|
Reset/Una Costituzione senza popolo?
Massimo Luciani
Articoli collegati:
Ce la farà il nostro Prodi a
far marciare l’Europa?
Un documento contestato
La carta, punto per punto
Non solo mercato e moneta
Solo lo scandalo ha fatto notizia
Donne unite per un'autentica
parità
Ma non chiamatela Costituzione
Che cosa diventerà l'Unione
Una Costituzione senza popolo?
Il contributo di Massimo Luciani, pubblicato sul numero 62 di Reset,
è tratto dal saggio Diritti sociali e integrazione europea che
uscirà in versione integrale sull’“Annuario dell’Associazione
Italiana dei costituzionalisti 2000”e sulla rivista “Politica del
diritto”, n.3, 2000. Massimo Luciani è professore ordinario di
Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
di Roma “La Sapienza”.
Nel processo di rafforzamento dell’integrazione europea, la
redazione di una “Carta dei diritti”, che definisca i valori
fondamentali nei quali ci si riconosce, è uno dei principali
obiettivi da perseguire. La decisione relativa all’elaborazione di
una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata dal
Consiglio europeo in una recente riunione a Colonia cade in un momento
di estrema delicatezza nella costruzione del nuovo quadro
istituzionale.
Nel documento si legge: "Il Consiglio europeo ritiene che la
Carta debba contenere i diritti di libertà e uguaglianza, nonché i
diritti procedurali fondamentali garantiti dalla Convenzione europea
di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri,
in quanto principi generali del diritto comunitario. La Carta deve
inoltre contenere i diritti fondamentali riservati ai cittadini
dell'Unione. Nell'elaborazione della Carta occorrerà inoltre prendere
in considerazione diritti economici e sociali quali sono enunciati
dalla Carta sociale europea e nella Carta comunitaria dei diritti
sociali fondamentali dei lavoratori, nella misura in cui essi non sono
unicamente a fondamento di obiettivi per l'azione dell'Unione".
(...) Il problema che il Consiglio europeo intende risolvere è quello
della legittimazione dell'integrazione europea. La decisione si spinge
sino a dire, che “la tutela dei diritti fondamentali costituisce un
principio fondatore dell'Unione europea e il presupposto
indispensabile della sua legittimità”, dimenticando bonariamente
che l'UE si presenta quale diretta continuazione di una Comunità che
solo da poco ha perso il qualificativo "economica" e che ha
affondato le radici assai più nelle esigenze del benessere che in
quelle della protezione dei diritti. Nondimeno, così è: timoroso del
gelo dei popoli d'Europa, il processo “freddo” di integrazione
cerca di rafforzarsi col fuoco della positivizzazione di valori “caldi”
attraverso il riconoscimento dei diritti fondamentali. Questo
riconoscimento consente anche di rimediare a quel problema di
visibilità e di chiarezza che da sempre affligge l'integrazione
continentale. Non a caso la decisione afferma che “allo stato
attuale dello sviluppo” l'elaborazione della Carta dei diritti è
necessaria “al fine di sancirne in modo visibile l'importanza
capitale e la portata per i cittadini dell'Unione”.
La redazione di un catalogo di diritti fondamentali storicamente si
lega intimamente all'instaurazione di una nuova Costituzione. Le
Costituzioni scritte non sono macchine, ma testi normativi nei quali
sono stabiliti i valori nei quali un'intera comunità politica si
riconosce e dai quali è unificata. Valori dei quali sono parte
essenziale proprio i diritti. Dunque, dire che esiste un'unione
politica e di questa si vogliono stabilire i diritti fondamentali non
si fa altro che dire che di quell'unione si sta scrivendo la
Costituzione.
(...) Parlarne oggi significa postulare la natura essenzialmente
politica del legame comunitario, come pure significa immaginare che
tale legame concerna direttamente i cittadini e non gli Stati. Anche
chi, sul punto, è più incerto, parla di Costituzione in forma
ottativa e prescrittiva, quasi a voler significare che esistono le
condizioni affinché ci sia una Costituzione e che si deve fare tutto
quanto occorre per costruirla.
Questa posizione è tutt’altro che astratta: parole con un possente
valore simbolico, quali “Costituzione” o “cittadinanza”,
funzionano già da sé da efficienti fattori di integrazione. Per
stare davvero assieme, l’Europa ha grande bisogno di simboli, e
questi non sono i meno importanti. L’impressione, però, è che l’anticipazione
sui tempi dello sviluppo politico-sociale sia eccessiva e che sul
piano dei meccanismi integrativi sarebbe necessario altro genere di
interventi. Chiarire agli europei i molti tratti comuni della loro
storia, la trama connessa dei rispettivi sviluppi culturali, le
ragioni di un comune dibattito pubblico, mi sembra cosa più
importante dell’uso abusivo di termini che, nella tradizione del
costituzionalismo, hanno un significato assai preciso.
Una Costituzione europea può esistere solo a due condizioni: se
l'Unione ha la “disponibilità” delle proprie regole fondamentali;
se esiste una comunità autenticamente politica di riferimento.
Entrambe queste condizioni mancano. Non l'Unione ma gli Stati sono i
signori dei Trattati, e una comunità politica non c'è perché
l'Unione "non è un ente politico" ma "persegue
politiche in settori singoli". Soprattutto, una comunità
politica non può darsi senza un popolo, e un popolo europeo ancora
non lo abbiamo. Senza popolo non ci sono né Costituzione, né
cittadinanza, né diritti di cittadinanza. Da questo punto di vista,
invece di essere un paradosso, è perfettamente coerente con questo
stato di cose il fatto che l'Unione (oltre a non essere domina dei
propri principi fondamentali) non abbia nemmeno la disponibilità
della propria cittadinanza. La stessa Corte di giustizia ha infatti
affermato che spetta a ciascuno Stato membro definire le condizioni di
acquisto della cittadinanza, e che quella europea altro non è che il
riflesso delle determinazioni assunte in sede nazionale.
E' esatto, dunque, rilevare che “la cittadinanza europea si presenta
in definitiva come satellite di quella nazionale”, tanto che il
regime della cittadinanza dell'Unione, a parte alcune particolarità
non decisive, coincide con quello tipico del diritto internazionale,
che riserva appunto agli Stati la parola definitiva nella decisione su
chi e come sia da considerare cittadino.
Un catalogo di diritti fondamentali nell'ambito dell'Unione non è
sufficiente a creare una cittadinanza europea, perché essa è fatta
anche di doveri, senza i quali manca la formalizzazione del vincolo
sociale. Già alcuni anni or sono, la stessa Corte di giustizia ha
riconosciuto che “il fondamento del vincolo di cittadinanza” sta
nella “esistenza di un rapporto pubblico di solidarietà nei
confronti dello Stato” e nella “reciprocità di diritti e di
doveri”, con ciò stesso chiarendo che nell'ordinamento dell'Unione,
in mancanza di doveri pubblici di solidarietà, mancano le condizioni
stesse della cittadinanza.
Che non vi siano doveri, in effetti, è innegabile. Anche coloro che
ne ipotizzano l'esistenza per il cittadino europeo non possono
spingersi oltre il richiamo al generico dovere di osservanza del
diritto (comunitario) ma a ben vedere, un simile dovere altro non è
che il comune risvolto soggettivo dell'esistenza di un ordinamento
giuridico che aspiri all'effettività. In ogni caso, non basterebbe
l'imposizione di un qualsivoglia dovere per creare quel rapporto tra
situazioni attive e situazioni passive che è tipico dello status di
cittadino: solo alcuni specifici diritti, come quello di fedeltà,
quello di pagare i tributi o quello di difendere la Patria qualificano
la condizione del cittadino, in quanto sono “una sorta di
contropartita dei diritti” che al cittadino stesso vengono
riconosciuti, caratterizzando il reciproco vincolo di solidarietà
politica che lega tutti gli appartenenti a una comunità statuale.
Proprio in campo sociale l'assenza di significativi doveri di
solidarietà determina conseguenze rilevanti in ordine agli stessi
diritti. I diritti sociali possono esistere in quanto sono sostenuti
da corrispondenti doveri di solidarietà, sia perché questi doveri
indicano la volontà di sancire l'eguale appartenenza ad una comunità
nella quale ci si identifica, sia perché il soddisfacimento di quei
diritti richiede mezzi che solo l'assolvimento di doveri di
solidarietà può fornire. Questi doveri, a livello europeo, non ci
sono, e ciò dimostra che l'Unione non è una comunità politica in
senso proprio. Del resto, la filosofia dei diritti sociali, che
implica un intervento pubblico di sostegno, non si armonizza
agevolmente con quella del libero mercato, che caratterizza, ancora
oggi, l'ordinamento europeo. Se tutto questo è vero, nemmeno una
dichiarazione dei diritti dei cittadini europei potrebbe essere il
nucleo di una Costituzione dell'Unione. (...) Se la Carta dei diritti
verrà approvata dovremo, nondimeno, ricostruirne la forza giuridica.
Essa dipenderà dalla scelta che si farà in ordine all'inserimento o
meno della Carta nei Trattati, prendendo posizione sull'alternativa
che a Colonia è stata lasciata aperta e che tuttavia è di cruciale
importanza. Il collegamento tra legittimazione dell'Unione e Carta dei
diritti dovrebbe spingere in teoria a optare per l'integrazione. Nei
sistemi di democrazia liberale la legittimazione del potere segue
percorsi complessi, nei quali si intrecciano la volontà popolare e le
scelte costituzionali, e tra queste le più significative sono proprio
quelle attinenti alla condizione giuridica dei consociati (ai loro
diritti e doveri). è dunque comprensibile che chi vuole rafforzare la
legittimazione dell'Unione punti a fondarla sulla Carta dei diritti.
Questa strada, tuttavia, è irta di difficoltà. Proprio per questa
sua straordinaria efficacia legittimante, “una Carta europea dei
diritti avrebbe il significato di trasformare la fonte di
legittimazione dell'ordinamento europeo”. Tale fonte, oggi come
oggi, è la volontà degli Stati “signori dei Trattati”, che a sua
volta risale alle rispettive Costituzioni e alle sottese, singole,
volontà popolari. Inserire nei Trattati una Carta dei diritti
rovescerebbe completamente questa situazione, formalizzando la pretesa
dell'Unione all'autolegittimazione e all'originarietà.
Non si potrebbe replicare che in ogni caso gli Stati resterebbero
padroni del procedimento di revisione costituzionale comunitario.
Delle due, infatti, l'una: se così continuasse ad essere, vorrebbe
dire che la Carta dei diritti dei cittadini dell'Unione sarebbe ben
diversa da quelle Carte dei diritti fondamentali con le quali, sin dai
propri inizi, il costituzionalismo si è misurato, sicché i diritti
ivi riconosciuti sarebbero fondamentali solo per ellissi. Se, invece,
si determinasse la sostanziale rinuncia degli Stati al dominio dei
Trattati qualora i diritti fondamentali venissero intesi come limiti
materiali taciti alla revisione costituzionale, ci troveremmo di
fronte esattamente a quel rovesciamento dell'attuale equilibrio, cui
ho adesso accennato.
L'argine nei confronti di questo esito non potrebbero certo essere le
giurisprudenze costituzionali nazionali. A parte ogni considerazione
sull'impraticabilità politica di una contrapposizione delle Corti a
un processo voluto dai Governi e tollerato dai cittadini, ad
alimentare lo scetticismo sta la debolezza dei presupposti teorici
delle stesse giurisdizioni costituzionali più forti. Mi riferisco in
particolare a quella tedesca, che ha rivendicato il potere di
controllare la conformità del diritto europeo ai principi
fondamentali del Grundgestez almeno fino a quando l'ordinamento
europeo non garantirà un livello di protezione pari a quello tedesco.
Affermazione, questa, che si scontra con l'impossibilità pratica, in
moltissime ipotesi, di stabilire quando una garanzia sia
"maggiore" o "minore" di un'altra, la condizione
dei diritti fondamentali dipendendo - come ho già detto - da una
così complessa pluralità di fattori che nessun esprit de géometrie
potrebbe pesare o misurare con astratta esattezza il quantum di
garanzie.
Allo stato, dunque, il più corretto destino della Carta dei diritti
sembra essere quello di una collocazione al di fuori dei Trattati,
nella posizione di una solenne dichiarazione di principio, di
formalizzazione di un impegno comune, di ulteriore passo avanti sulla
via dell'integrazione, ma nel rispetto dei caratteri essenziali del
processo che sinora si è seguito. Nulla può escludere che la Carta
funzioni, poi, da punto di coagulo delle spinte per un ulteriore
approfondimento del vincolo europeo o addirittura per la definitiva
federalizzazione dell'Europa, ma questo è un esito solo eventuale,
oltreché ovviamente incerto. (...)
Articoli collegati:
Ce la farà il nostro Prodi a
far marciare l’Europa?
Un documento contestato
La carta, punto per punto
Non solo mercato e moneta
Solo lo scandalo ha fatto notizia
Donne unite per un'autentica
parità
Ma non chiamatela Costituzione
Che cosa diventerà l'Unione
Una Costituzione senza popolo?
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |
|
|