L'Argentina tra gli artigli del Condor
Enrico Calamai con Antonio Carioti
Articoli collegati:
L'Argentina tra gli artigli del
Condor
Scampato alla desaparición
Letti per voi/Olivera, l’ombra
lunga della P2
Le donne, custodi della memoria
Letti per voi/Le irregolari
Elsa, irregolare suo malgrado
Una tragedia che non deve
ripetersi
Parla Marco Bechis
La desapariciòn raccontata
Itinerario/Scomparsi nella Rete
Tango: Buenos Aires a Roma
E' capitato a molti, in un secolo atroce come il
Novecento, di assistere a crimini orrendi perpetrati intorno a sé e
di vedere tante mani tendersi in una disperata richiesta di soccorso.
C'è chi ha preferito voltare la testa dall'altra parte e chi, al
contrario, ha scelto di ascoltare la propria coscienza e di seguire la
via della solidarietà umana.
Enrico Calamai appartiene alla seconda categoria: giovane diplomatico
italiano nell'Argentina dei militari, aiutò a espatriare molte
potenziali vittime della repressione, senza fare differenza tra i
connazionali emigrati e coloro che non avevano il passaporto del
nostro paese. E' una storia poco conosciuta nell'ambito di una vicenda
tragica, tanto più impressionante in quanto non ebbe come teatro una
qualsiasi "repubblica delle banane", ma la nazione più
civile e progredita dell'America Latina.

L'esperienza argentina di Calamai comincia nel 1972: "Quando
arrivai a Buenos Aires, trovai un paese culturalmente avanzato,
industrializzato, con una classe operaia ben organizzata e una
borghesia colta di livello europeo. C'era un governo militare,
l'ultimo di quelli che si erano succeduti dopo la deposizione del
leader populista Juan Domingo Peron, avvenuta nel 1955. Ma era agli
sgoccioli, incapace di controllare la situazione, e decise di
restituire il potere ai civili. Venne eletto presidente il peronista
Hector Campora, che poi lasciò il posto a Peron in persona, tornato
trionfalmente dal suo lungo esilio a Madrid. I generali però erano
rimasti dietro le quinte, pronti a intervenire. Del resto proprio
allora si andava definendo la famigerata 'Operazione Condor', un piano
repressivo che prevedeva una stretta cooperazione tra le forze armate
di alcuni dei più importanti paesi del Sudamerica".
Ben presto il giovane diplomatico italiano avrebbe avuto l'occasione
di vedere direttamente all'opera gli artefici di quell'accordo. Ma,
inizialmente, non in Argentina. L'11 settembre 1973 assurge infatti a
notorietà internazionale il generale cileno Augusto Pinochet, che
abbatte il governo di sinistra del presidente Salvador Allende e
scatena un bagno di sangue. La nostra diplomazia, spiega Calamai,
viene a trovarsi in una situazione imbarazzante.
"Subito dopo il golpe, le ambasciate occidentali a Santiago si
erano riempite di rifugiati in cerca di scampo. Ma mentre gli altri
paesi avevano fatto uscire dal Cile tutte queste persone, nella sede
della rappresentanza italiana ne erano rimaste sei o sette, alle quali
non era stato concesso il visto per timore che altri oppositori
imitassero il loro esempio. Nei giorni precedenti l'anniversario della
caduta di Allende, nel 1974, la polizia di Pinochet intensificò la
repressione, per evitare moti di piazza. E il risultato fu di spingere
altra gente ad affluire nell'ambasciata d'Italia, l'unica che ancora
ospitasse dei cileni in cerca d'asilo: ben presto centinaia di
perseguitati si stiparono nell'edificio".

La giunta militare di Santiago reagì con la consueta brutalità,
facendo gettare dentro il muro di cinta il cadavere di una donna
torturata e uccisa. "Fu un'autentica provocazione - ricorda
Calamai - cui seguì una campagna scandalistica: i giornali di regime
sostenevano che la poveretta era morta nel corso di un'orgia svoltasi
nell'ambasciata. E quando il diplomatico italiano di servizio quella
notte, Roberto Toscano, denunciò l'accaduto nei suoi termini reali,
Pinochet lo dichiarò 'persona non grata' per toglierselo di
torno".
La situazione era complicata dal fatto che l'Italia, dopo il colpo di
Stato, aveva rotto le relazioni con il Cile e non poteva accreditare
nessuno per sostituire Toscano. I rifugiati nell'ambasciata, dal canto
loro, erano in preda al terrore e chiedevano di avere al fianco un
diplomatico. Fu così che Calamai da Buenos Aires partì per Santiago
senza nemmeno un visto d'ingresso, sulla base di una semplice intesa
verbale tra i due governi.
"Nella sede della nostra rappresentanza - racconta - trovai oltre
quattrocento individui accampati alla bell'e meglio sui pavimenti, ma
molto disciplinati. Erano quasi tutti militanti politici e avevano
creato organismi di autogoverno in cui ciascun partito era
rappresentato in base alla sua consistenza numerica in quel
microcosmo. Gestivano in proprio ogni attività: la pulizia, la
sicurezza, la cucina, la scuola per i bambini. Rimasi con loro due o
tre mesi, poi mi ammalai e dovetti tornare in Argentina. Dopo la mia
partenza, il ministero degli Esteri trovò un compromesso con i cileni
e riuscì a far trasferire tutti in Italia".
Intanto però anche l'atmosfera di Buenos Aires stava diventando
irrespirabile: "Peron era morto nel luglio 1974, senza riuscire a
risolvere i contrasti che laceravano il suo movimento, specie tra la
dirigenza tradizionale, di stampo conservatore, e la corrente
giovanile, che aveva al contrario tendenze progressiste molto
radicali. Scomparso l'anziano leader, gli succedette la seconda
moglie, Isabelita, del tutto incapace di governare. L'economia andò
in sfacelo. S'intensificò e divenne endemica la guerriglia di
sinistra, sostenuta da una vasta area di simpatizzanti, ma certamente
troppo debole per poter guidare un'insurrezione vittoriosa. E i
militari, assecondati dall'allarme dei mass media, risposero con una
repressione sempre più violenta, fino ad assumere direttamente il
potere nel marzo 1976".
Partì allora una strategia di annientamento feroce quanto quella di
Pinochet, con uno spargimento di sangue anche maggiore, ma molto più
accorta e silenziosa. "Mentre la giunta militare cilena aveva
esibito sfacciatamente la sua brutalità - osserva Calamai -, con gli
stadi trasformati in immense prigioni e i carri armati nelle strade,
suscitando reazioni indignate nel mondo intero, i generali argentini
agirono in modo occulto. La vita apparentemente proseguiva normale,
senza particolari sconvolgimenti. Ma di notte si scatenava una
sistematica caccia all'uomo: gli elementi sospetti, spesso colpevoli
soltanto di professare idee progressiste, venivano prelevati,
torturati e fatti sparire nel nulla. Niente testimoni, niente
processi, niente cadaveri. Era difficile anche per la stampa
internazionale fornire un'idea di quanto stava accadendo, avendo in
mano così scarsi elementi di prova".
Bisogna amaramente ammettere che fu un successo, tanto che nel 1978,
con la strage ancora in corso, si svolsero regolarmente in Argentina i
mondiali di calcio, senza particolari rimostranze da parte
dell'opinione pubblica. Neppure da noi, malgrado molti dei "desaparecidos"
fossero originari del nostro paese e parecchi anche in possesso del
passaporto italiano, vi furono proteste rilevanti.
Calamai però, presente sul posto, si accorse subito di tutto:
"L'esperienza cilena - spiega - mi aveva insegnato che i golpisti
puntavano allo sterminio di ogni opposizione. E poi cominciai ben
presto a ricevere segnalazioni di persone sequestrate. All'inizio le
stesse famiglie degli scomparsi erano caute, preferivano non suscitare
troppo clamore, per paura di compromettere la sorte dei loro cari. Ma
la repressione avanzava a macchia d'olio, con un infernale meccanismo
moltiplicatore. Le persone prelevate venivano torturate affinché
rivelassero il nome di altri 'sovversivi', che entravano subito nel
mirino dei militari. Bastava che un nome saltasse fuori, magari su
un'agenda telefonica, perché gli aguzzini si mettessero sulle sue
tracce".
S'instaurò quindi un clima di terrore, nel quale rivolgersi al
consolato italiano divenne per molti l'ultima speranza. "Numerosi
casi - ricorda Calamai - mi vennero segnalati dal responsabile del
patronato sindacale Inca-Cgil, Filippo Di Benedetto, che si occupava
di pratiche pensionistiche e conosceva a fondo la nostra comunità
Lavorammo insieme per assicurare ai perseguitati una via di fuga verso
l'Italia, procurando loro documenti e aiutandoli a eludere i controlli
di frontiera. In un primo tempo li facevamo passare per l'Uruguay,
dove ci si poteva recare con il solo documento argentino, ma poi ci
accorgemmo che era diventato rischioso, perché l'Operazione Condor
era in pieno svolgimento, con agenti della giunta militare di Buenos
Aires che operavano a Montevideo e anche in Brasile".
Quindi, per sottrarre i ricercati agli artigli dei militari, Calamai
puntò direttamente sullo scalo internazionale di Ezeiza, il più
importante dell'Argentina. "Non era facile - rammenta - perché
bisognava adottare, allo scopo di eludere la sorveglianza, una serie
di piccoli trucchi, cui non sempre le compagnie aeree si prestavano.
Per fortuna all'epoca non esistevano i controlli informatizzati e la
situazione era piuttosto caotica: se le liste dei ricercati fossero
state inserite su computer, ci sarebbe stato poco da fare. Nei casi
più a rischio, comunque, accompagnavo personalmente all'aeroporto la
persona interessata, in modo che un eventuale arresto avvenisse alla
mia presenza. A quel punto il prigioniero sarebbe stato preso in
custodia ufficialmente dalle autorità argentine e queste avrebbero
dovuto risponderne, cosa che ovviamente non avveniva per i 'desaparecidos'.
Grazie al cielo, però, non venne mai fermato nessuno".
Uno degli aspetti più sconcertanti della vicenda è che Calamai
operò senza la minima copertura da parte dell'ambasciata italiana,
che manteneva buoni rapporti con la giunta militare. "La mia
attività era tollerata, ma non certo incoraggiata. Quando arrivarono
a scadenza i quattro anni che dovevo passare in quel paese, chiesi una
proroga, ma non mi concessero più di qualche mese. Lasciai Buenos
Aires nel maggio 1977. Credo che gli argentini, dal canto loro, si
fossero accorti di quanto stavo facendo, ma abbiano preferito evitare
lo scandalo di agire contro un funzionario consolare".
Articoli collegati:
L'Argentina tra gli artigli del
Condor
Scampato alla desaparición
Letti per voi/Olivera, l’ombra
lunga della P2
Le donne, custodi della memoria
Letti per voi/Le irregolari
Elsa, irregolare suo malgrado
Una tragedia che non deve
ripetersi
Parla Marco Bechis
La desapariciòn raccontata
Itinerario/Scomparsi nella Rete
Tango: Buenos Aires a Roma
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |