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Che ora è laggiù?



Paola Casella




Che ora è laggiù?, scritto e diretto da Tsai Ming-liang, con Lee Kang-Sheng, Cecilia Yip, Shiang-Chyi Chen, Jean-Pierre Leaud.

E' difficile trovare un altro film in grado di generare così tanti spunti di riflessione sul concetto di tempo, e su così tanti livelli, come Che ora è laggiù. quarto film del regista malese (trapiantato a Taiwan) Tsai Ming-liang, presentato all'ultimo Festival di Cannes. Il primo livello è evidentemente quello testuale: Che ora è laggiù? vede protagonista Hsiao-Kang (Lee Kang-Sheng), un giovane di Taipei, venditore ambulante di orologi taroccati (cioè mercificatore di tempo contraffatto) che hanno la caratteristica di mostrare un doppio fuso orario.

Dopo la morte del padre, Hsiao-Kang vende a una concittadina, Shiang-Chyi (Cecilia Yip), il proprio orologio, anch'esso predisposto per un doppio fuso orario, sfilandoselo letteralmente dal polso. La ragazza è in partenza per Parigi e Hsiao-Kang, che non riesce a levarsela dalla mente, procede a sincronizzare tutti gli orologi di Taipei sul fuso orario della Francia. Parallelamente Shiang-Chyi, che a Parigi si sente come un pesce fuor d'acqua, tiene al polso l'orologio di Hsiao-Kang (presumibilmente sintonizzato sulle ore di Parigi e Taipei) e (forse) cerca di rimettersi in contatto telefonico con lui, nel tentativo di colmare la distanza siderale che separa l'estremo oriente dalla Ville Lumière.

La madre di Hsiao-Kang, Shiang-Chyi (Shiang-Chyi Chen), neovedova inconsolabile, aspetta intanto febbrilmente il ritorno dall'oltretomba del marito, ipotizzando una sua reincarnazione in ogni animale che le compare in casa (dal gigantesco pesce bianco che è il quarto protagonista della storia - o il quinto, se contiamo anche il padre di Hsiao-Kang, che appare all'inizio del film e ricomparirà alla fine - a un malcapitato scarafaggio) preparando per lo spirito del defunto pasti che lui, ovviamente, non consuma. Hsiao-Kang sposta le lancette dell'orologio a muro del modesto appartamento che divide con la madre, sincronizzandole sull'ora di Parigi, e lei si convince che il cambio di orario sia un messaggio del marito, quindi procede a preparare i pasti nel cuor della notte.

Quanto detto finora dovrebbe aver già evidenziato almeno due aspetti di Che ora è laggiù?: l'ossessione del regista per il concetto stesso di tempo (espresso in primis nella sua valenza più concreta, cioè attraverso orologi e convenzioni internazionali come il fuso orario) e il sense o humor (spesso nero) caratteristico della poetica di Tsai Ming-liang in particolare e della nuova cinematografia di Taiwan in generale.

Il concetto di tempo, e delle differenze nella percezione del tempo fra paesi diversi, non si limita alla trama, ma si estende alla struttura stessa del film, che è pensato almeno in parte per incontrare i gusti del pubblico occidentale, ma che non rinuncia ad infliggerci le intreminabili lungaggini del cinema orientale, cioè a costringerci a seguire un ritmo (e un metro concettuale) così distante dal nostro che, durante la visione del film, ci chiederemo ripetutamente non solo "che ora è laggiù?" (ovvero su quale razza di tabella di marcia dilatata funziona la vita a Taiwan e dintorni) ma anche "che ora è quaggiù?" (ovvero: quando finisce questo film?).

Se sono brutale, è perché sento il dovere morale di dire che Che ora è laggiù? è un film di una lentezza esasperante, con inquadrature interminabili catturate da una sola angolazione, e quasi completamente privo di dialogo e di azione. Subito dopo però preciso che non sarebbe né giusto, né utile liquidare il film come "una palla senza fine", come ha fatto una mia vicina di poltrona. Perché, costringendoci a imparare il suo vocabolario "orientale", Che ora è laggiù? procede a darci una lezione di cinema, e di vita, che vale la pena imparare, e che, se glielo permettiamo, continua a lavorarci dentro la testa (e lo stomaco, e il cuore) ben oltre la fine della proiezione.

Anzi, si potrebbe dire che il tempo narrativo del film non sia in realtà quello della proiezione, ma quello che segue l'uscita dal cinema, laddove la non-storia e la non-azione cominciano a dilatarsi, a dipanarsi, come una proliferazione cellulare.

Molti critici hanno osservato che Che ora è laggiù? si rifà al cinema muto, sia per la carenza di dialoghi di cui sopra, che per certi omaggi al surrealismo di Tati e alle vignette senza parole di Buster Keaton e Harold Lloyd (non può sfuggire l'homage a Lloyd che rimane appeso alle lancette di un enorme orologio sulla facciata di un palazzo).

Gli homage al cinema occidentale proseguono con una reiterata dichiarazione d'amore di Tsai Ming-liang a Truffaut (certe inquadrature di Parigi, le citazioni dai Quattrocento colpi, il cammeo di Jean-Pierre Leaud, che dei Quattrocento colpi era il protagonista, in una scena spassosa che riassume la poetica dell'assurdo di Tsai Ming-liang) e con abbondanti riferimenti ad Antonioni (le inquadrature a scatola cinese come "contenitori di smarrimento e desiderio", i personaggi che strisciano lungo i muri, con una lentezza che sfiora la catatonia - come già in In the Mood for Love del cinese Wong Kar-Wai) e a Bresson (cui lo stesso Tsai Ming-liang dichira di essersi ispirato, soprattutto per i suoi personaggi "di poche parole e dalle fattezze severe").

Ma sono i tempi narrativi di Che ora è laggiù, e soprattutto quelli comici, a evidenziare la profonda diversità fra la mentalità occidentale e quella orientale, ed è proprio questa diversità profonda che il film si sforza di raccontare a chi vive a Ovest di Taipei (ricordiamo che Tsai Ming-liang - vincitore nel '94 del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia con Vive l'amour) è un beniamino della critica occidentale e che Che ora è laggiù vanta una produzione e un direttore della fotografia - il bravissimo Benoit Delhomme, già autore dell'immagine di Il profumo della papaya verde- francesi).

L'unica coordinata temporale importante di Che ora è laggiù? è in realtà quella interna ai personaggi: è il tempo della loro solitudine, che non conosce tregua, e dunque non conosce termine nel tempo. E' sintomatico infatti che l'unica scena in cui le vicende dei tre protagonisti umani (tolto il pesce e il fantasma del padre) sono sincronizzate (al punto che cinematograficamente appaiono inframmezzate a formare una sequenza sola - e il gioco di parole è intenzionale) è quella in cui le tre solitudini trovano temporaneo (e contemporaneo) sfogo (ma non sollievo) in un sesso solipsistico che rimarca e sottolinea l'incapacità di ciascuno dei tre individui a stabilire rapporti di scambio.

I protagonisti di Che ora è laggiù? sono tutti esiliati, tutti su un fuso orario diverso dagli altri, indipendentemente da quale latitudine abitino: non c'è distanza spaziotemporale (perché emotiva) maggiore di quella fra la vedova inconsolabile e suo figlio, che dividono lo stesso appartamento senza in realtà mai incontrarsi, come navi che attraversano la notte (tantopiù che proprio durante la notte, visto che funzionano su fuso francese, consumano il loro unico momento di coabitazione, cioè quello del pasto).

Ed è struggente e insieme tragicomica la loro desolazione: tanto intensa è la loro pena, quanto spassoso è il loro sfasamento temporale. Ciò che a noi spettatori appare estenuante - principalmente la lentezza e il trascinarsi della non-trama - è precisamente ciò che consuma e divora (come lo scarafaggio ingurgitato dal pesce bianco, muto e goffo come i personaggi del film) queste tre anime in pena, così scollate persino da se stesse da non saper tradurre la loro sofferenza in altro che umori biologici: pipì, vomito, liquido seminale.

Così come orientale è una struttura narrativa di un film che tradisce sistematicamente tutte le aspettative alle quali ci ha abituato (addestrato, direi) il cinema occidentale, e quello anglosassone in particolare. Pensiamo ad esempio al concetto americano di setup e payoff: in un film hollywoodiano, ad ogni premessa (soprattutto comica) deve necessariamente corrispondere una "chiusa", a ogni meccanismo narrativo innescato a monte deve corrispondere un riscontro conclusivo a valle.

Che è come dire che la maggior parte delle nostre azioni, e degli eventi della vita, sono non sequitur, e non acquistano mai un senso compiuto. Il concetto di nonsense diventa allora tanto una riflessione drammatica sull'assenza di senso della nostra esistenza quanto una riflessione comica sulla demenzialità insita nel nostro stesso cercare di dare senso a ciò che non ne ha.

Qui non si tratta solo di sovvertire regole filmiche (del resto il concetto di corrispondenza fra una premessa e la sua conclusione fa parte anche del cinema orientale, soprattutto quello con una forte matrice spirituale) ma di creare un universo senza regole, dandoci una lezione di umiltà che si esprime più o meno così: perché mai una storia dovrebbe avere sempre e comunque un senso? Perché noi spettatori dovremmo sempre e comunque capire dove va a parare una scena, una caratterizzazione, una storia? E soprattutto: perché mai dovremmo pensare che quella scena, quell'arco narrativo, quella costruzione del personaggio debbano necessariamente risolversi nel contesto spaziotemporale di un film?

I link:

La scheda di Internet movie database (il titolo originale e' "Ni neibian jidian")

Sito ufficiale del film (in inglese)
Trailer, foto, rassegna stampa e note di regia: Tsai Min-Liang racconta il suo rapporto con gli attori (e il suo primo incontro con Jean Pierre Leaud)

La recensione di "Salon" (inglese)

Scheda del film da kataweb (in italiano)

 

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