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La grande rimozione



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Bel paradosso, la morte: è l’unica esperienza comune a tutti, ma è l’argomento di cui tutti parlano il meno possibile. Eppure, a ben vedere, la morte è un evento che può essere osservato da molti punti di vista, in un caleidoscopio di letture capaci di trascendere il significato più ovvio che si tende a darne, ossia la fine di tutto.

È quello che ha tentato di fare il filosofo Umberto Curi, docente di Storia della Filosofia all’università di Padova. Nel suo libro Il volto della Gorgone (Bruno Mondadori), Curi ha raccolto una serie di saggi sulla morte da visuali differenti, mettendo insieme la prospettiva di filosofi, biologi, medici, antropologi, psicologi, studiosi delle religioni, etologi e così via.

Il risultato è un quadro variegato, dal quale si staccano alcune significative divergenze. Soprattutto per quanto riguarda la possibilità di ricondurre la morte a una dimensione razionale. E quindi, in un certo senso, se non a sconfiggerla, almeno ad addomesticarla. Caffè Europa ha intervistato l’autore di questa interessante raccolta.

Professor Curi, la sua indagine parte dal mito di Prometeo. Nel ricordo comune, questa divinità ha regalato agli uomini il fuoco, simbolo per eccellenza della tecnica, da cui prende origine il progresso della civiltà. Ma a suo avviso, il vero dono di Prometeo è stato un altro: quello di rendere sopportabile il peso della morte…

Se leggiamo il Prometeo incatenato di Eschilo, è scritto con chiarezza che il merito fondamentale di Prometeo è stato quello di aver distolto gli uomini dal guardare fisso la morte. Fino a quel momento, infatti, il genere umano viveva, dice testualmente Eschilo, "come larve di un sogno", incapace di dedicarsi a qualsiasi attività o impresa. Attivando il processo della scoperta, dell’invenzione, Prometeo ha permesso agli uomini di distrarsi dal guardare la morte, facendo sì che intraprendessero attività operose e per molti aspetti prodighe di benessere. Anche se, come ammonisce Platone, dimenticarsi della morte vuol dire perdere il significato più autentico della vita.

Ma allora, quello di Prometeo è stato un regalo o un inganno?

Come tutti i doni, è l’uno e l’altro contemporaneamente, senza alcuna contraddizione. Lo stesso termine greco che sta per dono, doron, ha la stessa radice di dolon, inganno. Del resto, ognuno di noi è consapevole che qualsiasi dono allieta e impegna, conferisce qualcosa ma ne sottrae qualcos’altra. Anche la tecnica, offerta da Prometeo, ha dunque questa ambivalenza. Mai come nel ventesimo secolo, l’umanità ha compreso la doppia faccia del progresso: miglioramento della condizione umana da una parte, radicalizzazione di taluni mali dall’altra. Mai come in questi anni, l’uomo ha assistito a una dimostrazione tanto spettacolare della doppia natura della tecnica: nociva e potenzialmente positiva, al tempo stesso.

Torniamo al monito di Platone. Che ci avvisa di non dimenticarci della morte…

Ognuno di noi, malgrado la consapevolezza che si tratti di un evento decisivo, fa il possibile per non pensarci. E su questa rimozione collettiva ha attecchito il luogo comune secondo cui la morte sia un evento negativo, finale, distruttivo. Questo almeno sul piano razionale. Se della morte si riesce a dare un valore positivo, in genere, è soltanto per il soccorso della fede, dell’extrarazionale.

Dall’indagine del suo saggio si evince invece lo sforzo di trovare un significato della morte in chiave strettamente razionale.

In realtà, è sempre Platone a porsi in questa ottica. Nel Fedone, il filosofo rappresenta sotto forma di racconto quasi cinematografico la morte di Socrate. E questo evento viene descritto in tutto il suo carattere ambivalente: di fine di un’esperienza e, nello stesso istante, di apertura su qualcosa di indescrivibile. La grande serenità con la quale Socrate affronta il veleno è uno squarcio poetico e definitivo su un altrove, che Platone si limita a suggerire.

Qualche indizio lo dà?

Sì, ma soltanto per via indiretta. Platone descrive l’impossibilità di guardare la morte come evento puramente negativo. Lo fa in modo molto bello, parlando di Esculapio, inventore della medicina. A Esculapio erano state donate due gocce di sangue: una capace di guarire gli uomini, addirittura di resuscitarli, l’altra capace di dare la morte. Due gocce, cioè due entità praticamente uguali. Come a dire che la morte ha sempre un doppio aspetto. Come un farmaco: che, a seconda del dosaggio, è strumento di vita o strumento di morte. Platone si ferma qui, giustamente non osa assoggettare il mistero a criteri descrittivi, ma ci suggerisce un orizzonte denso di allusioni e ambivalenza.

Basta questo a consolare l’uomo dalla paura di morire?

Aggiungo allora un altro elemento. Per l’uomo occidentale la morte è negativa perché rappresenta la fine. Ma la fine di cosa? Può essere la fine della sofferenza, la fine dei condizionamenti, la fine della malattia e di mille imperfezioni. La fine insomma di una condizione negativa che potrebbe preludere a un nuovo stato, meno deficitario.

Come la scommessa di Pascal

Certo, se punto sulla fine di tutto dopo la morte, e vinco, non vinco nulla. Se punto sull’esistenza di un aldilà, e vinco, vinco qualcosa di molto importante. Sul piano strettamente razionale, statistico, puntare su un’idea della morte più ampia della semplice fine, in qualche modo, conviene.

Resta comunque il fatto che, come diceva, l’elaborazione più conosciuta della prospettiva mortale spetta alle religioni. In particolare a quella cristiana.

La religione cristiana fonda il suo momento cruciale sulla morte. Il suo stesso simbolo è un morto. In realtà, l’immagine riprende un archetipo diffuso già da prima dell’era cristiana. Quello del morto che ritorna. Soltanto che mentre prima il morto tornava per vendicare i torti subiti, con il Cristo il ritorno ha come scopo il riscatto dell'umanità. Anche qui, comunque, segnalerei l’ambivalenza paradossale: Cristo indica nella morte l’evento cruciale del cristiano, il giorno della sua vera nascita.

E per quanto riguarda le altre religioni?

A differenza dei precetti morali, estremamente diversi tra loro, la morte è per tutte le religioni il transito verso qualcosa che, seguendo i principi della fede, migliora le condizioni di partenza.

Nel suo libro Il volto della Gorgone, l’astrofisica Margherita Hack affronta anche una forma di morte suprema. Quella del cosmo.

Riferendosi all’universo si può parlare di morte soltanto in modo traslato. Perché, secondo i fisici, la morte del cosmo significa riduzione a nulla, senza alcuna ambivalenza. In ogni caso, però, vorrei citare un aneddoto riferito dal cosmologo Fred Hoyle. Al termine di una conferenza sulla morte dell’universo, un’anziana signora gli si avvicinò e disse: “Qual è la data della fine del cosmo? Tra quindici milioni di anni?”. E Hoyle: “No, ho detto tra quindici miliardi di anni”. Al che la vecchietta, con sollievo fa: “Ah, meno male”.
Ecco, per fortuna, non saremo noi a raccontare quel momento.

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