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Quando la guerra è un'arma spuntata

Umberto Eco

 

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Questo articolo e' apparso su "La Repubblica"  del 27 aprile 1999.

Nel dicembre del 1993 si è svolto alla Sorbona, sotto l'egida della Academie Universelle des Cultures, un congresso sul concetto di intervento internazionale. C'erano non solo giuristi, politologi, militari, politici, ma anche filosofi e storici come Paul Ricoeur o Jacques Le Goff, medici senza frontiere come Bernard Koutchner, rappresentanti di minoranze un tempo perseguitate come Elie Wiesel, Ariel Dorfmann, Toni Morrison, vittime della repressione di vari dittatori, come Leszek Kolakowski o Bronislaw Geremek o Jorge Semprun, insomma molta gente a cui la guerra non piace, non è mai piaciuta e non vorrebbero vederne più. Si aveva paura a usare parole come "intervento", che sapeva troppo di ingerenza (anche Sagunto è stato un intervento, e ha permesso ai romani di fare fuori i cartaginesi), e si preferiva parlare di soccorso e di "azione internazionale". Pura ipocrisia? No, i romani che intervengono a favore di Sagunto sono romani, e basta.

In quel convegno invece si stava parlando di comunità internazionale, di un gruppo di paesi che ritengono che la situazione, in un punto qualsiasi del globo, abbia raggiunto l'intollerabile, e decidono di intervenire per porre fine a quello che la coscienza comune definisce un delitto. Ma quali paesi fanno parte della comunità internazionale, e quali sono i limiti della coscienza comune? Si può certo sostenere che per ogni civiltà uccidere sia un male, ma solo entro certi limiti. Noi europei e cristiani ammettiamo per esempio l'omicidio per legittima difesa, ma gli antichi abitanti del Centro e Sud America ammettevano il sacrificio umano rituale, e gli attuali abitanti degli Stati Uniti ammettono la pena di morte.

Una delle conclusioni di quel tormentatissimo convegno era stata che, come avviene in chirurgia, intervenire significa agire energicamente per interrompere o eliminare un male. La chirurgia vuole il bene, ma i suoi metodi sono violenti. È consentita una chirurgia internazionale? Tutta la filosofia politica moderna ci dice che, per evitare la guerra di tutti contro tutti, lo Stato deve esercitare una certa violenza sugli individui. Ma quegli individui hanno sottoscritto un contratto sociale.

Che cosa avviene tra stati che non hanno sottoscritto un contratto comune? Di solito una comunità, che si ritiene depositaria di valori molto diffusi (diciamo i paesi democratici) stabilisce i limiti di ciò che essa giudica intollerabile. Non è tollerabile condannare a morte per reati d' opinione. Non è tollerabile il genocidio. Non è tollerabile l'infibulazione (almeno, se praticata a casa nostra). Pertanto si decide di difendere coloro che sono danneggiati ai limiti dell'intollerabile.

Ma sia chiaro che quell'intollerabile è intollerabile per noi, non per "loro".Chi siamo noi? I cristiani? Non necessariamente, cristiani rispettabilissimi, anche se non cattolici, appoggiano Milosevic. Il bello è che questo "noi"(anche se è definito da un trattato, come quello nord-atlantico) è un Noi impreciso. È una Comunità che si riconosce su alcuni valori. Dunque quando si decide di intervenire in base ai valori di una Comunità, si fa una scommessa: che i nostri valori, e il nostro senso dei limiti tra tollerabile e intollerabile, siano giusti. Si tratta di una sorta di scommessa storica non diversa da quella che legittima le rivoluzioni, o i tirannicidi: chi mi dice che io abbia diritto di esercitare la violenza (e che violenza, talora) per ristabilire quella che ritengo una giustizia violata? Non c'è nulla che legittimi una rivoluzione, per chi l'avversa: semplicemente chi vi si impegna crede, scommette, che ciò che fa sia giusto. Non diversamente accade per la decisione di un intervento internazionale. È questa situazione quella che spiega l'angoscia che afferra tutti in questi giorni. C'è un male terribile a cui opporsi (la pulizia etnica): è l'intervento bellico lecito o no? Si deve fare una guerra per impedire una ingiustizia? Secondo giustizia sì. E secondo carità? Ancora una volta si ripropone il problema della scommessa: se con una violenza minima avrò impedito una ingiustizia enorme, avrò agito secondo carità, come fa il poliziotto che spara al pazzo assassino per salvare la vita a molti innocenti.

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Ma la scommessa è duplice. Da un lato si scommette che noi siamo in accordo col senso comune, che quello che vogliamo reprimere è qualche cosa di universalmente intollerabile (e peggio per chi non lo capisce e ammette ancora). Dall'altro si scommette che la violenza che giustifichiamo riuscirà a prevenire violenze maggiori. Sono due problemi assolutamente diversi. Ora provo a dare per scontato il primo, che scontato non è, ma vorrei ricordare a tutti che questo non è un trattato di etica, bensì un articolo di giornale, sordidamente ricattato da esigenze di spazio e di comprensibilità. In altre parole, il primo problema è così grave, e angoscioso, che non può, anzi non deve essere trattato sulle gazzette. Diciamo allora che è giusto, per impedire un delitto come la pulizia etnica (foriero di altri delitti e di altre atrocità che il nostro secolo ha conosciuto), ricorrere alla violenza.

Ma la seconda domanda è se la forma di violenza che esercitiamo possa davvero prevenire violenze maggiori. Qui non siamo più di fronte a un problema etico bensì a un problema tecnico, il quale ha tuttavia un risvolto etico: se l'ingiustizia a cui mi piego non prevenisse l'ingiustizia maggiore, sarebbe stato lecito usarla? Questo equivale a fare un discorso sulla utilità della guerra, nel senso di guerra guerreggiata, di guerra tradizionale, che ha per fine l'annientamento finale del nemico e la vittoria del vincitore. Il discorso sulla inutilità della guerra è difficile perché pare che chi lo fa parli in favore dell'ingiustizia che la guerra cerca di sanare. Ma questo è un ricatto psicologico. Se qualcuno per esempio dicesse che tutti i guai della Serbia derivano dalla dittatura di Milosevic, e che se i servizi segreti occidentali riuscissero a uccidere Milosevic tutto si risolverebbe in un giorno, questo qualcuno criticherebbe la guerra come strumento utile per risolvere il problema del Kosovo, ma non sarebbe pro-Milosevic. D'accordo? Perché nessuno adotta questa posizione? Per due ragioni. Una, che i servizi segreti di tutto il mondo sono per definizione inefficienti, non sono stati capaci di fare ammazzare né Castro né Saddam ed è vergognoso che si consideri ancora giusto sperperare per essi pubblico denaro. L'altro è che non è affatto vero che quello che fanno i serbi sia dovuto alla follia di un dittatore, ma dipende da odi etnici millenari, che coinvolgono e loro e altre etnie balcaniche, il che rende il problema ancora più drammatico.

Torniamo allora al discorso sulla utilità della guerra. Qual è stato nel corso dei secoli il fine di quella che chiameremo paleo- guerra? Sconfiggere l'avversario in modo da trarre un beneficio dalla sua perdita. Questo imponeva tre condizioni: che al nemico dovessero essere tenute segrete le nostre forze e le nostre intenzioni, in modo da poterlo prendere di sorpresa; che ci fosse una forte solidarietà nel fronte interno; che infine tutte le forze a disposizione fossero utilizzate per distruggere il nemico. Per questo nella paleo-guerra (compresa la guerra fredda) si stroncavano coloro che dall'interno del fronte amico trasmettevano informazioni al fronte nemico (fucilazione di Mata Hari, i Rosenberg sulla sedia elettrica), si impediva la propaganda del fronte avverso (si metteva in prigione chi ascoltava Radio Londra, McCarthy condannava i filocomunisti di Hollywood), e si punivano coloro che, dall'interno del fronte nemico, lavoravano contro il proprio paese (impiccagione di John Amery, segregazione a vita di Ezra Pound) perché non si doveva fiaccare lo spirito dei cittadini. E infine si insegnava a tutti che il nemico andava ucciso, e i bollettini di guerra esultavano quando le forze nemiche venivano sterminate.

Queste condizioni sono entrate in crisi con la prima neo-guerra, quella del Golfo, ma si attribuiva ancora la smagliatura alla stupidità dei popoli di colore, che ammettevano i giornalisti americani a Bagdad, forse per vanità, o per corruzione. Ora non ci sono più equivoci, l'Italia invia aerei in Serbia ma mantiene relazioni diplomatiche con la Jugoslavia, le televisioni della Nato comunicano ora per ora ai serbi quali aerei Nato stanno lasciando Aviano, agenti serbi sostengono le ragioni del governo avversario dagli schermi della televisione di stato, giornalisti italiani trasmettono da Belgrado con l'appoggio delle autorità locali. Ma è guerra questa, col nemico in casa che fa propaganda per i suoi? Nella neo-guerra ciascun belligerante ha il nemico nelle retrovie e, dando continuamente la parola all'avversario, i media demoralizzano i cittadini (mentre Clausewitz ricordava che condizione della vittoria è la coesione morale di tutti i combattenti).

D'altra parte, quand'anche i media fossero imbavagliati, le nuove tecnologie della comunicazione permettono flussi d'informazione inarrestabili - e non so quanto Milosevic possa bloccare non dico Internet ma le trasmissioni radio da paesi nemici.

Tutte le cose che ho detto sembrano contraddire il bell'articolo di Furio Colombo su Repubblica del 19 aprile scorso, dove si sostiene che il Villaggio Globale di McLuhaniana memoria sarebbe morto il 13 aprile 1999, quando in un mondo di media, cellulari, satelliti, spie spaziali e così via, si dovette dipendere dal telefonino da campo di un funzionario di agenzia internazionale, incapace di chiarire se davvero fosse avvenuta una infiltrazione serba in territorio albanese. "Noi non sappiamo nulla dei serbi. I serbi non sanno nulla di noi. Gli albanesi non riescono a vedere sopra il mare di teste che li sta invadendo. La Macedonia scambia i profughi per nemici e li massacra di botte". Ma allora, questa è una guerra dove ciascuno sa tutto degli altri o dove nessuno sa niente? Tutte e due le cose.

Il fronte interno è trasparente, mentre la frontiera è opaca. Gli agenti di Milosevic parlano nelle trasmissioni di Gad Lerner, mentre sul fronte, là dove i generali di un tempo esploravano col binocolo, e sapevano benissimo dove si appostava il nemico, oggi non si sa niente. Questo accade perché, se il fine della paleo- guerra era distruggere quanti più nemici fosse possibile, pare tipico della neo-guerra cercare di ucciderne il meno possibile, perché a ucciderne troppi si incorrerebbe nella riprovazione dei media. Nella neo-guerra non si è ansiosi di distruggere il nemico, perché i media ci rendono vulnerabili di fronte alla sua morte - non più evento lontano e impreciso, ma evidenza visiva insostenibile. Nella neo-guerra ogni armata si muove all'insegna del vittimismo. Milosevic accusa orribili perdite (Mussolini se ne sarebbe vergognato), e basta che un aviatore della Nato caschi a terra che tutti si commuovono. Insomma, nella neo- guerra perde, di fronte all'opinione pubblica, chi ha ammazzato troppo. E dunque è giusto che alla frontiera nessuno si affronti e nessuno sappia niente dell'altro.

In fondo la neo- guerra è all'insegna della "bomba intelligente", che dovrebbe distruggere il nemico senza ammazzarlo, e si capiscono i nostri ministri che dicono: noi, scontri col nemico? ma niente affatto! Che poi un sacco di gente muoia lo stesso è tecnicamente irrilevante. Anzi, il difetto della neo- guerra è che muore della gente, ma non si vince.

Ma possibile che nessuno sappia condurre una neo-guerra? Nessuno, è naturale. L'equilibrio del terrore aveva preparato gli strateghi a una guerra atomica ma non a una terza guerra mondiale, dove si dovessero spezzare le reni alla Serbia. É come se i migliori laureati del Politecnico fossero stati tenuti per cinquant'anni a fare videogiochi. Vi fidereste a lasciargli fare ora un ponte? Ma infine, l' ultima beffa della neo-guerra non è che non ci sia nessuno oggi in servizio che sia vecchio abbastanza da avere imparato a fare una guerra - e non ci potrebbe essere in ogni caso, perché la neo-guerra è un gioco dove per definizione si perde sempre, anche perché la tecnologia che viene usata è più complessa del cervello di coloro che la manovrano e un semplice computer, benché fondamentalmente idiota, può giocare più scherzi di quanti ne immagini colui che lo manovra.. Bisogna intervenire contro il delitto del nazionalismo serbo, ma forse la guerra è un' arma spuntata. Forse l'unica speranza è nell'avidità umana. Se la vecchia guerra ingrassava i mercanti di cannoni, e questo guadagno faceva passare in secondo piano l'arresto provvisorio di alcuni scambi commerciali, la neo-guerra, se pure permette di smerciare un surplus di armamenti prima che diventino obsoleti, mette in crisi i trasporti aerei, il turismo, gli stessi media (che perdono pubblicità commerciale) e in genere tutta l'industria del superfluo. Se l'industria degli armamenti ha bisogno di tensione, quella del superfluo ha bisogno di pace. Prima o poi qualcuno più potente di Clinton e di Milosevic dirà basta, e tutti e due ci staranno a perdere un poco di faccia, pur di salvare il resto. È triste, ma almeno è vero.

 

 

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