Questo articolo
e' stato pubblicato su "la Repubblica"
del 26 aprile
Norberto Bobbio ha pronunciato ieri, in un'intervista all'Unità, la
parola indicibile, ricorrendo al termine "guerra santa o crociata" per definire
quella che la Nato sta conducendo contro la Serbia e che fu inizialmente giustificata come
"ingerenza umanitaria". Ho l'impressione che Bobbio adotti quel termine con una
sorta di tremore nella voce e nell'intelligenza. Le guerre sante, le crociate, hanno fatto
versare nel passato tanto sangue, come ebbe a dire uno
storico famoso, da far girare per secoli tutti i mulini d'Europa. La
"guerra santa" non conosce regole né pietà, prevede l'annientamento del
nemico, non salva né prigionieri né bambini. È la guerra assoluta, del bene contro il
male, dei credenti contro gli eretici, che non consente interrogativi, dubbi o incertezze.
NESSUNO di noi può augurarsi o pensare che ci sia qualcosa del genere
nel nostro futuro. Mi chiedo quindi se, adottando non a caso questo termine, il filosofo
torinese non abbia tentato di metterci in guardia dal pericolo, invitandoci a rimettere a
fuoco, con maggiore lucidità di pensiero, gli obiettivi, gli scopi, gli strumenti della
guerra nel suo inevitabile farsi sempre più spietata, guerra totale.
Il bombardamento della Televisione di Belgrado con il suo seguito di
morti, non ancora tutti estratti dalle macerie, a me sembra già il segno di questa
escalation. Non perché, come qualcuno ha detto polemicamente, la vita dei giornalisti o
degli operatori sia più importante di quella dei profughi in fuga (in quel caso si
trattò da parte della Nato di un "tragico errore" subito riconosciuto), ma
perché con quel bombardamento non si volevano solo impedire le trasmissioni di propaganda
del regime di Milosevic, quanto piuttosto mandare a tutta la popolazione un messaggio da
"guerra santa": da oggi in poi il nostro obiettivo non sono più ponti, strade,
officine, infrastrutture produttive e militari, ma anche voi, ognuno di voi.

È possibile che questa minaccia acceleri la crisi del regime.
Bisognerebbe per questo saperne di più non solo sui rapporti tra Milosevic e gli alti
gradi dell'esercito, ma anche sulle forze democratiche di opposizione che solo pochi anni
fa sembravano molto attive e vivaci e vennero poi ridotte al silenzio anche in virtù
della indifferenza e della mancata solidarietà dell'Occidente. Soltanto ieri, finalmente,
un gruppo di intellettuali e uomini di cultura di Belgrado è riuscito a far sentire la
sua voce, chiedendo insieme la sospensione dei bombardamenti e il ritorno dei profughi nel
Kosovo. È una prima crepa visibile nel compatto, torvo consenso che Milosevic è riuscito
a creare intorno alla sua politica, di cui sarebbe sbagliato non tener conto. La Serbia
sembra, oggi, un paese malato, intossicato dall'esasperato nazionalismo sul quale
Milosevic ha costruito un potere che, paradossalmente, è andato rafforzandosi, nel corso
degli ultimi nove anni, attraverso una serie di aggressioni e guerre dalle quali pure il
dittatore è uscito sconfitto, nonostante l'inaudita ferocia delle sue bande che, dopo
aver ucciso torturato violentato stuprato, dopo aver messo a ferro e fuoco Vukovar,
bombardato Dubrovnik e raso al suolo Sebreniza, sono oggi all'opera nel Kosovo. Un
nazionalismo che sembra nutrirsi, anche a livello popolare, del rancore per le sconfitte e
di volontà di rivincita.
Durante la Seconda Guerra Mondiale vivevo a Genova, città
particolarmente presa di mira dagli aerei alleati, e dunque ho passato tutta la mia
adolescenza sotto i bombardamenti, tra l'urlo delle sirene e la corsa nei rifugi. Grazie a
quei bombardamenti e alla sconfitta del fascismo e del nazismo ho goduto, come tutti in
Europa, di una lunghissima pace e di un crescente benessere. Ma ricordo ancora
l'entusiasmo con cui la maggioranza degli italiani salutarono la nostra entrata in guerra
nel 1940, sicuri di vincerla in pochi mesi se non in poche settimane. Abbiamo conosciuto
anche noi italiani, pur se in misura meno grave di altri, i meccanismi perversi che
presiedono alla ubriacatura nazionalistica, le deformazioni della ragione che provoca e,
infine, la lentezza dei processi che ne consentono il superamento.
Le trasmissioni di Radio Londra ebbero grande parte nel promuovere
questi processi di distacco dal regime, anche perché non adottarono mai toni da guerra
santa, distinguendo sempre (forse al di là di quanto pensavano davvero gli ambienti
ufficiali inglesi) le responsabilità di Mussolini e del suo regime da quelle degli
italiani. C'era in questa scelta una buona dose di intento propagandistico, ma la buona
propaganda è comunque sempre necessaria per vincere una guerra. E, soprattutto, per
preparare il dopoguerra.
Ora, entrando nel secondo mese del conflitto e mentre si prepara,
contro la Serbia, un blocco totale dei rifornimenti energetici, è giusto chiederci se la
Nato pensa, alla fine, di trattare con lo stesso Milosevic o con i suoi eventuali
successori. La prima soluzione, pensabile se, come qualcuno aveva immaginato, Milosevic
avesse acceduto alla trattativa dopo i primi bombardamenti, sembra improponibile dopo le
più recenti dichiarazioni di Clinton e Blair, con le quali si propone di portarlo, come
criminale di guerra, di fronte al Tribunale dell'Aja. Resta allora la seconda ipotesi,
quella di lavorare nella prospettiva di un suo rovesciamento e cambiamento di leadership a
Belgrado.
Una prospettiva non facile, ma che rischia di diventare impossibile se
i serbi si convinceranno che contro di loro si sta conducendo, da parte della Nato, una
"crociata, o guerra santa".