Il diritto di morire bene
Ada Pagliarulo e Paolo Martini
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Si usa l'espressione "diritto di morire bene", ma non tutti
amano l'accostamento tra il diritto e la morte. "Diritto è
burocrazia, procedura, forma. E' illusorio pensare di ottenere
attraverso il diritto delle tecniche con un carattere puramente
umano", dice ad esempio Francesco D'Agostino, docente di
filosofia del diritto ma soprattutto presidente del Comitato Nazionale
per la bioetica.
D'Agostino - insieme a Stefano Rodotà, al Valdese Sergio Rostagno,
all'islamista Francesco Castro, al professor Giuseppe Cassano della
Luiss e a Federico Silvio Toniato - ha animato una giornata di studio
sul tema dell'eutanasia presso la Residenza Universitaria Lamaro
Pozzani di Roma, ed ha affrontato gli aspetti filosofici del tema.
Perché? Perché a giudizio del filosofo cattolico l'eutanasia è un
"caso eccezionale". E il diritto rischia di intervenire con
un "meccanismo burocratico sulla gestione della morte".
L'uomo moderno ha visto crescere enormemente - di fronte alla morte -
una visione che la considera "dolore e male supremo", dice
D'Agostino. La tradizionale etica di matrice cristiana, che dava
valore alla sofferenza in quanto tale, è venuta meno; e si è
affermata al contrario "una ribellione contro l'idea della morte
come luogo massimo della sofferenza". All'interno di questa
ribellione l'idea di dover morire viene rimossa. O, meglio, viene
rimossa la morte che procura dolore. In questo senso, dice D'Agostino,
la morte artificiale è meno dolorosa di quella "naturale".
Ma le argomentazioni di D'Agostino non si limitano alla scontata etica
della sofferenza. Il presidente onorario del Comitato per la bioetica
sostiene infatti che di certo anche chi è contro l'eutanasia non
avrebbe difficoltà a riconoscerne le ragioni in alcuni casi concreti.
"Ma perché circoscrivere il discorso? Lo sviluppo della scienza
e delle tecnologie ci offre una serie di capitoli interessantissimi, a
partire dalle medicine palliative. In questo i medici sono affetti da
una 'distorsione psicologica', che si può riassumere nella
contrapposizione 'guarigione versus morte'. O faccio di tutto per
guarirti a oltranza o niente. E invece viene considerato un discorso
di serie B dire: non sono in grado di guarirti, ma posso toglierti il
dolore".
Le considerazioni di D'Agostino si accompagnano a quelle - altrettanto
recenti - di Sherwin Nuland, chirurgo e storico della medicina
dell'Università di Yale, autore di un interessante saggio uscito di
recente per Mondadori dal titolo I misteri del corpo e di uno
scritto dedicato a Come moriamo: il problema dell'eutanasia,
nell'intera vita di un medico, si incontra pochissime volte.
Abbiamo metodi e farmaci eccellenti per trattare il dolore, che
funzionano nel 95 per cento dei casi. E poiché molti medici non li
conoscono, si tratta in primo luogo di formare la comunità medica e
di insegnare che le cure palliative sono possibili quasi per tutti.
Resta però il 5 per cento dei casi, due o tre pazienti nella vita
professionale di un medico. In quei casi è dovere morale di tutti -
non solo dei medici - eliminare o lenire il dolore. E se il paziente
chiede insistentemente che sia posta fine alla sua vita, il medico per
Nuland ha un unico dovere: aiutarlo a morire.
Il dilemma filosofico tra staccare o meno la spina è legato ai
diversi sistemi etici di riferimento: per la tradizione
ebraico-cristiana e per quella islamica il corpo, "livrea del
servo prestata da Dio", non ci appartiene; per la visione laica
è inutile sopravvivere quando non c'è più coscienza ma solo vita
vegetativa. Tristram Engelhardt è il più autorevole bioeticista a
sostenere questa tesi: "il divieto di suicidio, di suicidio
assistito e di eutanasia non è altro che un tabù, un complesso di
proibizioni radicate in considerazioni etiche ereditate dal passato ma
che non ci appaiono più degne di essere prese sul serio" perché
l'unica guida alle nostre scelte "deriva dal consenso delle
persone coinvolte".
Ma anche la Chiesa Valdese, seppure in posizione decisamente
minoritaria rispetto alle grandi religioni monoteiste (documento del
Sinodo Valdese del 1998) ammette la domanda di suicidio assistito,
perché, "per quanto paradossale possa sembrare, accogliere la
domanda di morte significa accogliere la domanda della vita" e
"il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o
all'eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina,
ma compie un gesto umano". E il Buddismo, ponendo al centro della
sua visione la questione del dolore, sostiene che un dolore che sia
divenuto insopportabile provoca sentimenti di profonda rabbia e
frustrazione. "Dal nostro punto di vista avere, una mente
pacifica al momento della morte è essenziale e quindi, prima che il
dolore divenga intollerabile, l'eutanasia è giustificabile".
E' di recente elaborazione un documento ad opera di un gruppo di
lavoro nominato dall'ex ministro Veronesi per affrontare il tema della
"interruzione dell'alimentazione e della idratazione forzata, in
un malato in stato vegetativo permanente". Il ministro non ha
voluto parlare di eutanasia, perché il caso è diverso, e molto
particolare: tutto è partito dalla vicenda di Eluana, una ragazza in
coma irreversibile da otto anni, il cui padre ha chiesto alla
giustizia di interrompere l'inutile sofferenza inflitta al corpo in
"stato vegetativo permanente".
La domanda posta dai magistrati e da Veronesi al comitato di esperti
era la seguente: i trattamenti di alimentazione e di idratazione
forzata possono essere considerati "trattamenti medici"? Gli
esperti hanno risposto di sì, nel senso che le soluzioni per
alimentare il corpo di Eluana sono preparate e somministrate da
medici. Di conseguenza, l'infinito prolungarsi di questa terapia può
essere considerato accanimento terapeutico, vietato dal nostro
ordinamento: "il medico deve astenersi dall'ostinazione in
trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio
per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della
vita". I genitori di Eluana potranno usare questo rapporto come
una "perizia" da sottoporre al tribunale.
Di un "paradosso dell'eguaglianza davanti alla morte" che
verrebbe garantito dal diritto al suicidio assistito, ha parlato
Stefano Rodotà. Il Garante della Privacy ha in effetti evocato la
discussione apertasi negli USA a seguito della impugnazione, innanzi
alla Corte Suprema, delle leggi di alcuni stati che prevedevano
l'eutanasia: chi ha "la sfortuna" di sopravvivere con le sue
sole forze, anche con sofferenze insopportabili, si trova "in una
condizione deteriore" rispetto a colui il quale, sopravvivendo
"o con mezzi meccanici o con mezzi chimici, ha invece la
possibilità di rifiutare le cure" e di morire. L'introduzione
del diritto all'eutanasia ristabilirebbe quindi una condizione di
eguaglianza.
Rodotà ha però sottolineato a più riprese che, nella legislazione
italiana non si parte da zero, poiché la ratifica da poco avvenuta
delle Convenzione europea di Biomedicina ha introdotto (art.9) un
principio importante, laddove si afferma che "verranno presi in
considerazione i desideri precedentemente espressi in relazione a un
intervento medico da un paziente che al momento dell'intervento non
sia in grado di esprimere la propria volontà". Dunque -sostiene
Rodotà- non è del tutto vero che i testamenti biologici siano
totalmente privi di fondamento giuridico nel nostro sistema:
"c'è una totale inconsapevolezza del salto qualitativo che il
nostro sistema giuridico ha fatto per effetto della ratifica di questa
Convenzione", ha affermato Rodotà. Un passaggio teorico è stato
cioé già compiuto, nel momento in cui si afferma il rifiuto di cure
come un diritto della persona.
Un punto da chiarire resta però, secondo il Garante della Privacy,
l'attribuzione "ad un terzo" della decisione che riguarda
l'attuazione delle volontà precedentemente espresse in un testamento
biologico: chi è il terzo? Un medico? Una persona "designata
dall'interessato?". E' una questione che secondo Rodotà va
assolutamente regolata, poiché non si può accettare ipocritamente
che tanti medici pratichino, compassionevolmente ma clandestinamente,
l'eutanasia; né si può convivere con il sospetto che i parenti -ad
esempio- possano decidere il ricorso all'eutanasia per brutali ragioni
economiche. Una pubblica discussione ed una regolamentazione più che
rigorosa sono pertanto l'unica soluzione, l'unica alternativa
all'ipocrisia.
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