Tra memoria e mancanza
Paola Casella
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All'ultimo Festival del cinema di Cannes uno dei temi principali è
stato il lutto, e in particolare il lutto familiare: non solo La
stanza del figlio di Nanni Moretti ma anche il film catalano Pau
i el suo germà (Pau e suo fratello) di Marc Recha e il giapponese
Distance di Kore Eda Hirokazu. Anche Il mestiere delle armi di
Ermanno Olmi vedeva protagonista la morte, anche se in modo diverso:
cioè riflessa non sui volti di chi resta, ma nello sguardo stupito di
Giovanni dalle Bande Nere, ferito da un colpo letale a ventisette
anni, e incredulo della sua fine tanto incalzante quanto prematura.
"Non si sa da dove venga questo interesse per la morte", ha
commentato Olmi a una giornalista del Corriere della sera.
"Ma la riflessione che mi viene di fare è che la morte, suprema
giustizia che colpisce tutti allo stesso modo, è l'unica
interlocutrice capace di farci comprendere quanto la nostra vita sia
importante e di costringerci a fare una gerarchia dei valori. Nella
vita ci vuole più serietà e la morte ce la impone."
"Entriamo ad occhi aperti nella morte", scriveva Marguerite
Yourcenar ne Le memorie di Adriano. E invece il cinema di
questi ultimi anni, pur parlandone spesso, sembra mantenere un
atteggiamento kubrickiano nei confronti della morte: ci entra eyes
wide shut, cioè con gli occhi spalancati ma ben chiusi.

Innanzitutto, la morte al cinema non si nomina più, come se la
parola stessa fosse diventata impronunciabile. Né tantomeno la si
raffigura esplicitamente: sia ne La stanza del figlio che in Pau
e suo fratello c'è una scena nella quale la bara dello scomparso
viene inchiodata, con tanto di cadavere visibile. Ma è già un
"dopo", perché la morte stessa è già avvenuta fuori
scena, che equivale in un certo senso a dire che non è avvenuta
affatto -non per lo spettatore, che conosce solo ciò che vede.

A Moretti e Recha interessano più le conseguenze che la morte ha sui
vivi. Il che, quanto a conoscenza della morte, è come desumere
un'immagine da un negativo fotografico. Anche perché soprattutto in
Moretti il lutto non viene veramente elaborato, come succedeva ad
esempio in Film Blu di Kieslowski o in Casi e coincidenze di
Lelouch: laddove Kieslowski e Lelouch concentravano la loro (e nostra)
attenzione sul processo di distacco e di accettazione, Moretti mette
l'accento sull'impossibilità di operare quel distacco - come artista,
ma anche come uomo - e di accettare quel dolore, che rimane di fatto
un corpo estraneo.

L'impossibilità di accettare la scomparsa di una persona cara compare
anche in Sotto la sabbia del francese François Ozon,
interpretato da Charlotte Rampling. La trama è molto simile a quella
di un film passato quasi in sordina parecchi anni fa, Julia e Julia,
di Peter Del Monte. In entrambi i film la scomparsa di un marito
suscitava nella vedova una reazione di profondo diniego, determinata
dalla solitudine e dal senso di colpa di essere sopravvissuta alla
propria metà.
Ma mentre in Julia e Julia la morte del coniuge era un dato
reale, che ci veniva mostrato oggettivamente nella scena iniziale, in Sotto
la sabbia la protagonista (e noi con lei) non ha mai la certezza
che il marito sia veramente morto, e persino la scena della scomparsa
avviene fuori schermo, mentre noi siamo intenti a guardare la schiena
dell'attrice esposta al sole.
E' la trama stessa, dunque, a negare, o quantomeno a mettere in forse,
la realtà della morte. E la protagonista, nella sua accurata
operazione di diniego, non fa che alimentare il nostro dubbio: che
abbia ragione lei? Che il marito non sia veramente perduto per sempre?
Non a caso la scena finale di Sotto la sabbia è diametralmente
opposta a quella di Julia e Julia. Se nel film di Del Monte
infatti l'ultima inquadratura ci rivela senza ombra di dubbio che il
fantasma del marito, che la protagonista (e noi con lei) ha creduto di
avere accanto per tutta la durata della storia è effettivamente un
fantasma, una proiezione della sua conclamata follia, nella sequenza
finale di Sotto la sabbia anche noi continuiamo a vedere il
marito scomparso, anche noi condividiamo la realtà (o la totale
rimozione dal reale) della Rampling.
Da tempo, ormai, la morte non è più considerata un fact of life,
cioè un elemento del ciclo vitale, così come succede alla vecchiaia,
proprio in quanto anticamera della morte. Sono cose da nascondere,
anzi, da rimuovere. Sarà un caso che la malattia di fine
secolo, quella maggiormente legata alla longevità della vita e alla
fase senile della crescita umana, sia l'Alzheimer?

Diverso l'approccio di Olmi alla morte nel Mestiere delle armi,
del resto comprensibile conoscendo la matrice cattolica del regista.
Olmi ci mostra la morte in modo diretto, anzi, "in diretta"
(coi suoi tempi narrativi come sempre lunghissimi), ma ce la raffigura
come una rappresentazione sacra, da quadro d'autore. Così Giovanni
dalle Bande Nere diventa il Cristo del Mantegna, così umano nella sua
fisicità, così terreno nella sua prospettiva "podalica",
eppure così trascendente nella sacralità del suo martirio.
Olmi impone a Giovanni (e a noi) il confronto umiliante con la propria
dissoluzione del quale parlava alla giornalista del Corriere,
ci riconduce alla nostra dimensione di polvere destinata alla polvere:
alla nostra mortalità, appunto - termine che incorpora il
nostro status di morituri come caratteristica imprescindibile
della vita. Ma anche lui trasforma la morte in "altro": non
un passaggio terreno, ma un'anticamera verso un'aldilà più alto,
meno gretto e greve.
Della morte come fase biologica, della sua necessità come tappa del
processo umano di crescita, non parla invece più nessuno. O meglio:
ne ha parlato di recente in via indiretta (al negativo, come La
stanza del figlio) un film, che ha costruito la sua sceneggiatura
proprio sulla volontà contemporanea di rimuovere la morte, di non
elaborare il lutto. Si tratta di Memento, film imperfetto ma
quasi medianico nel captare il senso profondo (o l'assenza di senso)
nel rifiuto di affrontare la morte.
In Memento, che già dal titolo pone l'accento non sul lutto,
ma sulla memoria, il protagonista è incapace di ricordare il suo
passato, soprattutto quello immediatamente precedente all'azione,
perché a cancellare le proprie tracce si comincia dall'ultima, e se
si interrompe la sequenza dei ricordi, non si può più ripercorrere
il proprio tracciato a ritroso - Pollicino non può più ritrovare la
strada di casa.
L'evento primario rimosso in Memento, come scopriremo, è una
morte. E l'aver rimosso quella morte impedisce al protagonista di
proiettarsi in avanti, di costruire un percorso futuro basato
sull'acquisizione degli errori (o delle mancanze) del proprio passato.
In sintesi, gli impedisce di crescere.
Che pensare allora di una cultura, quella contemporanea occidentale,
che rimuove la morte? Che non osa nominarla, né rappresentarla, né
venire a patti con la sua esistenza - di qui i cimiteri sovraccarichi,
di qui il rifiuto di porsi serenamente il discorso dell'eutanasia
(vedi articoli collegati)? Di una società che non ha più riti
funebri, o anche solo riti di passaggio, che sta cancellando - come
l'uccellino che beccava una ad una le briciole di Pollicino - ogni
traccia di accettazione delle grandi tappe della vita?
Tanto più che non basta negare la morte per eliminarne l'esistenza,
non basta non parlarne per illudersi che non ci aspetti al varco.
Così ognuno di noi tiene dentro i suoi lutti e la sua paura
ancestrale, dimenticando che sono quelli di tutti, del genere umano, e
li trasformiamo in dolore privato, silenzioso e senza sbocco. In
depressione, in malinconia esistenziale (vedi articoli collegati), in
solitudine. Così la morte tinge rigorosamente di nero (vedi articoli
collegati) la vita, contaminandone ogni aspetto, per contagio,
letteralmente, letale.
link:
Ipertesto
di "expanded cinemah" su La stanza del figlio
Molti spunti di discussione sul film di Moretti
Bello
e approfondito anche quello dedicato a Il mestiere delle armi
di Olmi
Sotto la sabbia,
da "35 mm.it"
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