Il sistema americano dei
media sta sfuggendo a ogni controllo, preso in una frenetica follia di
ipercommercializzazione. Meno di dieci grandi compagnie transnazionali controllano la
maggior parte dei nostri media; meno di due dozzine gestiscono la stragrande maggioranza
dei nostri quotidiani, riviste, film, televisioni, radio e libri. Ora che ogni singolo
aspetto della nostra cultura informativa è facile preda dello sfruttamento commerciale,
possiamo attenderci una commercializzazione su vasta scala degli sport, delle arti e
dell'educazione, la scomparsa di concetti quali pubblico servizio e dibattito pubblico, e
infine - sotto una pressione commerciale sempre più pesante, la degenerazione del
giornalismo, dell'informazione politica e della programmazione destinata ai bambini.
Per i democratici, questa concentrazione del potere mediatico e la
conseguente commercializzazione del discorso pubblico rappresenta un evento disastroso.
Una cittadinanza informata e partecipe dipende dai media, che svolgono una funzione di
servizio pubblico. Come ebbe una volta a dichiarare James Madison, "un governo
popolare senza informazione popolare o senza gli strumenti per raggiungerla, non è che il
prologo di una farsa o di una tragedia, probabilmente di entrambe". Ma queste
funzioni democratiche non sono più alla portata dell'attuale sistema dei media americano.
Se vogliamo parlare seriamente di democrazia, dobbiamo dunque attivarci con decisione per
riformare il sistema. Di che sorta di riforme abbiamo bisogno. In poche parole, dobbiamo
ridurre l'attuale livello di concentrazione dei media, e, cosa ancora più urgente,
limitarne gli effetti sul processo democratico. Detto in termini più specifici, sono
necessari incentivi specifici per le imprese non-profit, regolamentazioni più estese, un
servizio televisivo pubblico e una buona legislazione anti-trust. Le proposte che presento
vogliono essere uno spunto per un dibattito sulla riforma dei media, non pretendono di
rappresentare la soluzione definitiva. Sono certo che una discussione aperta e vivace non
potrà che migliorarle: la mia preoccupazione immediata è soltanto quella di avviare un
dibattito in proposito. Non mi soffermerò ora sulle debolezze dell'attuale sistema
mediatico americano, limitandomi a riassumere le osservazioni fatte da me (e da molti
altri) in precedenti occasioni. Il punto cruciale è piuttosto di rispondere alla più
naturale risposta a tali critiche: "Se lo status quo è tanto male, che cos'avete voi
da proporre di meglio?"
Media e Democrazia
Le argomentazioni in favore di una riforma dei media si basano su due
osservazioni. Primo, i media svolgono una funzione politica, sociale, economica e
culturale essenziale alle democrazie moderne. In tali società i media sono la fonte
principale dell'informazione politica, lo strumento per accedere al dibattito pubblico e
la chiave per una cittadinanza informata, partecipe e capace di auto-governarsi. La
democrazia ha bisogno di un sistema di media che fornisca alla gente una gamma la più
ampia possibile di opinioni, analisi e dibattiti sui temi più importanti, che rifletta le
differenze tra i cittadini e vegli sull'affidabilità di chi il potere ha raggiunto e di
chi vorrebbe raggiungerlo. In sintesi, in democrazia i media devono dar voce ai dibattiti
in corso e alle diversità, e verificare l'affidabilità delle istituzioni.
Secondo, i modelli organizzativi nelle proprietà degli strumenti di
comunicazione, nella loro gestione e regolamentazione e nei loro finanziamenti determinano
in modo cruciale il contenuto dei media stessi. Questa affermazione ci è familiare dopo
le discussioni sui media in Cina e nell'ex Unione Sovietica. Per tali paesi, l'idea che i
media potessero promuovere dibattiti, diversità e affidabilità pur essendo di fatto
posseduti e controllati dal Partito Comunista era talmente evidente che non valeva nemmeno
la pena tentare di negarla. Allo stesso modo, non sorprende sapere che quando gli
oligarchi del governo messicano possedevano la sola emittente televisiva del paese, la
copertura delle notizie avveniva in una luce sempre favorevole al partito al governo.
Negli Stati Uniti, per contro, le analisi degli effetti sui contenuti
dei media implicati dalla proprietà privata e dall'inserzionismo pubblicitario non sono
mai state particolarmente estese o approfondite. Per gran parte della seconda metà di
questo secolo, gli americani si sono sentiti dire che non c'è ragione di preoccuparsi per
le proprietà multinazionali dei media o per la loro dipendenza dagli inserzionisti
pubblicitari, perché la competizione sul mercato costringe i media commerciali a
"dare alla gente quello che vuole", e la professionalità dei giornalisti
protegge le notizie dai condizionamenti imposti da proprietari e inserzionisti, nonché
dai giornalisti medesimi.

Questi punti di vista oggi ci appaiono molto dubbi. Consideriamo
innanzitutto i cosiddetti benefici della concorrenza. Gran parte dei mercati dei media -
film, tv, riviste, musica, libri, tv via cavo, giornali - sono oligopoli o semi-monopoli,
con severe barriere per chi cerca di entrarvi. Per di più l'economia dei media rende
praticamente impossibile a un'impresa di limitare il proprio dominio a un unico settore. A
causa delle opportunità che si presentano a chi detiene proprietà diverse in diversi
settori del mercato, le compagnie più importanti si sono tutte affrettate, nell'ultimo
decennio, a instaurare sinergie e compartecipazioni. La Time Warner, per esempio, e uno
dei cinque principali operatori degli Stati Uniti, e forse del mondo, nel campo della
produzione cinematografica, televisiva, dei canali e dei sistemi per la tv via cavo, della
proprietà di sale cinematografica, dell'editoria libraria, della musica e dei periodici.
Possiede, inoltre, parchi di divertimenti, negozi e squadre professionistiche di diversi
sport. Anche la Disney sembra padroneggiare perfettamente la stessa logica: i suoi film a
cartoni animati Pocahontas e Il gobbo di Notre-Dame hanno avuto un successo solo marginale
al botteghino, con circa 100 milioni di dollari di incasso negli Stati Uniti, ma entrambi
hanno generato qualcosa come 500 milioni di profitti per la Disney, derivanti da tutti i
prodotti collaterali ad essi collegati: spettacoli televisivi trasmessi dal network ABC,
di proprietà Disney, e sui canali via cavo, nuovi "mondi" nei parchi
divertimenti, fumetti, CD-Rom, Cd musicali e merchandising (venduto negli oltre 600 negozi
Disney). Le imprese che non possono disporre di simili strumenti non riescono a competere
sul mercato: per questo l'animazione è territorio esclusivo dei colossi dei media. Si
tratta di un esempio estremo, ma che ben evidenzia il principio fondamentale.
Queste osservazioni sulle sinergie comunque non bastano ancora a
spiegare quanto poco competitivo il mercato sia in realtà - se per
"competitivo" adottiamo la definizione che ne danno i manuali di economia. Le
imprese che operano in settori specifici si fanno certamente concorrenza, spesso in modo
feroce. Ma le stesse aziende sono anche i migliori clienti le une delle altre, ad esempio
quando uno studio cinematografico vende il suo prodotto perché sia presentato a un canale
televisivo via cavo. Per di più, nel tentativo di ridurre rischi e concorrenza,
nell'ultimo decennio le principali compagnie hanno avviato "equity joint
ventures", accordi tramite i quali i colossi dei media si dividono la proprietà di
un particolare progetto mediatico. I proprietari di Fox Sport Net sono la News Corporation
di Rupert Murdoch e la TCI di John Malone; La Comedy Central, canale televisivo via cavo,
è di proprietà della Time Warner e della Viacom. Murdoch ha spiegato la logica delle
joint ventures come solo lui sa fare: "Possiamo unire le nostre forze subito, oppure
possiamo tentare di ammazzarci a vicenda per poi unire le nostre forze".
Le prime nove compagnie americane che operano nel settore dei media
hanno sottoscritto, in media, joint ventures con circa sei dei rimanenti otto colossi. La
News Corp di Murdoch può contare su almeno un'operazione di questo genere con tutti e
otto. In questo mercato non competitivo, l'affermazione che le imprese mediatiche
"danno alla gente quello che essa vuole" non convince affatto. Queste aziende
hanno un potere di mercato sufficiente a dettare i contenuti che ritengono più
convenienti per loro. E la via più semplice al profitto deriva dall'incrementare la
commercializzazione - un maggior numero di inserzioni pubblicitarie, più spazio agli
inserzionisti rispetto a quello concesso ai contenuti, una programmazione che conduca e
promuova il merchandising, e ogni sorta di promozioni incrociate con imprese di altro
tipo. I consumatori forse non desiderano questo ipercommercialismo, ma hanno ben poca voce
in capitolo. Così nel decennio trascorso si è registrato un aumento del 50 per cento nel
numero di spot pubblicitari sulle reti televisive; negli anni novanta abbiamo assistito
allo sviluppo di una programmazione destinata all'infanzia zeppa di spot e di inserzioni,
al punto che i programmi per i bambini sono probabilmente il settore più redditizio e in
maggiore crescita dell'intera industria televisiva; e anche la produzione cinematografica
si sta adeguando. L'altra faccia del commercialismo sfrenato è il declino del servizio
pubblico, o meglio dell'idea che i nostri media possano avere un'altra finalità che non
sia quella di produrre denaro da distribuire tra gli azionisti.
In queste condizioni non ci si può illudere che le norme
giornalistiche riescano a viaggiare controcorrente. Il giornalismo commerciale odierno è
essenzialmente una miscela di cronaca nera, profili e interviste con le celebrità di
turno, notizie per i consumatori rivolte alle classi medio-alte e comunicati stampa
rimaneggiati. Le librerie sono zeppe di sconsolate memorie di ex editori, direttori e
giornalisti che rimpiangono i bei tempi andati del giornalismo coraggioso. I sindacati dei
giornalisti svolgono un ruolo molto importante, proteggendo la deontologia professionale
dagli interessi commerciali degli editori. Ma senza altre misure in grado di limitare il
potere delle multinazionali dei media, ben difficilmente i sindacati riusciranno a
resistere alle pressioni esercitate dal sistema mediatico attualmente dominante.
Dunque, per i democratici, la competizione e la deontologia
giornalistica non sono sufficienti a garantire libertà e completezza di discussione,
diversità e affidabilità. Se i media svolgono una funzione cruciale nella formazione di
una cittadinanza partecipe e informata, e se l'organizzazione dei media influisce sulle
prestazioni dei media stessi, allora tutto ciò che concerne proprietà, regolamentazione
e finanziamenti dev'essere oggetto di pubblica discussione. Ma tale discussione è finora
quasi completamente assente negli Usa. Persino nelle trasmissioni televisive, dove i
canali di trasmissione sono di proprietà dello stato, che li concede in licenza agli
utenti privati, il pubblico non partecipa per nulla o quasi alla formazione della politica
che li governa.
Prendiamo in esame il Telecommunications Act del 1996. La legge che
andava a rimpiazzare, il Communications Act del 1934, regolava la telefonia, la radio e
l'emittenza televisiva. L'Atto del 1996 fornisce le basi per determinare lo sviluppo di
radio, televisione, internet - in pratica tutti gli aspetti della comunicazione anche per
quanto riguarda lo sviluppo delle tecnologie digitali. Il principio che la informa è che
a gestire la comunicazione dovrebbe essere il mercato, con l'assistenza del governo. La
politica immaginata da tale Atto consiste essenzialmente nella battaglia tra le più
potenti compagnie di comunicazione e tra le lobbies da esse gestite, le quali si
combattono dietro le quinte per spuntare le concessioni più favorevoli. Che le grandi
imprese avrebbero assunto il controllo totale delle comunicazioni era un dato di fatto; la
battaglia verteva sui settori e sulle imprese che avrebbero ottenuto i risultati migliori.
Il dibattito e le pressioni che hanno preceduto l'approvazione dell'Atto hanno trovato
pochissimo spazio sui media stessi, fatta eccezione per la stampa specializzata, economica
e commerciale, in cui la nuova legislazione veniva affrontata come una vicenda importante
per gli investitori e i manager, non per i cittadini, neanche in quanto consumatori.

Il risultato del Telecommunications Act, con l'attenuazione delle
restrizioni sugli assetti proprietari, introdotta per promuovere la concorrenza
trasversale tra i diversi settori, è stato poco meno che disastroso. Anziché sollecitare
la concorrenza, concetto impraticabile considerata la concentrazione estrema dei mercati
in questione, la legge ha spianato la strada all'era della massima concentrazione
proprietaria nei media e nella storia dei media e della comunicazione americani. Le sette
"Baby Bells" sono rimaste in quattro - se verrà perfezionato l'acquisto della
Ameritech da parte della SBC Communications - e altre fusioni sono in vista. Nella radio,
dove più che altrove sono state eliminate molte restrizioni, l'intera industria è stata
rivoluzionata, e già 4.000 delle 11.000 stazioni commerciali esistenti sono state vendute
dall'approvazione della legge a oggi. Nei 50 mercati principali, soltanto tre compagne
controllano ora l'accesso a oltre metà dell'audience radiofonica. In 23 di questi
cinquanta mercati, le tre imprese controllano l'80 per cento dell'audience. L'ironia
risiede nel fatto che la radio, relativamente poco costosa da gestire e pertanto
idealmente perfetta per il controllo indipendente e locale, è divenuta forse lo strumento
di comunicazione più concentrato e centralizzato in tutto il paese.
Non c'è dubbio che gli Stati Uniti avessero bisogno di una nuova legge
sulle comunicazioni. Le tecnologie digitali stanno minando alla base le distinzioni
tradizionali tra settori di media e di comunicazione che avevano costituito la base della
precedente regolamentazione del settore. Ma la legislazione che abbiamo ottenuto riflette
il processo fallimentare che l'ha prodotta.
False partenze
Poiché il controllo delle multinazionali e il ruolo della pubblicità
sono di fatto off-limits per la discussione pubblica, i riformatori si sono trovati di
fronte a un numero limitato di opzioni. Hanno perciò deciso di varare delle riforme
"morbide", che non minacciassero l'egemonia delle imprese e degli inserzionisti.
E poiché queste riforme hanno suscitato ben poco entusiasmo nell'opinione pubblica, i
militanti del settore non si sono impegnati gran ché per organizzare un consenso popolare
intorno ai loro sforzi. Né è risultato uno stile di lobbying tutto interno al settore,
tipico di quando gli interessi in gioco sono troppo bassi per interessare il grande
pubblico. Per esempio nel 1997 alcuni attivisti del ramo hanno cantato vittoria quando la
Commissione Federale per le Comunicazioni ha iniziato a esigere che le emittenti
televisive programmassero almeno tre ore settimanali di trasmissioni per bambini a
carattere educativo. Il problema di questa "vittoria" è che anche questi
programmi educativi restano sponsorizzate commercialmente, e il loro controllo ultimo
continua a dipendere dagli interessi commerciali.
Altri riformatori si sono rivolti al giornalismo "civico" o
"di servizio", un tentativo benintenzionato di ridurre il sensazionalismo e la
palese manipolazione politica tipici del giornalismo oggi dominante. Purtroppo il
movimento ha completamente ignorato i fattori strutturali degli assetti proprietari e
dell'inserzionismo pubblicitario, che hanno mosso guerra al giornalismo. Il giornalismo di
servizio è contrario, com'è logico, a un approccio "ideologico" delle notizie,
e incoraggia quindi una gestione delle stesse noiosamente "equilibrata" e
soporifera. Affermando che portare notizie ai lettori è importante per le loro vite, gli
avvocati del giornalismo civico di fatto rischiano di favorire il processo di conversione
del giornalismo in quel genere di notizie e informazioni per i consumatori che fanno la
gioia della comunità degli inserzionisti.
Altri si sono uniti ai movimenti di pressione del settore letterario.
L'idea era in questo caso di educare il pubblico allo scetticismo, trasformandolo in un
utente critico e competente dei media. Insegnare a "leggere" i media ha un
potenziale considerevole se si tratta di spiegare in che modo, effettivamente, funziona il
sistema; così inteso, l'insegnamento spinge la gente a impegnarsi per avere un sistema
migliore. Ma l'ala più convenzionale di questo movimento accetta implicitamente che i
media commerciali "danno alla gente quello che la gente vuole". Perciò lo
sforzo di questi "insegnanti" consiste nell'abituare le persone a chiedere
programmi migliori. La strategia risultante rischia di non fare altro che rafforzare il
sistema esistente. "Ehi, non date la colpa a noi delle schifezze che vi
forniamo", dicono i colossi delle comunicazioni, "Abbiamo addirittura finanziato
un movimento di educazione all'uso dei media per insegnare al pubblico a chiedere prodotti
di migliore qualità. Ma quei cretini non fanno che chiedere quantità sempre maggiori di
quel che trasmettevamo anche prima".
Se l'educazione all'uso dei media può giocare un ruolo importante
nella riforma del sistema, il giornalismo civico può rappresentare al massimo una mezza
benedizione. Alcuni osservatori hanno attribuito al giornalismo di servizio, molto diffuso
nel North Carolina, un ruolo determinante nel favorire la rielezione di Jesse Helms, nel
1996. Perché? Perché questo tipo di giornalismo non era preparato a porre domande
"cattive", né a insistere con i politici per avere delle risposte. Helms si è
trovato quindi la strada spianata dai media, e non ha avuto quasi bisogno di difendere la
sua posizione.
Un fatto è chiaro: se vogliamo un sistema che produca risultati
radicalmente diversi, abbiamo bisogno di soluzioni che affrontino alla radice le cause dei
problemi: che affrontino cioè le questioni degli assetti proprietari, della gestione,
della regolamentazione e dei finanziamenti dei media. Il nostro obiettivo dovrebbe essere
quello di dar vita a un nuovo sistema di media che riduca il potere di una manciata di
gigantesche multinazionali della comunicazione e dei loro inserzionisti sulla cultura
prodotta dai media stessi. Ma nessuno farà pressioni per ottenere una riforma fino a
quando non saremo in grado di presentare delle idee sulle quali valga la pena discutere.
L'asso nella manica della situazione attuale è l'affermazione secondo cui qualsiasi
cambiamento al sistema esistente condurrà inevitabilmente al caos totale. L'obiettivo di
questo articolo è di dimostrare che ci sono invece diverse proposte attuabili per una
riforma del sistema, le quali espanderebbero, anziché limitare, la libertà e
costituirebbero un impulso stimolante per la nostra cultura e la nostra democrazia.
Proposte di riforma
Dar vita a media non-profit e non commerciali. Il punto di partenza per
una riforma dei media deve consistere nella costruzione di un consistente settore di media
riservato a imprese non-profit e non commerciali. Tale settore già esiste negli Stati
Uniti, e genera prodotti assai validi, ma è spaventosamente piccolo e scarsamente
finanziato. Il suo sviluppo può essere favorito anche senza modificare le leggi e i
regolamenti attualmente in vigore. Per esempio, le fondazioni e le organizzazioni di
lavoratori potrebbero e dovrebbero contribuire molto di più alla crescita di media
non-profit e non commerciali. In particolare i rappresentanti dei lavoratori dovrebbero
essere disponibili a sostenere radio, televisioni, siti internet e stampa. Soprattutto, i
sindacati non devono e non possono cercare di gestire surrettiziamente tali media per
trasformarli in strumenti delle loro pubbliche relazioni. Perché si possano affermare dei
media indipendenti è necessario che la loro integrità editoriale sia assoluta.
Anche politiche governative sensibili al problema potrebbero aiutare a
far crescere un settore non-profit nel mondo della comunicazione, e la riforma del sistema
dei media dovrebbe lavorare con questo obiettivo. I finanziamenti e le politiche del
governo hanno giocato un ruolo chiave nell'affermazione dei media commercialmente
lucrativi. Fin dal diciannovesimo secolo, per esempio, gli Stati Uniti hanno fatto in modo
da garantire una stampa di buona qualità e di rapida diffusione postale a prezzi
relativamente bassi. Potremmo estendere lo stesso principio riducendo le spese postali per
una più vasta gamma di media non-profit e/o per quei mezzi di comunicazione che hanno
poca o nessuna pubblicità. Si potrebbero anche consentire deduzioni o detrazioni fiscali
per chi contribuisca economicamente a un media non-profit. Dean Baker, dell'Economy Policy
Institute ha sviluppato un progetto che consentirebbe ai contribuenti che effettuano una
donazione a un nuovo strumento di comunicazione non-profit di risparmiare fino a 150
dollari di imposte federali. Questo consentirebbe a quasi tutti gli americani - non solo a
quelli che possono disporre di un reddito ragguardevole - di contribuire al settore e alla
creazione di un'alternativa al sistema dominato da Wall Street e Madison Avenue.
Public Broadcasting. La creazione di un forte settore non-profit che
possa completare l'offerta dei colossi commerciali non è sufficiente. I costi per creare
un sistema di media più democratico sono, semplicemente, troppo alti. È quindi
importante creare e mantenere un sistema non commerciale, non-profit, di servizio pubblico
radiofonico e televisivo. Tale sistema dovrebbe prevedere reti nazionali, stazioni locali,
trasmissioni televisive in chiaro e stazioni radio gestite da comunità indipendenti. Ogni
comunità dovrebbe anche poter accedere a frequenze televisive locali e a stazioni radio
locali. Gli Stati Uniti non hanno mai conosciuto l'emittenza pubblica presente per esempio
in Giappone, in Canada e in Europa Occidentale. A differenza di quanto accade da noi, il
servizio pubblico in questi paesi è solidamente finanziato e gestito in modo da servire
l'intera popolazione.
Negli Stati Uniti invece i finanziamenti per il servizio pubblico sono
sempre stati scarsissimi e concessi unicamente per la produzione di programmi
assolutamente non commerciabili. Il risultato è che il servizio pubblico fornisce in
genere programmi pochissimo attraenti, riservati a un pubblico di nicchia, il che non
rappresenta certo una strategia vincente per conseguire un grosso successo istituzionale.
Per di più il Congresso ha fatto il cane da guardia per controllare che l'emittenza
pubblica non ampliasse il dibattito ideologico oltre i confini stabiliti dall'emittenza
commerciale. In sintesi, l'emittenza pubblica negli Stati Uniti è sempre stata
ammanettata, fin dalla sua fondazione. Eppure è riuscita ugualmente a costruirsi un
seguito di devoti. Questi fedelissimi sono riusciti a trovare un sostegno politico e a far
sentire la loro voce, tanto da aver saputo impedire che l'emittenza pubblica americana
fosse totalmente privatizzata, ma le loro energie si sono ormai ridotte al lumicino. Radio
e televisione pubblica sono sempre più dipendenti dalle grandi multinazionali e dall'
"enhanced underwriting", un eufemismo per le inserzioni pubblicitarie. Il
finanziamento pubblico copre soltanto il 15 per cento delle entrate. Anzi, l'emittenza
pubblica come viene normalmente definita in tutto il mondo di fatto non esiste più negli
Usa. Quel che abbiamo è piuttosto un'emittenza commerciale non-profit, strettamente
legata alla grande industria e sotto la costante minaccia di incorrere nelle ire della
destra se le sue trasmissioni escono dal seminato.
Abbiamo bisogno di un sistema di servizio pubblico vero e proprio, che
non accetti diktat dall'industria o da organismi privati e che serva l'intera popolazione,
non solo quelli che detestano il sistema commerciale dominante. Due ostacoli si
frappongono alla realizzazione di questo sistema. Il primo di tipo organizzativo: in che
modo si dovrebbe strutturare il servizio per far sì che esso sia affidabile, che la
burocrazia non lo renda troppo indigesto per il gusto popolare e perché abbia allo stesso
tempo un potere istituzionale sufficiente ad impedire tentativi censori, impliciti ed
espliciti, da parte delle autorità politiche? Il secondo ostacolo è di natura fiscale:
dove prendere i fondi necessari a pagare un servizio di emittenza pubblica affidabile?
Oggi il governo federale spende a questo scopo 260 milioni di dollari l'anno. Il sistema
pubblico che sto immaginando - con una spesa pro capite equivalente a quella, per esempio,
di Gran Bretagna e Giappone - può arrivare a costare dai 5 ai 10 miliardi l'anno.
Non c'è alcun modo di risolvere il primo problema, quello
organizzativo: probabilmente una soluzione ideale non esiste. Ma ci sono sistemi migliori
di quello in vigore, come dimostrano tutte le ricerche comparative. Un elemento chiave per
prevenire la mummificazione burocratica o le ingerenze del governo è quello di dar vita a
un sistema pluralistico, con reti nazionali, stazioni locali, "programmi
dell'accesso" gestibili dal pubblico in generale e dalle comunità organizzate. Il
tutto con un sistema di controllo indipendente. In alcuni casi potrà essere utile far
eleggere alcuni funzionari direttamente dal pubblico o dai dipendenti del servizio stesso,
in altri potrebbe essere preferibile la designazione ad opera di organismi politici
elettivi già esistenti. Quanto ai finanziamenti, non ho alcuno scrupolo all'idea di
stornare il denaro necessario per dar vita a un sistema di radio e televisione veramente
pubblico dall'erario generale.
C'è una sorta di ossessione quasi assurda nel cercare di prelevare i
soldi destinati all'emittenza pubblica ovunque tranne che nel bilancio generale, in base
alla premessa tutt'altro che assiomatica che l'emittenza pubblica non potrebbe essere
giustificata come spesa di interesse pubblico. Considerando l'importanza, nelle nostre
vite, della radio e della televisione, direi che merita decisamente una piccola porzione
di quel denaro che usiamo per accumulare armamenti assolutamente non necessari.
Sovvenzioniamo l'educazione, ma il governo oggi sovvenziona i media unicamente per conto
dei proprietari. Dovremmo cercare di poter accedere a una fonte stabile di finanziamenti,
che non possa essere soggetta a manipolazioni da parte di quei politici a cui non sta
troppo a cuore l'integrità del sistema.
Un sistema pubblico di emittenza radiotelevisiva sufficientemente forte
potrebbe generare effetti profondi sull'intera cultura dei media americani. Potrebbe
riaprire la via a quel genere di giornalismo di servizio ridotto in fin di vita dal
commercialismo sfrenato. Ciò potrebbe a sua volta fornire al giornalismo commerciale
l'energia necessaria per svolgere quelle inchieste scomode che oggi evita. E un effetto
similare potrebbe produrlo sulla nostra cultura dell'intrattenimento. Un servizio
televisivo pubblico ben fatto potrebbe sostenere una quantità di piccoli produttori
cinematografici indipendenti. Potrebbe fare miracoli per ridurre l'incidenza, sulle
campagne politiche ed elettorali, di costosissime campagne pubblicitarie. È essenziale
per garantire le voci diverse e l'ampiezza del dibattito che sono il cuore stesso della
sfera pubblica democratica.
Regolamentazione. Un terzo elemento basilare è l'incremento di regole
e controlli per l'emittenza commerciale di interesse pubblico. I riformatori del settore
sono impegnati da tempo su questo terreno, se non altro perché la proprietà pubblica
delle frequenze conferisce al pubblico, attraverso la FCC (Federal Communication
Commission) un chiaro diritto legare a negoziare i termini di concessione con i pochi
soggetti che riescono ad ottenere le licenze d'uso. Tuttavia anche questa forma di
attivismo è finora risultata di entità trascurabile, e la regolamentazione in materia ha
avuto le armi spuntate, tanto che i desiderata delle multinazionali e degli inserzionisti
più potenti ben di rado sono stati messi in discussione.
L'esperienza americana e di altri paesi dimostra che i produttori
commerciali, se non sono tenuti a mantenere elevati standard di servizio pubblico, tendono
a ricercare i profitti più facili facendo ricorso al commercialismo più bieco, fino a
rovesciare a loro vantaggio la bilancia culturale del settore. L'esperimento più riuscito
di sistema misto, commerciale e pubblico, di emittenza televisivo è stato realizzato in
Gran Bretagna, nel periodo che va dagli anni cinquanta agli ottanta. È riuscito perché
l'emittenza privata era tenuta a rispettare gli stessi standard di servizio pubblico della
BBC; parecchi osservatori sostengono anzi che il sistema commerciale faceva programmi
addirittura migliori di quelli pubblici, dal punto di vista della funzione di servizio. Il
sistema britannico ha funzionato perché i produttori televisivi rischiavano di perdere la
concessione se non rispettavano i criteri stabiliti. (Purtroppo il Thatcherismo, con la
sua fissazione secondo cui il mercato non sbaglia mai, ha profondamente indebolito
l'integrità del sistema in questione).

Ci sono tre settori specifici nei quali una severa regolamentazione
della programmazione può essere di importanza vitale. In primo luogo, si dovrebbe
regolamentare strettamente o addirittura eliminare la pubblicità dalla programmazione
destinata ai bambini (come accade in Svezia). Dobbiamo cercare di arginare il
bombardamento a tappeto della pubblicità sui nostri figli. Le emittenti private
dovrebbero assicurare un certo numero di ore settimanali di programmazione destinata
all'infanzia, libera dagli spot e prodotta da artisti ed educatori, non dai tycoon di
Madison Avenue.
In secondo luogo, i notiziari televisivi dovrebbero essere sottratti
alla dittatura delle multinazionali e degli inserzionisti e restituiti ai giornalisti. In
che modo organizzare concretamente questi due generi di programmazione nelle televisioni
commerciali, in modo che siano controllati da educatori, artisti e giornalisti, è un
problema che richiede un grande impegno di studio e di discussione. Ma dovremmo essere in
grado di escogitare dei meccanismi in grado di funzionare.
Quanto ai finanziamenti di queste programmazioni di servizio pubblico,
mi associo all'idea che esse dovrebbero essere sovvenzionate dai beneficiari della
comunicazione commerciale. Questo principio potrebbe venire applicato in molti modi
diversi. Potremmo far pagare un affitto agli imprenditori televisivi per l'uso dello
spettro elettromagnetico di cui si servono per trasmettere. Oppure imporre una tassa
specifica sulla vendita di stazioni televisive a scopo di lucro. Questi due meccanismi
insieme porterebbero un gettito di oltre un miliardo di dollari l'anno. O ancora, si
potrebbe tassare la pubblicità. Nel 1998 negli Stati Uniti sono stati spesi circa 200
miliardi per la pubblicità, 120 dei quali sono stati destinati ai mezzi di comunicazione
di massa. Un'imposta anche di importo esiguo, magari soltanto sulla vendita degli spot
alle radio e alle televisioni, potrebbe portare all'erario diversi miliardi di dollari. E
potrebbe anche comportare un effetto salutare per la società americana, riducendo
l'invasione della pubblicità nelle nostre vite. Non ci sembra che sia chiedere troppo
agli inserzionisti, i quali del resto se la cavano a buon mercato per quanto riguarda gran
parte della commercializzazione dell'etere di proprietà pubblica.
In terzo luogo, la programmazione televisiva dovrebbe riservare ai
candidati politici un considerevole spazio gratuito durante le campagne elettorali; le
inserzioni a pagamento dovrebbero inoltre essere o rigidamente regolamentate o eliminate
del tutto, dal momento che i costi esorbitanti di questo tipo di spot (per non parlare del
loro contenuto) hanno praticamente distrutto l'integrità della nostra democrazia. Se non
possono essere proibiti e nemmeno forzatamente ridotti, forse si potrebbe almeno prevedere
che, ogni qualvolta un candidato acquista uno spazio pubblicitario televisivo, sia
concesso ai suoi avversari uno spazio gratuito della stessa durata, da trasmettere
immediatamente dopo quello pagato. Questo impedirebbe ai candidati più ricchi di
comprarsi di fatto le elezioni. Immagino che una simile clausola eliminerebbe del tutto la
pratica corrente.
Anche in questi tempi pro-mercato, i colossi della comunicazione non
sono riusciti a sradicare nell'opinione pubblica l'idea che le emittenti commerciali siano
al servizio del pubblico oltre che degli azionisti e degli inserzionisti. Per questo,
quando le televisioni commerciali sono riuscite, nel 1997, a costringere la Commissione
per le comunicazioni concedere loro gratuitamente il massimo spazio nel nuovo spettro per
avviare le trasmissioni della tv digitale, l'amministrazione Clinton ha dato vita alla
cosiddetta Commissione Gore, per verificare che i produttori rispettassero i requisiti del
servizio pubblico in cambio del regalo ricevuto. In perfetta corrispondenza con tutta la
politica relativa ai mass media in America, la Commissione Gore ha praticamente perso la
faccia quando i rappresentanti del mondo industriale hanno iniziato a mettere il veto su
tutte le proposte, tranne le più permissive. Possiamo tuttavia ancora sperare che la
Commissione possa produrre qualche proposta più seria riguardo al servizio pubblico, e
che getti le basi per una campagna educativa pubblica che aiuti a conferire a tali
proposte la forza di legge.
Anti-trust. La quarta strategia per la realizzazione di un sistema più
democratico è quella di dividere le imprese più gigantesche garantendo un mercato più
competitivo e trasferendo un maggior potere di controllo dalle multinazionali
dell'informazione ai cittadini utenti. Gli attuali regolamenti anti-trust non sono
assolutamente soddisfacenti, da nessun punto di vista. Se vogliamo applicare i principi
dell'anti-trust ai media è indispensabile un nuovo statuto, simile nei toni ai Clayton
and Sherman Acts, che stabiliscono i valori generali che devono informare gli atti del
Dipartimento della Giustizia e della Federal Trade Commission. L'obiettivo dovrebbe essere
quello di suddividere complessi sinergici enormi come quello della Time Warner, della News
Corporation o della Disney, di mano che le attività di editoria libraria, editoria
periodica, produzione di spettacoli televisivi, produzione cinematografica, emittenti e
reti televisive, parchi di divertimenti, catene di negozi, canali tv via cavo, sistemi di
tv via cavo eccetera divengano ciascuna un'impresa separata. Questo ridurrebbe le barriere
che si trova di fronte chi cerca di entrare in uno di questi mercati, consentendo nuovi
ingressi.
I giganti dei media affermano che il loro potere sul mercato e la
strategia delle sinergie li rende più efficienti e pertanto consente loro di fornire un
prodotto migliore a un prezzo più basso. Non ci sono grandi prove a conforto di questa
tesi; è evidente invece che il potere nel mercato e le sinergie rendono le imprese molto,
molto più redditizie. Ma anche ammesso che l'anti-trust comporti un modello economico
meno efficiente, forse è un prezzo che dobbiamo essere pronti a pagare per consentire
l'affermarsi di un mercato più aperto e concorrenziale. Considerata l'importanza dei mass
media per la politica e la cultura democratiche contemporanee, non dovremmo valutarsi
esclusivamente secondo criteri prettamente commerciali.
L'anti-trust è l'asso nella manica della piattaforma per una riforma
dei media. L'opinione pubblica è estremamente favorevole alle misure anti-concentrazione,
e di solito è la prima idea suggerita dai cittadini quando viene loro chiesto di
riflettere sullo scenario attuale. Quel che è meno chiaro, è se una legislazione in
questo senso abbia qualche speranza di essere attuata concretamente. E anche se si
dimostrasse efficace, il sistema continuerebbe a rimanere fondamentalmente commerciale,
anche se più aperto alla concorrenza. Non ridurrebbe, in altre parole, la necessità di
attuare le prime tre proposte.
Non preoccuparsi?
I difetti fondamentali del sistema in vigore nel settore dei media
commerciali, dominato dalle grandi imprese, sono riconosciuti quasi da tutti. Stiamo però
purtroppo assistendo a una corsa alla rassicurazione, perché Internet metterà fine ai
nostri timori. Poiché la rete è aperta a tutti, a costi relativamente bassi, l'egemonia
dei colossi dell'informazione e della pubblicità ha le ore contate. Al suo posto sorgerà
una cultura mediatica aperta, decentralizzata, varia, in rapida evoluzione e competitiva.
E soprattutto il risultato promesso è già implicito nella stessa tecnologia digitale di
Internet, e non c'è alcun bisogno di una specifica regolamentazione governativa. Anzi, è
opinione comune - considerevolmente rafforzata dalla politica dell'Amministrazione Clinton
al riguardo - che solo un intervento regolamentatore del governo potrebbe impedire a
Internet di compiere la sua magia.
Benché Internet e la comunicazione digitale in genere stiano
apportando cambiamenti radicali nel nostro sistema di media e di comunicazione, il
risultato da esse generato potrebbe non essere un mercato più competitivo o lo sviluppo
di media più democratici. Anzi, l'evidenza dei dati suggerisce che, poiché Internet sta
diventando uno strumento sempre più commerciale, è sempre più probabile che siano le
grandi imprese operanti nel settore delle comunicazioni a conseguire i risultati migliori.
Con un minimo costo aggiuntivo, i colossi dell'informazione possono immettere nel Web una
programmazione digitale che va ad incrementare le altre loro attività. Per incrementare
il pubblico dei loro utenti, possono servirsi degli strumenti tradizionali che già
possiedono per reclamizzare i loro siti. I principali "marchi" della
comunicazione di massa sono stati anche i primi a far pagare un abbonamento per accedere
ai servizi offerti sul Web; anzi, sono probabilmente le uniche imprese che avrebbero
un'alternativa valida.
I colossi dei media possono fare in modo (e lo fanno) che gli
inserzionisti tradizionali acquistino spazi sui loro siti. Possono anche servirsi del loro
potere di mercato e dei loro marchi già affermati per conquistare posizioni di rilievo
nel settore dei browser per il Web. La versione 4.0 di Internet Explorer, il marchio della
Microsoft, offre 250 canali già pre-collegati, e le posizioni in maggior evidenza sono
quelle di Disney e di Time Warner. Netscape e Pointcast stanno concludendo accordi simili.
Per di più circa la metà del capitale investito nelle aziende che producono contenuti e
software per Internet proviene da imprese già affermate nel settore della comunicazione,
le quali cercano di capitalizzare sulle nuove applicazioni che appaiono più redditizie,
non appena queste emergono. In più i dati esistenti stanno a indicare che nel Web
commercializzato l'ingerenza sui contenuti da parte degli inserzionisti, che hanno a
disposizione una vastissima scelta, si farà ancora più pesante.
Se mettiamo insieme tutte queste considerazioni sul mercato, è
difficile immaginare la crescita di un mercato competitivo nel settore dei media digitali,
in cui i fornitori medio-piccoli riusciranno ad avere la meglio sui colossi già
affermati. La comunicazione digitale genererà cambiamenti notevoli, ma nessuna
rivoluzione. E alla fine il contenuto della comunicazione nel mondo digitale apparirà del
tutto simile ai contenuti presenti nel mondo pre-digitale.
Ironicamente, l'elemento che più colpisce nelle nuove tecnologie non
è probabilmente il fatto che abbia scatenato la concorrenza nel mercato delle
comunicazioni, ma che abbia ulteriormente favorito le fusioni sinergiche annullando le
tradizionali distinzioni tra radio, televisione, telecomunicazioni e software per
computer. Negli anni novanta quasi tutte le principali multinazionali dei media hanno
stretto alleanze strategiche o joint-ventures con le principali imprese di
telecomunicazioni e di software. La Warner è legata a molti dei principali operatori
telefonici regionali (Bell), alla AT&T e ad Oracle ed è entrata in una importante
joint-venture con la US West. Parimenti la Disney è legata a diverse importanti compagnie
americane di telecomunicazioni, oltre che ad America Online. Nella proprietà di News
Corp. c'è un'importante partecipazione di WorldCom (MCI), e la stessa impresa ha varato
una joint-venture con British Telecom. La Microsoft, come ha osservato un esperto, sembra
andare a letto con tutti. A tempo debito il cartello mondiale dei media potrebbe finire
per assomigliare a un cartello globale della comunicazione.
In che misura allora l'ascesa di Internet può modificare le mie
proposte per una riforma strutturale dei media. Quasi per nulla. Vi sono naturalmente, per
quanto riguarda questo nuovo strumento, alcune specifiche riforme politiche che vale la
pena perseguire: per esempio, garantire un accesso pubblico universale a prezzi
bassissimi, anzi possibilmente gratis, e imporre ai principali browser e ai siti
commerciali di inserire nel pacchetto dei link a siti non-profit. In termini generali
faremmo comunque meglio a considerare Internet nello stesso modo in cui la considerano i
colossi dei media: una parte, non la totalità, del panorama mediatico che va emergendo.
Pertanto quando cerchiamo di dar vita a un numero maggiore di imprese più piccole, quando
parliamo ci creare reti e stazioni radiotelevisive pubbliche e accessibili alle comunità,
quando pensiamo a una forte componente di servizio pubblico nella programmazione di
notiziari e di trasmissioni per i bambini all'interno della tv commerciale, quando
cerchiamo di sfruttare le politiche governative per far crescere un settore non-profit nei
media, tutti questi sforzi avranno un impatto fortissimo anche sullo sviluppo di Internet
in quanto mass medium. Perché? Perché i siti Web perderanno gran parte del loro valore
se non trovano le risorse per fornire prodotti di qualità. E tutti i nuovi media che
deriverebbero dalle riforme da noi proposte dovranno necessariamente avere dei siti Web,
esattamente come i media commerciali. Dando vita a una cultura più vibrante e più
democratica, avremo già fatto un bel pezzo di strada anche nei riguardi del Web.
Conclusioni
Immaginiamo un mondo in cui decine, o forse centinaia, di imprese del
settore operano nei diversi mercati della comunicazione; mercati abbastanza competitivi da
consentire l'ingresso a nuovi operatori. Immaginiamo un mondo con un gran numero di reti e
stazioni radiotelevisive di proprietà statale, gestite dalla comunità o che consentono
l'accesso al pubblico, con sovvenzioni sufficienti a consentire la produzione di prodotti
di qualità. Immaginiamo un mondo in cui le frequenze pubbliche promuovono un giornalismo
battagliero, programmi adatti ai bambini, informazioni sui candidati alle elezioni
politiche, il cui controllo è nelle mani di personalità che si dedicano interamente al
servizio pubblico. Immaginiamo un mondo in cui una politica fiscale creativa mette i media
non-profit e non commerciali in condizione di nascere e prosperare, dando vita a qualcosa
di assai simile a una sfera di dibattito pubblico.
Per quanto possiamo immaginarlo, un mondo siffatto ci appare alquanto
implausibile - e non soltanto a causa della potenza politica esercitata dalle
multinazionali della comunicazione e dalle loro lobbies. Nella scorsa generazione i
neoliberali fautori del "libero mercato" hanno compreso meglio di chiunque altro
l'importanza dei media come strumento di controllo sociale. Le fondazioni conservatrici
più importanti hanno dedicato notevoli risorse alla riduzione dell'autonomia del
giornalismo e all'attenuazione delle diversità ideologiche, spingendo i media in una
direzione più esplicitamente "pro-business". La destra politica ha compreso
perfettamente che se le grandi imprese dominano i principali luoghi deputati
all'educazione e al dibattito, il controllo pubblico sui loro affari si riduce
cospicuamente. I medesimi gruppi fautori del "libero mercato" hanno combattuto
tutti gli elementi di interesse pubblico che si sia tentato di introdurre nelle leggi e
nei regolamenti del settore, opponendosi a qualunque forma di media non commerciali e
non-profit e mettendosi alla testa di una crociata per garantire che l'emittenza pubblica
rimanessi all'interno di rigidi e angusti confini ideologici. Insomma, nell'ultima
generazione abbiamo assistito a un'importante battaglia politica sul terreno dei media, ma
soltanto uno dei combattenti ne è uscito vivo. I risultati sono chiari, e spaventosi.
Oggi però emergono segnali di battaglia sul controllo dei nostri
media. Organizzazioni come la Fairness & Accuracy Reporting (Fair), un osservatorio
sui media, sono esplose negli anni novanta e gruppi militanti di controllo sui mezzi di
comunicazione locali sono spuntati un po' ovunque a Denver, New York, Chicago, Los
Angeles, Seattle e in tutto il paese a partire dal 1995. Nel 1998 la coalizione
Rainbow/PUSH ha fatto della riforma del settore uno degli obiettivi principali della sua
organizzazione, promuovendo convegni regionali in tutta la nazione. I membri del
Congressional Black Caucus e del Congressional Progressive Caucus hanno stabilito di
avanzare e sostenere proposte di leggi in ciascuna delle aree menzionate sopra. Molte
organizzazioni di lavoratori, soprattutto i sindacati del settore, mostrano un interesse
crescente nei confronti del problema. Tutto questo sarebbe stato impossibile solo cinque
anni fa. È un atteggiamento che si inserisce in una tendenza mondiale, affermatasi nella
seconda metà degli anni novanta quando la riforma dei media è divenuta un obiettivo
imprescindibile dei movimenti politici democratici.
Ma la strada è ancora lunga. Ampi settori della popolazione, che sono
fortemente danneggiati dallo status quo e che pertanto dovrebbero essere tra i più
strenui avvocati di tale riforma - educatori, librai, genitori, giornalisti, piccoli
imprenditori, ambientalisti - sono ben poco consapevoli addirittura dell'esistenza stessa
del problema, tanto meno del dibattito in corso. La lobby dei colossi dell'informazione è
talmente potente che la loro vittoria, allo stato attuale delle cose, appare scontata,
soprattutto dal momento che gli organi d'informazione gestiti dalle grandi multinazionali
mostrano scarsissimo interesse a pubblicizzare l'argomento.
Conseguire un'autentica riforma del settore richiederà quindi quel
genere di forza politica che può venire solo da un ampio movimento sociale per la
democratizzazione della nostra società. Dobbiamo imparare a considerare la riforma in
questione come una parte integrante di qualunque politica progressista, non una causa che
interessa soltanto gli specialisti. E la riforma dei media può avere una vasta risonanza
politica. Alcuni "conservatori culturale" possono essere sensibili all'invito a
ridurre l'ipercommercializzazione della nostra cultura mediatica. E anche i democratici
più favorevoli al mercato possono riconoscere che quella dei media è un'area in cui
l'applicazione pura e semplice dei principi commerciali ha prodotto corollari disastrosi.
In sintesi, il treno della riforma è pronto per uscire dalla stazione. Se abbiamo a cuore
la democrazia, non ci resta che salire in carrozza.