Scampato alla desaparición
Claudio Tognonato con Antonia Anania
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Una tragedia che non deve
ripetersi
Parla Marco Bechis
La desapariciòn raccontata
Itinerario/Scomparsi nella Rete
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“Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi
uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi
rimarrà indifferente; e infine uccideremo gli indecisi” Generale
Iberico Saint-Jean
28 settembre 1976. Alcuni mesi dopo il golpe militare,
Claudio Tognonato, giovane italo-argentino che vive e fa “lavoro
politico” in una borgata di Buenos Aires, considerato uno dei tanti
sovversivi, viene sorpreso dai militari nella sua casa. Quella data
diventerà per lui un secondo compleanno, festeggiato dagli amici,
perché grazie a un attimo di distrazione dei militari, Claudio riesce
a sfuggire e a non diventare un altro desaparecido, uno dei
trentamila.
28 settembre 2000. E’ davvero una strana coincidenza: proprio 24
anni dopo quella fuga, rintraccio Claudio Tognonato. Parla velocemente
e con un accento musicale e cantilenante, tipico di chi proviene
dal Sudamerica. Inizia a raccontarci di quegli anni, a restituirci
la memoria di un periodo storico che per lui è anche memoria di
eventi personali: “Io sono un non-desaparecido”, afferma
“mi rimangono tanti amici morti e scomparsi, ma anche il periodo
più intenso della mia vita: sono segnato da quegli anni”.

Il volo di Horacio Verbitsky (Feltrinelli, 1996), il libro da
lui tradotto in italiano (è sua anche l’introduzione storica), è
esaurito e attende una riedizione: Verbitsky è uno dei più
importanti giornalisti dell’Argentina e in questo libro rivela la
testimonianza di Adolfo Scilingo, uno dei rari casi di militari pentiti
che racconta come migliaia di desaparecidos siano stati
fatti ‘volare’ dagli aerei militari, buttati ancora vivi nelle
distese oceaniche, quelle stesse distese che vediamo all’inizio e
alla fine di Garage Olimpo, il film di Marco Bechis.
Laureato in filosofia e sociologia, Claudio Tognonato vive a Roma, ma
ritorna in Argentina per i corsi di filosofia che tiene all’Università
di Buenos Aires. In Italia invece collabora con l’Università di
Roma Tre e scrive per “il manifesto” (sono suoi ad esempio i
recenti articoli dedicati al caso Olivera, vedi articolo collegato).
Quanto tempo ha vissuto in Argentina?
Sono nato in Argentina e ho vissuto lì fino ai 22 anni.
Dov’era al momento del golpe militare, e di che cosa si
occupava?
Ero a Buenos Aires, dove studiavo all’Università e facevo lavoro
politico.
Che cosa intende per “lavoro politico”?
Lavoravamo in una borgata a Buenos Aires e ci occupavamo di
salute, educazione, organizzazione del quartiere; avevamo una scuola,
e un ambulatorio con dei medici che collaboravano con noi… Aiutavamo
la popolazione di una delle tante villas miserias della
metropoli.
Che cosa significa villas miserias?
A Buenos Aires, villas miserias è il nome delle bidonville. In
ogni paese latino- americano le baraccopoli di periferia hanno nomi
diversi: favelas in Brasile, cantegril in Uruguay… Villas
miserias è un po’ eufemistico, “le ville della povertà”,
un ossimoro un po’ disgraziato che però si usa.
E lavorare nelle "ville della povertà" era considerato
un reato?
Un reato gravissimo. Tra i desaparecidos non ci sono solo
militanti, in mezzo vi è tanta gente che non c’entrava nulla, forse
aveva un libro definito pericoloso o aveva partecipato a qualche
manifestazione, bastava molto poco. Ricordo sempre una frase del
generale Iberico Saint-Jean, che cito pure nell’introduzione de Il
volo: “Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i
loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà
indifferente; e infine uccideremo gli indecisi”. Questo militare non
era un pazzo, era il governatore della provincia di Buenos Aires
durante la dittatura. Io ero considerato un sovversivo, per cui hanno
cercato di prendere anche me; fortunatamente sono riuscito a fuggire.
Che cosa ricorda del periodo successivo alla sua fuga?
Sono rimasto in clandestinità per un paio di mesi, durante i quali ho
vissuto qua e là, soprattutto per la strada, cosa doppiamente
pericolosa. Chiedere rifugio agli amici non era per niente sicuro: le
loro case potevano essere sorvegliate dai militari, i quali si
informavano su tutti gli amici e parenti di chi era scappato. Sono
stati mesi difficili, ne sono uscito partendo dall’Argentina con un
passaporto che mi ha dato Enrico Calamai in mezz’ora, salvandomi la
vita.
Come ha conosciuto Calamai?
Sapevo che questo giovane console, che all’epoca aveva trent’anni,
conoscendo la grave situazione politica dell’Argentina, facilitava
il rilascio di passaporti italiani a chi ne aveva diritto: io ero di
famiglia italiana, ma non ero in grado di sbrigare tutte le pratiche
in tempi brevissimi. Enrico invece ha fatto in modo di farmi avere il
passaporto in solo mezz’ora e grazie a lui sono potuto scappare.
Quali sono le parole argentine che in quel periodo ricorrevano più
spesso?
Ne ricordo una in particolare: traslado, cioè ‘portare
una cosa da un’altra parte’. Traslado veniva usata come la
parola volo. Chi non ha letto il libro di Verbitsky, non può
sapere che dire volo equivaleva a dire ‘condanna a morte’.
Il termine traslado era un’altra condanna a morte, perché
all’epoca i militari prendevano i prigionieri che si trovavano nei
loro campi di concentramento e dicevano 'questo prigioniero será
trasladado’, per intendere che quell’uomo non sarebbe più
tornato da nessuna parte, non sarebbe stato più rivisto e quindi
sarebbe diventato un desaparecido.
Perché camuffare delle azioni brutali con parole neutre o che
solitamente hanno altri significati?
Perché in tutta questa storia non si è mai parlato di cadaveri, di
torture, di condanne a morte, non si è mai detto quello che i
carnefici hanno fatto, perché nemmeno loro potevano dirlo: “Questo
lo facciamo volare”, dicevano, “quest’altro lo trasladamos”.
Usavano forme diverse per non chiamare col loro vero nome ciò che
nemmeno loro riuscivano ad ammettere. Una perfetta doppia morale, per
cui andavano a messa al mattino e al pomeriggio buttavano da un aereo
le persone.
E tra di voi, nelle villas miserias, qual era la parola più
importante?
Mi viene in mente compañero, un termine a me molto caro,
che adesso, come la parola rivoluzione, si è consumato col
tempo e ha perso il valore e la sua carica utopica.
Quale immagine potrebbe caratterizzare i giovani compañeros
argentini ?
Ancor prima di essere ricercati, eravamo molto attenti a
camuffarci, cercavamo di passare inosservati, anche con i vestiti. Chi
faceva militanza politica dopo il golpe del 1976, non si
presentava come potresti immaginarci, pensando ai giovani dei
movimenti studenteschi degli anni Settanta - barba, capelli lunghi,
eskimo e polacchette… Noi giravamo per Buenos Aires vestiti come se
avessimo dovuto andare al lavoro, sempre in giacca e cravatta, capelli
corti, magari una ventiquattrore, tanto da sembrare anche importanti
industriali. Perché la barba e i capelli lunghi erano i simboli della
contestazione, noi più che mostrarci come oppositori volevamo mettere
in atto l’opposizione.
Quale altro ricordo può dare l’idea del livello di tensione di
quel periodo?
Tutti gli argentini dovevano sapere a memoria il numero del loro
documento di riconoscimento, perché se qualcuno veniva fermato per
strada da un poliziotto, era normale che gli venisse chiesto dapprima
di mostrare il documento e poi di dire a memoria il numero
corrispondente. Nel caso non l’avesse saputo, quella persona
diventava sospetta e poteva essere fermata anche solo per questo
motivo.
Secondo lei, come si sono comportati gli italiani in questa
tragedia dei desaparecidos?
Come Stato, l’Italia non era presente. C’è stata soltanto l’eccezione
di Enrico Calamai, che però è stato lasciato da solo, troppo solo,
tanto che nel ‘77, appena un anno dopo l’inizio della dittatura
durata fino all’83, è stato spedito in Nepal, dove potesse essere
più inoffensivo agli interessi dell’Italia. L’Italia ha chiuso le
porte dell’ambasciata a Buenos Aires, proprio materialmente chiuse,
non entrava nessuno e gli italo-argentini, gli immigrati italiani in
Argentina sono milioni.
Che cosa si aspetta dal processo italiano contro i generali
Guillermo Suarez Mason e Santiago Riveros?
Mi aspetto che l’Italia assuma una posizione non formale, e quindi
che prevalga la giustizia sugli interessi commerciali, economici, che
sono molto forti tra i due Paesi. Mi aspetto che non accadano
situazioni come quella del generale Jorge Olivera, che dimostra quanto
siano ancora forti questi poteri e questi legami. Ho scritto su “il
manifesto”della cattura e del rilascio di Olivera da parte della
magistratura italiana (vedi articolo collegato) perché anche da qui
continuo ad occuparmi dell’Argentina, ma anche perché conoscevo
personalmente Marie Anne Erize, per la cui desaparición Olivera
è stato arrestato qui in Italia. Marie Anne era una ragazza
franco-argentina, dunque di doppia nazionalità, che sin dal 1973
lavorava nella stessa borgata dov’eravamo io e la mia compagna, a
Buenos Aires. Poi si trasferì a Mendoza e infine fu sequestrata nell’ottobre
del 1976 nella provincia di San Juan.
Che ricordo ha di Marie Anne?
Era una ragazza molto bella, faceva la modella. Quando abbiamo
saputo che l’avevano sequestrata, eravamo ancora in Argentina, e
abbiamo subito pensato che questi carnefici avrebbero fatto di tutto
con lei: Olivera lo ha pure confessato, ha avuto il coraggio di dire
che lui è stato il primo a violentarla.
E adesso Olivera è ritornato in Argentina.
Sì, la sua storia è incredibile. Era stato arrestato il 6 agosto
scorso a Fiumicino, in seguito a un mandato di cattura internazionale
partito dal giudice francese Roger Le Loire, ma i giudici della Corte
di Appello di Roma lo hanno scarcerato in modo affrettato, senza
controllare la validità dei documenti che alla fine si sono rivelati
palesemente falsi. Non solo: l’hanno fatto uscire dal carcere a
mezzanotte e l’hanno imbarcato, con l’aiuto dei servizi segreti,
probabilmente della P2, su un aereo per l’Argentina. E questo
nonostante sia un criminale ricercato dall’Interpol per delitti
contro l’umanità.
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