.
La ragazzina vive in mezzo a riunioni di kompagni, e in mezzo a parole
e nomi come “idea”, “sciopero”, “proletariato”, “protezione”,
“magia”, “fascismo”, “stalinismo”, “capitalismo”, “guerra”,
“pogrom”, “Spagna”, “Etiopia”, “Mussolini”, “Hitler”,
“Franco” e ne chiede continuamente il significato, così come
cercherà il significato di tutte le parole che scoprirà accostandosi
all’ebraismo: yom-tom (buona fortuna), yeshiva (sinagoga e scuola),
kosher (permesso), Torah (la legge, il Vecchio Testamento), adonai
(nome di Dio nelle preghiere), mezuzah (tavolette con versetti biblici
da mettere sulla porta), goym (non ebrei), midrash (commentario
biblico)…. Sarà un caso o solo un’associazione mentale, ma molta
letteratura ebraica tende a farsi vocabolario, forse per spiegarsi
alle altre civiltà, ai goym appunto. Un esempio per tutti “Vedi
alla voce: amore” di David Grossmann (ed. Oscar Mondadori, 1988), un
romanzo che si sviluppa come un dizionario, pieno di glosse e
glossemi.
I Chandal traslocano di continuo, ma portano sempre con sé una foto
di tre “Stalloni sulla Prince Edward Island” e un’arpa eolia:
“Per quanto risalga nel ricordo, un’arpa eolia era appesa alla
porta d’ingresso”, racconta Davita. L’arpa e la musica che ne
scaturisce ogni volta che la porta si apre, rappresentano la casa e il
mondo di Davita. Un mondo ricco di stimoli: politica, storia,
religione, letteratura. La zia Sarah, infermiera volontaria in
Etiopia, avvicina la nipote al cristianesimo e alle sue storie; l’amico
della madre invece, Jacob Daw, scrittore ebreo, che osteggia ed è
osteggiato dal potere tanto da non ricevere più il visto per
ritornare in America, la introduce a favole strambissime dal forte
valore metaforico. Queste strane favole raccontano di un cavallo
diverso dagli altri, che parte alla ricerca di altri come lui, o di un
uccello che va al di là dell’oceano alla ricerca della sorgente
della musica, ma che vedendo stragi e guerre decide di fare ritorno al
luogo di partenza, sempre alla ricerca della musica.
Quest’ultima favola e la morte del padre avvenuta nel 1937 durante i
bombardamenti di Guernica, nel tentativo di salvare una suora,
ritornano sempre nei pensieri e nelle fantasticherie di Davita, e si
“materializzano” nella visione, al Museo, del quadro con cui Pablo
Picasso raffigura la tragedia della città spagnola. Un quadro bianco,
nero e grigio in cui la ragazzina immagina di entrare e di salvare un
uccellino, piangente, portandolo via dal toro, dal cavallo, dalle
macerie.
Davita, che si è avvicinata all’ebraismo quasi per istinto, per
istinto e per necessità reciterà il Kaddish alla morte del padre:
uno scandalo per la comunità perché il Kaddish è una preghiera
funebre che non è permessa alle donne. Davita, così come Channah,
sua madre, reagisce criticamente alle regole e alle leggi che non
permettono alle donne di recitare preghiere e di eccellere nell’interpretazione
della Bibbia. Anche Chandal reciterà il Kaddish per la morte di Jacob
Daw.
E ancora: Davita, una volta frequentata una scuola ebraica, diventa un’eccellente
studentessa, la migliore, ma non avrà il premio Akiva per l’interpretazione
delle Sacre Scritture, perché alcuni membri dell’amministrazione
della scuola temono uno scandalo: “Saremmo l’unica yeshiva con una
ragazza in testa a tutti i diplomandi. Il tuo nome e la tua foto
apparirebbero su tutti i giornali. Cosa penserebbe il mondo dei nostri
ragazzi?”, spiega a Davita un professore. Alla fine la faccenda si
dissolve, perché “per quanto tempo ci si aspettava che uno
rimanesse sconvolto per un affronto così meschino?” Al contrario,
Davita risponde all’affronto usando le Sacre Scritture: come compito
di fine anno decide di analizzare il commento di Rashi al versetto:
“Aspira a un giusto tribunale…”.
Chaim Potok è un rabbino, giornalista e narratore, e ci tiene a
mostrare quanto la comunità ebraica sia composita e variegata, fatta
di tradizionalisti, riformisti, unitaristi, e a dimostrare che non
tutti gli ebrei sono tradizionalisti e “bacchettoni”, tanto che
alcuni di loro, in "L’Arpa di Davita", si oppongono alla
decisione di premiare un ragazzo a tutti i costi. Il risultato pratico
però non cambia: Davita non avrà il premio.
Oltre alla semplicità stilistica, tale da immaginare che il libro sia
stato scritto proprio da Davita, la bellezza di questo libro consiste
nel rapporto tra la ragazza e Channah, sua madre. Un rapporto di
grande fiducia, di rispetto, di momenti d’incomprensione e altri,
molti, di comunicazione. Sono due persone simili, ma Channah avverte
il suo ruolo di madre sempre vicina, a volte severa, a volte con una
grande necessità di spazi propri. Davita dal canto suo osserva
Channah in silenzio e ne sente la tristezza e solitudine, quando la
osserva mentre si è addormentata in bagno o mentre nuda si guarda
allo specchio. Tramite il corpo della madre, Davita studia il suo e ne
nota i cambiamenti. Ammira la grandezza di una donna con tanti
passati, di ebrea, di comunista alla fine delusa e, dopo la morte di
Michael, di nuovo di ebrea, ma critica e convinta.
Questa strana complicità e amicizia tra le due donne sarà rafforzata
dalla nascita di Rachel, la figlia di Davita, alla quale Davita
racconta una storia di uccelli, cavalli, spiagge e di un’arpa eolia…
Tre donne, tre ebree, tre generazioni.
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