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Letti per voi/Belgrado, resa dei conti tra "eroi" e "vigliacchi"

Paolo Rumiz

 

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Questo articolo e' apparso su "Il Piccolo" del 28 aprile 1999

Si avvicina per la Serbia il tempo dei lunghi coltelli? Si’, se vale la tradizione: quella che dal regno degli Obrenovic vede chiudersi le egemonie nel sangue e con regolamenti di conti tra fazioni. Se la sfida di Draskovic e’ seria e ha una base popolare, e’ inevitabile che Milosevic e i suoi reagiscano e si arrivi a uno scontro di potere. Talmente inevitabile che, se non accadra’ nulla nei prossimi giorni, vorra’ dire che la rivolta del vicepresidente e’ uno specchietto per le allodole agitato dal Capo supremo per rallentare i bombardamenti. Ma comunque vada a finire, la situazione in Serbia pare vicina a un sisma con epicentro Belgrado, a una resa dei conti tra ‘eroi’ e ‘vigliacchi’, tra le teste calde che vorrebbero portare lo scontro alle conseguenze estreme e coloro che vorrebbero farla finita, chiudere con una guerra folle che ha succhiato le energie migliori della nazione. Erano gli stessi intellettuali serbi a dire, allíinizio del conflitto, che la guerra costruita a Belgrado, a Belgrado si sarebbe conclusa con l’implosione generata da una tremenda onda di ritorno. Quella delle energie negative diffuse in dieci anni di nazionalismo. C’e’ una paura sommersa nella bianca citta’ sul Danubio. Non e’ quella, esplicita, delle bombe dal cielo, che sono comunque poca cosa rispetto ai quattro anni di assedio di Sarajevo. La paura vera e’ dei folli, delle spie e dei delatori. E’ lo spettro dell’odio costruito dalla propaganda per accendere il nervosismo nazionalista. La sindrome del nemico interno aumenta, e’ l’ultima arma che il potere ha per dividere la gente e impedire una rivolta.

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Secondo la Tv di Stato il nuovo ‘untore’ non diffonde la peste, ma indica agli aerei Nato gli obiettivi da colpire. Usa antenne segrete, lancia segnali. Per questo, oggi in Serbia, e’ pericoloso servirsi persino del cellulare. Se scontro sara’, non sara’ piu’ etnico, ma culturale e antropologico: quello tra primitivi e normali. Lo si vide sette anni fa, quando gli studenti belgradesi scesero in piazza contro la guerra. I poliziotti li bastonarono con gioia feroce non solo perche’ erano contro Milosevic, ma soprattutto perche’ erano studenti, dunque colti, e in quanto tali debosciati, borghesi, omosessuali e potenzialmente disertori. Tutta la guerra in Jugoslavia e’ stata, prima che etnica, una guerra contro la borghesia urbana condotta da un apparato burocratico e dalla sua primitiva manovalanza armata. Lo si e’ visto da Vukovar fino a Sarajevo. Oggi il quadro, per cosi’ dire, si semplifica. Consente di arrivare alla radice dello scontro. E di porsi la domanda delle domande: esiste un odio balcanico? Esiste, tra queste genti, una speciale desiderio di autodistruzione? E’ davvero riscontrabile, tra il Danubio e l’Adriatico, una cultura antica della guerra? I soldati italiani nella seconda guerra mondiale videro tra serbi e croati massacri inimmaginabili. La libellistica della Destra italiana, dall’irredentismo a oggi, parla apertamente di ‘Odio degli slavi’. E fra i triestini vige il vecchio detto: lasciate che si ammazzino tra loro. Ma il peggior pregiudizio sugli slavi lo nutrono gli slavi stessi. Ti dicono che e’ vero: in certe aree del Paese si passa all’istante dai brindisi al coltello, dalla festa di paese alla pulizia etnica.

C’e’ un tribalismo primitivo che il comunismo ha ibernato, anzi alimentato, attuando nella burocrazia e nell’apparato militare una selezione negativa della specie. Ma piu’ che ‘balcanica’, e’ una ‘maledizione dinarica’: quella dei popoli lunatici, predatori e dal sangue bollente, annidati sui monti che fanno da colonna vertebrale all’ex Federativa, quelli che da Nordovest a Sudest precipitano sull’Adriatico assumendo via via il nome di Erzegovina (croati musulmani e serbi), Montenegro (serbi), Albania-Kosovo ed Epiro (greci). Proprio per il nucleo di verita’ che contiene, lo schema pare in grado di spiegare ogni cosa, di esaurire le crisi balcaniche come autocombustione spontanea e maledizione genetica. Ma cosi’ facendo si rischia di alimentare suggestive visioni demoniache costruite su luoghi comuni unilaterali. Si rischia, soprattutto, di dimenticare che esiste l’altra faccia della Luna, quella di un mondo in larghissima parte pacifico e mansueto, lontano dalla guerra al punto da non sentire il pericolo. A Sarajevo lo si vide con evidenza impressionante. Caddero le bombe per mesi, prima che la gente dicesse: si’, e’ la guerra. Otto anni nei Balcani non hanno mostrato solo la ferocia di una minoranza di primitivi, ma anche la pacifica, quasi passiva arrendevolezza della maggioranza della gente di fronte a una guerra subita come destino assai piu’ che come regalo avvelenato di una elite di potere. Gli italiani dicono: piove governo ladro. Maledicono la politica anche per le catastrofi naturali.

I popoli dei Balcani fanno il contrario: accettano anche la catastrofe politica della guerra come evento naturale. La cosa piu’ impressionante dei campi profughi, albanesi o serbi che siano, e’ la loro passivita’, la loro assenza di rancore. L’altra faccia dei Balcani sono i milioni di serbi che alle ultime elezioni hanno votato contro Milosevic. E’ ‘Radio B 92’ che ha trasmesso fino all’ultimo nonostante il coltello alla gola. E’ la civile Novi Sad dalle tante etnie, dove, in piena guerra, esiste ancora una ‘Zagrebacka ulica’, una via di nome Zagabria, e dove nelle librerie trovi ancora in vendita testi croati. L’altra faccia della Luna e’ una Jugoslavia che ha espresso piu’ disertori di nessun altro Paese al mondo, giovani che hanno affrontato l’esilio di anni pur di non sparare sui loro fratelli. Ricordiamolo: le nostre bombe uccidono anche la loro speranza.

 

 

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