Malinconia e creatività
Francesco Roat
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Eugenio Borgna, Malinconia, Feltrinelli, pp.200, L.14.000
“Ai confini del silenzio, alitando fievolmente, la malinconia
mormora: “Tutto è vuoto! Tutto è vano!” Il mondo è inanimato,
tramortito, aspirato dal nulla. Ciò che si possedeva è andato
perduto. Ciò che si sperava non è avvenuto”. Così Jean
Starobinski tratteggia la dimensione sterile d’assoluta vacuità in
cui è immerso chi si senta trascinato nella parabola agonica della
malinconia o, in termini più moderni, della depressione.
In questo stato patologico il vissuto alienate della perdita non è
tanto dato dal venir meno di una persona cara o di interessi,
motivazioni, aspettative riferite a un qualche oggetto
specifico, bensì dall’instaurarsi di uno smarrimento angoscioso
conseguente ad un più vasto e generalizzato senso di perdita e lutto,
relativo all’incapacità di poter vivere.
Come acutamente ha evidenziato von Gebsattel, negli stati melanconici
l’esistenza intera pare svuotarsi e farsi esangue. Iniziativa e
spontaneità agonizzano, mentre aumentano ansia, debolezza e
disperazione, cosicché la vita, lungi dal riuscire a proiettarsi, ad
evolversi nel futuro seguendo questo o quel progetto, si arresta e
ritrae in un maldestro tentativo involutivo di difesa rivolgendosi con
lacrimosa nostalgia al passato in uno stallo nihilistico. Per questo,
secondo Starobinski, metafora della malinconia è la vedovanza.
Ad onta di tutto ciò, da sempre si è sottolineato il legame fra la
malinconia - quantomeno come stato d’animo, Stimmung - e la
creatività, l’esperienza artistica, il genio. Aristotele fu tra i
primi a chiedersi per quale motivo spesso celeberrimi poeti, filosofi,
tra cui Socrate e Platone, soffrissero di un temperamento malinconico.
E cercò di rispondere al suo interrogativo affermando che, se la loro
costituzione è in grado di riuscire a raggiungere un equilibrio
ottimale, essi possono divenire “uomini eccezionali”.
Ma allora non già la malattia, la depressione, favorirebbe la
vocazione creativa, bensì piuttosto la sofferenza che da essa deriva.
Una sofferenza che, in questa prospettiva, come sottolinea Eugenio
Borgna in Malinconia (Feltrinelli), “dilata vertiginosamente
le profondità degli abissi che si aprono nella conoscenza della
propria soggettività e della propria esistenza”. Dunque anche solo
scegliendo di dar voce a quel che altrimenti imploderebbe in afono
grido di dolore, il deserto in cui languisce il malinconico può
essere vivificato dalla speranza e il vuoto trasformarsi in
virtualità, in promessa di pienezza.
Tuttavia, avverte Borgna, attenzione a non confondere la depressione
neurotica o reattiva (innescata dal lutto di una perdita
significativa) con quella psicotica: immotivata ed endogena, poiché
frutto di una grave malattia psichica (la cosiddetta depressione uni o
bipolare); infine con la malinconia come Stimmung, la quale,
essendo radicata nella condizione umana causa la consapevolezza della
nostra precarietà e finitudine, ha ben poco a che fare con la
psicopatologia.
Infatti, al di là dei sintomi, - peraltro difficili da decifrare -
che talvolta accomunano questi tre ben distinti ambiti esperienziali
malinconici, nell’abisso luttuoso senza fondo e senza speranza della
tristezza clinica assistiamo, rileva lo psichiatra, allo svuotamento
“del mondo e dell’io che sembrano smarrire ogni consistenza e ogni
risonanza”. E’ la desertificazione affettiva e relazionale, in cui
il depresso si chiude nel vano esorcismo della propria sofferenza
estrema, rendendo oltremodo difficile il dialogo terapeutico.
Eppure, osserva Borgna prendendo le distanze dal trionfalismo
farmacoterapico, mai necessita di colloquio e ascolto come chi sia
immerso nella psicosi, quando ogni apertura discorsiva sembra
impossibile e ogni parola (ragione) pare non riuscire minimamente a
scalfire l’algida parete difensiva eretta dalla desolazione
malinconica; quando l’altro-da-noi (e vi è alterità maggiore di
quell’enigma che è lo psicotico?) è estraneo e assente dentro.
Proprio allora, tuttavia, urge la necessità di instaurare una
relazione terapeutica che, prima di tutto, è empatia e ascolto, che -
nel caso estremo del silenzio e del rifiuto espressi dal malinconico -
può essere il muto soccorso di una presenza umana partecipe.
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