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Se non è pubblica, che televisione è

Robert McChesney

 

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Il sistema americano dei media sta sfuggendo a ogni controllo, preso in una frenetica follia di ipercommercializzazione. Meno di dieci grandi compagnie transnazionali controllano la maggior parte dei nostri media; meno di due dozzine gestiscono la stragrande maggioranza dei nostri quotidiani, riviste, film, televisioni, radio e libri. Ora che ogni singolo aspetto della nostra cultura informativa è facile preda dello sfruttamento commerciale, possiamo attenderci una commercializzazione su vasta scala degli sport, delle arti e dell'educazione, la scomparsa di concetti quali pubblico servizio e dibattito pubblico, e infine - sotto una pressione commerciale sempre più pesante, la degenerazione del giornalismo, dell'informazione politica e della programmazione destinata ai bambini.

Per i democratici, questa concentrazione del potere mediatico e la conseguente commercializzazione del discorso pubblico rappresenta un evento disastroso. Una cittadinanza informata e partecipe dipende dai media, che svolgono una funzione di servizio pubblico. Come ebbe una volta a dichiarare James Madison, "un governo popolare senza informazione popolare o senza gli strumenti per raggiungerla, non è che il prologo di una farsa o di una tragedia, probabilmente di entrambe". Ma queste funzioni democratiche non sono più alla portata dell'attuale sistema dei media americano. Se vogliamo parlare seriamente di democrazia, dobbiamo dunque attivarci con decisione per riformare il sistema. Di che sorta di riforme abbiamo bisogno. In poche parole, dobbiamo ridurre l'attuale livello di concentrazione dei media, e, cosa ancora più urgente, limitarne gli effetti sul processo democratico. Detto in termini più specifici, sono necessari incentivi specifici per le imprese non-profit, regolamentazioni più estese, un servizio televisivo pubblico e una buona legislazione anti-trust. Le proposte che presento vogliono essere uno spunto per un dibattito sulla riforma dei media, non pretendono di rappresentare la soluzione definitiva. Sono certo che una discussione aperta e vivace non potrà che migliorarle: la mia preoccupazione immediata è soltanto quella di avviare un dibattito in proposito. Non mi soffermerò ora sulle debolezze dell'attuale sistema mediatico americano, limitandomi a riassumere le osservazioni fatte da me (e da molti altri) in precedenti occasioni. Il punto cruciale è piuttosto di rispondere alla più naturale risposta a tali critiche: "Se lo status quo è tanto male, che cos'avete voi da proporre di meglio?"

 

 Media e Democrazia

Le argomentazioni in favore di una riforma dei media si basano su due osservazioni. Primo, i media svolgono una funzione politica, sociale, economica e culturale essenziale alle democrazie moderne. In tali società i media sono la fonte principale dell'informazione politica, lo strumento per accedere al dibattito pubblico e la chiave per una cittadinanza informata, partecipe e capace di auto-governarsi. La democrazia ha bisogno di un sistema di media che fornisca alla gente una gamma la più ampia possibile di opinioni, analisi e dibattiti sui temi più importanti, che rifletta le differenze tra i cittadini e vegli sull'affidabilità di chi il potere ha raggiunto e di chi vorrebbe raggiungerlo. In sintesi, in democrazia i media devono dar voce ai dibattiti in corso e alle diversità, e verificare l'affidabilità delle istituzioni.

Secondo, i modelli organizzativi nelle proprietà degli strumenti di comunicazione, nella loro gestione e regolamentazione e nei loro finanziamenti determinano in modo cruciale il contenuto dei media stessi. Questa affermazione ci è familiare dopo le discussioni sui media in Cina e nell'ex Unione Sovietica. Per tali paesi, l'idea che i media potessero promuovere dibattiti, diversità e affidabilità pur essendo di fatto posseduti e controllati dal Partito Comunista era talmente evidente che non valeva nemmeno la pena tentare di negarla. Allo stesso modo, non sorprende sapere che quando gli oligarchi del governo messicano possedevano la sola emittente televisiva del paese, la copertura delle notizie avveniva in una luce sempre favorevole al partito al governo.

Negli Stati Uniti, per contro, le analisi degli effetti sui contenuti dei media implicati dalla proprietà privata e dall'inserzionismo pubblicitario non sono mai state particolarmente estese o approfondite. Per gran parte della seconda metà di questo secolo, gli americani si sono sentiti dire che non c'è ragione di preoccuparsi per le proprietà multinazionali dei media o per la loro dipendenza dagli inserzionisti pubblicitari, perché la competizione sul mercato costringe i media commerciali a "dare alla gente quello che vuole", e la professionalità dei giornalisti protegge le notizie dai condizionamenti imposti da proprietari e inserzionisti, nonché dai giornalisti medesimi.

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Questi punti di vista oggi ci appaiono molto dubbi. Consideriamo innanzitutto i cosiddetti benefici della concorrenza. Gran parte dei mercati dei media - film, tv, riviste, musica, libri, tv via cavo, giornali - sono oligopoli o semi-monopoli, con severe barriere per chi cerca di entrarvi. Per di più l'economia dei media rende praticamente impossibile a un'impresa di limitare il proprio dominio a un unico settore. A causa delle opportunità che si presentano a chi detiene proprietà diverse in diversi settori del mercato, le compagnie più importanti si sono tutte affrettate, nell'ultimo decennio, a instaurare sinergie e compartecipazioni. La Time Warner, per esempio, e uno dei cinque principali operatori degli Stati Uniti, e forse del mondo, nel campo della produzione cinematografica, televisiva, dei canali e dei sistemi per la tv via cavo, della proprietà di sale cinematografica, dell'editoria libraria, della musica e dei periodici. Possiede, inoltre, parchi di divertimenti, negozi e squadre professionistiche di diversi sport. Anche la Disney sembra padroneggiare perfettamente la stessa logica: i suoi film a cartoni animati Pocahontas e Il gobbo di Notre-Dame hanno avuto un successo solo marginale al botteghino, con circa 100 milioni di dollari di incasso negli Stati Uniti, ma entrambi hanno generato qualcosa come 500 milioni di profitti per la Disney, derivanti da tutti i prodotti collaterali ad essi collegati: spettacoli televisivi trasmessi dal network ABC, di proprietà Disney, e sui canali via cavo, nuovi "mondi" nei parchi divertimenti, fumetti, CD-Rom, Cd musicali e merchandising (venduto negli oltre 600 negozi Disney). Le imprese che non possono disporre di simili strumenti non riescono a competere sul mercato: per questo l'animazione è territorio esclusivo dei colossi dei media. Si tratta di un esempio estremo, ma che ben evidenzia il principio fondamentale.

Queste osservazioni sulle sinergie comunque non bastano ancora a spiegare quanto poco competitivo il mercato sia in realtà - se per "competitivo" adottiamo la definizione che ne danno i manuali di economia. Le imprese che operano in settori specifici si fanno certamente concorrenza, spesso in modo feroce. Ma le stesse aziende sono anche i migliori clienti le une delle altre, ad esempio quando uno studio cinematografico vende il suo prodotto perché sia presentato a un canale televisivo via cavo. Per di più, nel tentativo di ridurre rischi e concorrenza, nell'ultimo decennio le principali compagnie hanno avviato "equity joint ventures", accordi tramite i quali i colossi dei media si dividono la proprietà di un particolare progetto mediatico. I proprietari di Fox Sport Net sono la News Corporation di Rupert Murdoch e la TCI di John Malone; La Comedy Central, canale televisivo via cavo, è di proprietà della Time Warner e della Viacom. Murdoch ha spiegato la logica delle joint ventures come solo lui sa fare: "Possiamo unire le nostre forze subito, oppure possiamo tentare di ammazzarci a vicenda per poi unire le nostre forze".

Le prime nove compagnie americane che operano nel settore dei media hanno sottoscritto, in media, joint ventures con circa sei dei rimanenti otto colossi. La News Corp di Murdoch può contare su almeno un'operazione di questo genere con tutti e otto. In questo mercato non competitivo, l'affermazione che le imprese mediatiche "danno alla gente quello che essa vuole" non convince affatto. Queste aziende hanno un potere di mercato sufficiente a dettare i contenuti che ritengono più convenienti per loro. E la via più semplice al profitto deriva dall'incrementare la commercializzazione - un maggior numero di inserzioni pubblicitarie, più spazio agli inserzionisti rispetto a quello concesso ai contenuti, una programmazione che conduca e promuova il merchandising, e ogni sorta di promozioni incrociate con imprese di altro tipo. I consumatori forse non desiderano questo ipercommercialismo, ma hanno ben poca voce in capitolo. Così nel decennio trascorso si è registrato un aumento del 50 per cento nel numero di spot pubblicitari sulle reti televisive; negli anni novanta abbiamo assistito allo sviluppo di una programmazione destinata all'infanzia zeppa di spot e di inserzioni, al punto che i programmi per i bambini sono probabilmente il settore più redditizio e in maggiore crescita dell'intera industria televisiva; e anche la produzione cinematografica si sta adeguando. L'altra faccia del commercialismo sfrenato è il declino del servizio pubblico, o meglio dell'idea che i nostri media possano avere un'altra finalità che non sia quella di produrre denaro da distribuire tra gli azionisti.

In queste condizioni non ci si può illudere che le norme giornalistiche riescano a viaggiare controcorrente. Il giornalismo commerciale odierno è essenzialmente una miscela di cronaca nera, profili e interviste con le celebrità di turno, notizie per i consumatori rivolte alle classi medio-alte e comunicati stampa rimaneggiati. Le librerie sono zeppe di sconsolate memorie di ex editori, direttori e giornalisti che rimpiangono i bei tempi andati del giornalismo coraggioso. I sindacati dei giornalisti svolgono un ruolo molto importante, proteggendo la deontologia professionale dagli interessi commerciali degli editori. Ma senza altre misure in grado di limitare il potere delle multinazionali dei media, ben difficilmente i sindacati riusciranno a resistere alle pressioni esercitate dal sistema mediatico attualmente dominante.

Dunque, per i democratici, la competizione e la deontologia giornalistica non sono sufficienti a garantire libertà e completezza di discussione, diversità e affidabilità. Se i media svolgono una funzione cruciale nella formazione di una cittadinanza partecipe e informata, e se l'organizzazione dei media influisce sulle prestazioni dei media stessi, allora tutto ciò che concerne proprietà, regolamentazione e finanziamenti dev'essere oggetto di pubblica discussione. Ma tale discussione è finora quasi completamente assente negli Usa. Persino nelle trasmissioni televisive, dove i canali di trasmissione sono di proprietà dello stato, che li concede in licenza agli utenti privati, il pubblico non partecipa per nulla o quasi alla formazione della politica che li governa.

Prendiamo in esame il Telecommunications Act del 1996. La legge che andava a rimpiazzare, il Communications Act del 1934, regolava la telefonia, la radio e l'emittenza televisiva. L'Atto del 1996 fornisce le basi per determinare lo sviluppo di radio, televisione, internet - in pratica tutti gli aspetti della comunicazione anche per quanto riguarda lo sviluppo delle tecnologie digitali. Il principio che la informa è che a gestire la comunicazione dovrebbe essere il mercato, con l'assistenza del governo. La politica immaginata da tale Atto consiste essenzialmente nella battaglia tra le più potenti compagnie di comunicazione e tra le lobbies da esse gestite, le quali si combattono dietro le quinte per spuntare le concessioni più favorevoli. Che le grandi imprese avrebbero assunto il controllo totale delle comunicazioni era un dato di fatto; la battaglia verteva sui settori e sulle imprese che avrebbero ottenuto i risultati migliori. Il dibattito e le pressioni che hanno preceduto l'approvazione dell'Atto hanno trovato pochissimo spazio sui media stessi, fatta eccezione per la stampa specializzata, economica e commerciale, in cui la nuova legislazione veniva affrontata come una vicenda importante per gli investitori e i manager, non per i cittadini, neanche in quanto consumatori.

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Il risultato del Telecommunications Act, con l'attenuazione delle restrizioni sugli assetti proprietari, introdotta per promuovere la concorrenza trasversale tra i diversi settori, è stato poco meno che disastroso. Anziché sollecitare la concorrenza, concetto impraticabile considerata la concentrazione estrema dei mercati in questione, la legge ha spianato la strada all'era della massima concentrazione proprietaria nei media e nella storia dei media e della comunicazione americani. Le sette "Baby Bells" sono rimaste in quattro - se verrà perfezionato l'acquisto della Ameritech da parte della SBC Communications - e altre fusioni sono in vista. Nella radio, dove più che altrove sono state eliminate molte restrizioni, l'intera industria è stata rivoluzionata, e già 4.000 delle 11.000 stazioni commerciali esistenti sono state vendute dall'approvazione della legge a oggi. Nei 50 mercati principali, soltanto tre compagne controllano ora l'accesso a oltre metà dell'audience radiofonica. In 23 di questi cinquanta mercati, le tre imprese controllano l'80 per cento dell'audience. L'ironia risiede nel fatto che la radio, relativamente poco costosa da gestire e pertanto idealmente perfetta per il controllo indipendente e locale, è divenuta forse lo strumento di comunicazione più concentrato e centralizzato in tutto il paese.

Non c'è dubbio che gli Stati Uniti avessero bisogno di una nuova legge sulle comunicazioni. Le tecnologie digitali stanno minando alla base le distinzioni tradizionali tra settori di media e di comunicazione che avevano costituito la base della precedente regolamentazione del settore. Ma la legislazione che abbiamo ottenuto riflette il processo fallimentare che l'ha prodotta.

 

False partenze

Poiché il controllo delle multinazionali e il ruolo della pubblicità sono di fatto off-limits per la discussione pubblica, i riformatori si sono trovati di fronte a un numero limitato di opzioni. Hanno perciò deciso di varare delle riforme "morbide", che non minacciassero l'egemonia delle imprese e degli inserzionisti. E poiché queste riforme hanno suscitato ben poco entusiasmo nell'opinione pubblica, i militanti del settore non si sono impegnati gran ché per organizzare un consenso popolare intorno ai loro sforzi. Né è risultato uno stile di lobbying tutto interno al settore, tipico di quando gli interessi in gioco sono troppo bassi per interessare il grande pubblico. Per esempio nel 1997 alcuni attivisti del ramo hanno cantato vittoria quando la Commissione Federale per le Comunicazioni ha iniziato a esigere che le emittenti televisive programmassero almeno tre ore settimanali di trasmissioni per bambini a carattere educativo. Il problema di questa "vittoria" è che anche questi programmi educativi restano sponsorizzate commercialmente, e il loro controllo ultimo continua a dipendere dagli interessi commerciali.

Altri riformatori si sono rivolti al giornalismo "civico" o "di servizio", un tentativo benintenzionato di ridurre il sensazionalismo e la palese manipolazione politica tipici del giornalismo oggi dominante. Purtroppo il movimento ha completamente ignorato i fattori strutturali degli assetti proprietari e dell'inserzionismo pubblicitario, che hanno mosso guerra al giornalismo. Il giornalismo di servizio è contrario, com'è logico, a un approccio "ideologico" delle notizie, e incoraggia quindi una gestione delle stesse noiosamente "equilibrata" e soporifera. Affermando che portare notizie ai lettori è importante per le loro vite, gli avvocati del giornalismo civico di fatto rischiano di favorire il processo di conversione del giornalismo in quel genere di notizie e informazioni per i consumatori che fanno la gioia della comunità degli inserzionisti.

Altri si sono uniti ai movimenti di pressione del settore letterario. L'idea era in questo caso di educare il pubblico allo scetticismo, trasformandolo in un utente critico e competente dei media. Insegnare a "leggere" i media ha un potenziale considerevole se si tratta di spiegare in che modo, effettivamente, funziona il sistema; così inteso, l'insegnamento spinge la gente a impegnarsi per avere un sistema migliore. Ma l'ala più convenzionale di questo movimento accetta implicitamente che i media commerciali "danno alla gente quello che la gente vuole". Perciò lo sforzo di questi "insegnanti" consiste nell'abituare le persone a chiedere programmi migliori. La strategia risultante rischia di non fare altro che rafforzare il sistema esistente. "Ehi, non date la colpa a noi delle schifezze che vi forniamo", dicono i colossi delle comunicazioni, "Abbiamo addirittura finanziato un movimento di educazione all'uso dei media per insegnare al pubblico a chiedere prodotti di migliore qualità. Ma quei cretini non fanno che chiedere quantità sempre maggiori di quel che trasmettevamo anche prima".

Se l'educazione all'uso dei media può giocare un ruolo importante nella riforma del sistema, il giornalismo civico può rappresentare al massimo una mezza benedizione. Alcuni osservatori hanno attribuito al giornalismo di servizio, molto diffuso nel North Carolina, un ruolo determinante nel favorire la rielezione di Jesse Helms, nel 1996. Perché? Perché questo tipo di giornalismo non era preparato a porre domande "cattive", né a insistere con i politici per avere delle risposte. Helms si è trovato quindi la strada spianata dai media, e non ha avuto quasi bisogno di difendere la sua posizione.

Un fatto è chiaro: se vogliamo un sistema che produca risultati radicalmente diversi, abbiamo bisogno di soluzioni che affrontino alla radice le cause dei problemi: che affrontino cioè le questioni degli assetti proprietari, della gestione, della regolamentazione e dei finanziamenti dei media. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di dar vita a un nuovo sistema di media che riduca il potere di una manciata di gigantesche multinazionali della comunicazione e dei loro inserzionisti sulla cultura prodotta dai media stessi. Ma nessuno farà pressioni per ottenere una riforma fino a quando non saremo in grado di presentare delle idee sulle quali valga la pena discutere. L'asso nella manica della situazione attuale è l'affermazione secondo cui qualsiasi cambiamento al sistema esistente condurrà inevitabilmente al caos totale. L'obiettivo di questo articolo è di dimostrare che ci sono invece diverse proposte attuabili per una riforma del sistema, le quali espanderebbero, anziché limitare, la libertà e costituirebbero un impulso stimolante per la nostra cultura e la nostra democrazia.

 

Proposte di riforma

Dar vita a media non-profit e non commerciali. Il punto di partenza per una riforma dei media deve consistere nella costruzione di un consistente settore di media riservato a imprese non-profit e non commerciali. Tale settore già esiste negli Stati Uniti, e genera prodotti assai validi, ma è spaventosamente piccolo e scarsamente finanziato. Il suo sviluppo può essere favorito anche senza modificare le leggi e i regolamenti attualmente in vigore. Per esempio, le fondazioni e le organizzazioni di lavoratori potrebbero e dovrebbero contribuire molto di più alla crescita di media non-profit e non commerciali. In particolare i rappresentanti dei lavoratori dovrebbero essere disponibili a sostenere radio, televisioni, siti internet e stampa. Soprattutto, i sindacati non devono e non possono cercare di gestire surrettiziamente tali media per trasformarli in strumenti delle loro pubbliche relazioni. Perché si possano affermare dei media indipendenti è necessario che la loro integrità editoriale sia assoluta.

Anche politiche governative sensibili al problema potrebbero aiutare a far crescere un settore non-profit nel mondo della comunicazione, e la riforma del sistema dei media dovrebbe lavorare con questo obiettivo. I finanziamenti e le politiche del governo hanno giocato un ruolo chiave nell'affermazione dei media commercialmente lucrativi. Fin dal diciannovesimo secolo, per esempio, gli Stati Uniti hanno fatto in modo da garantire una stampa di buona qualità e di rapida diffusione postale a prezzi relativamente bassi. Potremmo estendere lo stesso principio riducendo le spese postali per una più vasta gamma di media non-profit e/o per quei mezzi di comunicazione che hanno poca o nessuna pubblicità. Si potrebbero anche consentire deduzioni o detrazioni fiscali per chi contribuisca economicamente a un media non-profit. Dean Baker, dell'Economy Policy Institute ha sviluppato un progetto che consentirebbe ai contribuenti che effettuano una donazione a un nuovo strumento di comunicazione non-profit di risparmiare fino a 150 dollari di imposte federali. Questo consentirebbe a quasi tutti gli americani - non solo a quelli che possono disporre di un reddito ragguardevole - di contribuire al settore e alla creazione di un'alternativa al sistema dominato da Wall Street e Madison Avenue.

Public Broadcasting. La creazione di un forte settore non-profit che possa completare l'offerta dei colossi commerciali non è sufficiente. I costi per creare un sistema di media più democratico sono, semplicemente, troppo alti. È quindi importante creare e mantenere un sistema non commerciale, non-profit, di servizio pubblico radiofonico e televisivo. Tale sistema dovrebbe prevedere reti nazionali, stazioni locali, trasmissioni televisive in chiaro e stazioni radio gestite da comunità indipendenti. Ogni comunità dovrebbe anche poter accedere a frequenze televisive locali e a stazioni radio locali. Gli Stati Uniti non hanno mai conosciuto l'emittenza pubblica presente per esempio in Giappone, in Canada e in Europa Occidentale. A differenza di quanto accade da noi, il servizio pubblico in questi paesi è solidamente finanziato e gestito in modo da servire l'intera popolazione.

Negli Stati Uniti invece i finanziamenti per il servizio pubblico sono sempre stati scarsissimi e concessi unicamente per la produzione di programmi assolutamente non commerciabili. Il risultato è che il servizio pubblico fornisce in genere programmi pochissimo attraenti, riservati a un pubblico di nicchia, il che non rappresenta certo una strategia vincente per conseguire un grosso successo istituzionale. Per di più il Congresso ha fatto il cane da guardia per controllare che l'emittenza pubblica non ampliasse il dibattito ideologico oltre i confini stabiliti dall'emittenza commerciale. In sintesi, l'emittenza pubblica negli Stati Uniti è sempre stata ammanettata, fin dalla sua fondazione. Eppure è riuscita ugualmente a costruirsi un seguito di devoti. Questi fedelissimi sono riusciti a trovare un sostegno politico e a far sentire la loro voce, tanto da aver saputo impedire che l'emittenza pubblica americana fosse totalmente privatizzata, ma le loro energie si sono ormai ridotte al lumicino. Radio e televisione pubblica sono sempre più dipendenti dalle grandi multinazionali e dall' "enhanced underwriting", un eufemismo per le inserzioni pubblicitarie. Il finanziamento pubblico copre soltanto il 15 per cento delle entrate. Anzi, l'emittenza pubblica come viene normalmente definita in tutto il mondo di fatto non esiste più negli Usa. Quel che abbiamo è piuttosto un'emittenza commerciale non-profit, strettamente legata alla grande industria e sotto la costante minaccia di incorrere nelle ire della destra se le sue trasmissioni escono dal seminato.

Abbiamo bisogno di un sistema di servizio pubblico vero e proprio, che non accetti diktat dall'industria o da organismi privati e che serva l'intera popolazione, non solo quelli che detestano il sistema commerciale dominante. Due ostacoli si frappongono alla realizzazione di questo sistema. Il primo di tipo organizzativo: in che modo si dovrebbe strutturare il servizio per far sì che esso sia affidabile, che la burocrazia non lo renda troppo indigesto per il gusto popolare e perché abbia allo stesso tempo un potere istituzionale sufficiente ad impedire tentativi censori, impliciti ed espliciti, da parte delle autorità politiche? Il secondo ostacolo è di natura fiscale: dove prendere i fondi necessari a pagare un servizio di emittenza pubblica affidabile? Oggi il governo federale spende a questo scopo 260 milioni di dollari l'anno. Il sistema pubblico che sto immaginando - con una spesa pro capite equivalente a quella, per esempio, di Gran Bretagna e Giappone - può arrivare a costare dai 5 ai 10 miliardi l'anno.

Non c'è alcun modo di risolvere il primo problema, quello organizzativo: probabilmente una soluzione ideale non esiste. Ma ci sono sistemi migliori di quello in vigore, come dimostrano tutte le ricerche comparative. Un elemento chiave per prevenire la mummificazione burocratica o le ingerenze del governo è quello di dar vita a un sistema pluralistico, con reti nazionali, stazioni locali, "programmi dell'accesso" gestibili dal pubblico in generale e dalle comunità organizzate. Il tutto con un sistema di controllo indipendente. In alcuni casi potrà essere utile far eleggere alcuni funzionari direttamente dal pubblico o dai dipendenti del servizio stesso, in altri potrebbe essere preferibile la designazione ad opera di organismi politici elettivi già esistenti. Quanto ai finanziamenti, non ho alcuno scrupolo all'idea di stornare il denaro necessario per dar vita a un sistema di radio e televisione veramente pubblico dall'erario generale.

C'è una sorta di ossessione quasi assurda nel cercare di prelevare i soldi destinati all'emittenza pubblica ovunque tranne che nel bilancio generale, in base alla premessa tutt'altro che assiomatica che l'emittenza pubblica non potrebbe essere giustificata come spesa di interesse pubblico. Considerando l'importanza, nelle nostre vite, della radio e della televisione, direi che merita decisamente una piccola porzione di quel denaro che usiamo per accumulare armamenti assolutamente non necessari. Sovvenzioniamo l'educazione, ma il governo oggi sovvenziona i media unicamente per conto dei proprietari. Dovremmo cercare di poter accedere a una fonte stabile di finanziamenti, che non possa essere soggetta a manipolazioni da parte di quei politici a cui non sta troppo a cuore l'integrità del sistema.

Un sistema pubblico di emittenza radiotelevisiva sufficientemente forte potrebbe generare effetti profondi sull'intera cultura dei media americani. Potrebbe riaprire la via a quel genere di giornalismo di servizio ridotto in fin di vita dal commercialismo sfrenato. Ciò potrebbe a sua volta fornire al giornalismo commerciale l'energia necessaria per svolgere quelle inchieste scomode che oggi evita. E un effetto similare potrebbe produrlo sulla nostra cultura dell'intrattenimento. Un servizio televisivo pubblico ben fatto potrebbe sostenere una quantità di piccoli produttori cinematografici indipendenti. Potrebbe fare miracoli per ridurre l'incidenza, sulle campagne politiche ed elettorali, di costosissime campagne pubblicitarie. È essenziale per garantire le voci diverse e l'ampiezza del dibattito che sono il cuore stesso della sfera pubblica democratica.

Regolamentazione. Un terzo elemento basilare è l'incremento di regole e controlli per l'emittenza commerciale di interesse pubblico. I riformatori del settore sono impegnati da tempo su questo terreno, se non altro perché la proprietà pubblica delle frequenze conferisce al pubblico, attraverso la FCC (Federal Communication Commission) un chiaro diritto legare a negoziare i termini di concessione con i pochi soggetti che riescono ad ottenere le licenze d'uso. Tuttavia anche questa forma di attivismo è finora risultata di entità trascurabile, e la regolamentazione in materia ha avuto le armi spuntate, tanto che i desiderata delle multinazionali e degli inserzionisti più potenti ben di rado sono stati messi in discussione.

L'esperienza americana e di altri paesi dimostra che i produttori commerciali, se non sono tenuti a mantenere elevati standard di servizio pubblico, tendono a ricercare i profitti più facili facendo ricorso al commercialismo più bieco, fino a rovesciare a loro vantaggio la bilancia culturale del settore. L'esperimento più riuscito di sistema misto, commerciale e pubblico, di emittenza televisivo è stato realizzato in Gran Bretagna, nel periodo che va dagli anni cinquanta agli ottanta. È riuscito perché l'emittenza privata era tenuta a rispettare gli stessi standard di servizio pubblico della BBC; parecchi osservatori sostengono anzi che il sistema commerciale faceva programmi addirittura migliori di quelli pubblici, dal punto di vista della funzione di servizio. Il sistema britannico ha funzionato perché i produttori televisivi rischiavano di perdere la concessione se non rispettavano i criteri stabiliti. (Purtroppo il Thatcherismo, con la sua fissazione secondo cui il mercato non sbaglia mai, ha profondamente indebolito l'integrità del sistema in questione).

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Ci sono tre settori specifici nei quali una severa regolamentazione della programmazione può essere di importanza vitale. In primo luogo, si dovrebbe regolamentare strettamente o addirittura eliminare la pubblicità dalla programmazione destinata ai bambini (come accade in Svezia). Dobbiamo cercare di arginare il bombardamento a tappeto della pubblicità sui nostri figli. Le emittenti private dovrebbero assicurare un certo numero di ore settimanali di programmazione destinata all'infanzia, libera dagli spot e prodotta da artisti ed educatori, non dai tycoon di Madison Avenue.

In secondo luogo, i notiziari televisivi dovrebbero essere sottratti alla dittatura delle multinazionali e degli inserzionisti e restituiti ai giornalisti. In che modo organizzare concretamente questi due generi di programmazione nelle televisioni commerciali, in modo che siano controllati da educatori, artisti e giornalisti, è un problema che richiede un grande impegno di studio e di discussione. Ma dovremmo essere in grado di escogitare dei meccanismi in grado di funzionare.

Quanto ai finanziamenti di queste programmazioni di servizio pubblico, mi associo all'idea che esse dovrebbero essere sovvenzionate dai beneficiari della comunicazione commerciale. Questo principio potrebbe venire applicato in molti modi diversi. Potremmo far pagare un affitto agli imprenditori televisivi per l'uso dello spettro elettromagnetico di cui si servono per trasmettere. Oppure imporre una tassa specifica sulla vendita di stazioni televisive a scopo di lucro. Questi due meccanismi insieme porterebbero un gettito di oltre un miliardo di dollari l'anno. O ancora, si potrebbe tassare la pubblicità. Nel 1998 negli Stati Uniti sono stati spesi circa 200 miliardi per la pubblicità, 120 dei quali sono stati destinati ai mezzi di comunicazione di massa. Un'imposta anche di importo esiguo, magari soltanto sulla vendita degli spot alle radio e alle televisioni, potrebbe portare all'erario diversi miliardi di dollari. E potrebbe anche comportare un effetto salutare per la società americana, riducendo l'invasione della pubblicità nelle nostre vite. Non ci sembra che sia chiedere troppo agli inserzionisti, i quali del resto se la cavano a buon mercato per quanto riguarda gran parte della commercializzazione dell'etere di proprietà pubblica.

In terzo luogo, la programmazione televisiva dovrebbe riservare ai candidati politici un considerevole spazio gratuito durante le campagne elettorali; le inserzioni a pagamento dovrebbero inoltre essere o rigidamente regolamentate o eliminate del tutto, dal momento che i costi esorbitanti di questo tipo di spot (per non parlare del loro contenuto) hanno praticamente distrutto l'integrità della nostra democrazia. Se non possono essere proibiti e nemmeno forzatamente ridotti, forse si potrebbe almeno prevedere che, ogni qualvolta un candidato acquista uno spazio pubblicitario televisivo, sia concesso ai suoi avversari uno spazio gratuito della stessa durata, da trasmettere immediatamente dopo quello pagato. Questo impedirebbe ai candidati più ricchi di comprarsi di fatto le elezioni. Immagino che una simile clausola eliminerebbe del tutto la pratica corrente.

Anche in questi tempi pro-mercato, i colossi della comunicazione non sono riusciti a sradicare nell'opinione pubblica l'idea che le emittenti commerciali siano al servizio del pubblico oltre che degli azionisti e degli inserzionisti. Per questo, quando le televisioni commerciali sono riuscite, nel 1997, a costringere la Commissione per le comunicazioni concedere loro gratuitamente il massimo spazio nel nuovo spettro per avviare le trasmissioni della tv digitale, l'amministrazione Clinton ha dato vita alla cosiddetta Commissione Gore, per verificare che i produttori rispettassero i requisiti del servizio pubblico in cambio del regalo ricevuto. In perfetta corrispondenza con tutta la politica relativa ai mass media in America, la Commissione Gore ha praticamente perso la faccia quando i rappresentanti del mondo industriale hanno iniziato a mettere il veto su tutte le proposte, tranne le più permissive. Possiamo tuttavia ancora sperare che la Commissione possa produrre qualche proposta più seria riguardo al servizio pubblico, e che getti le basi per una campagna educativa pubblica che aiuti a conferire a tali proposte la forza di legge.

Anti-trust. La quarta strategia per la realizzazione di un sistema più democratico è quella di dividere le imprese più gigantesche garantendo un mercato più competitivo e trasferendo un maggior potere di controllo dalle multinazionali dell'informazione ai cittadini utenti. Gli attuali regolamenti anti-trust non sono assolutamente soddisfacenti, da nessun punto di vista. Se vogliamo applicare i principi dell'anti-trust ai media è indispensabile un nuovo statuto, simile nei toni ai Clayton and Sherman Acts, che stabiliscono i valori generali che devono informare gli atti del Dipartimento della Giustizia e della Federal Trade Commission. L'obiettivo dovrebbe essere quello di suddividere complessi sinergici enormi come quello della Time Warner, della News Corporation o della Disney, di mano che le attività di editoria libraria, editoria periodica, produzione di spettacoli televisivi, produzione cinematografica, emittenti e reti televisive, parchi di divertimenti, catene di negozi, canali tv via cavo, sistemi di tv via cavo eccetera divengano ciascuna un'impresa separata. Questo ridurrebbe le barriere che si trova di fronte chi cerca di entrare in uno di questi mercati, consentendo nuovi ingressi.

I giganti dei media affermano che il loro potere sul mercato e la strategia delle sinergie li rende più efficienti e pertanto consente loro di fornire un prodotto migliore a un prezzo più basso. Non ci sono grandi prove a conforto di questa tesi; è evidente invece che il potere nel mercato e le sinergie rendono le imprese molto, molto più redditizie. Ma anche ammesso che l'anti-trust comporti un modello economico meno efficiente, forse è un prezzo che dobbiamo essere pronti a pagare per consentire l'affermarsi di un mercato più aperto e concorrenziale. Considerata l'importanza dei mass media per la politica e la cultura democratiche contemporanee, non dovremmo valutarsi esclusivamente secondo criteri prettamente commerciali.

L'anti-trust è l'asso nella manica della piattaforma per una riforma dei media. L'opinione pubblica è estremamente favorevole alle misure anti-concentrazione, e di solito è la prima idea suggerita dai cittadini quando viene loro chiesto di riflettere sullo scenario attuale. Quel che è meno chiaro, è se una legislazione in questo senso abbia qualche speranza di essere attuata concretamente. E anche se si dimostrasse efficace, il sistema continuerebbe a rimanere fondamentalmente commerciale, anche se più aperto alla concorrenza. Non ridurrebbe, in altre parole, la necessità di attuare le prime tre proposte.

 

Non preoccuparsi?

I difetti fondamentali del sistema in vigore nel settore dei media commerciali, dominato dalle grandi imprese, sono riconosciuti quasi da tutti. Stiamo però purtroppo assistendo a una corsa alla rassicurazione, perché Internet metterà fine ai nostri timori. Poiché la rete è aperta a tutti, a costi relativamente bassi, l'egemonia dei colossi dell'informazione e della pubblicità ha le ore contate. Al suo posto sorgerà una cultura mediatica aperta, decentralizzata, varia, in rapida evoluzione e competitiva. E soprattutto il risultato promesso è già implicito nella stessa tecnologia digitale di Internet, e non c'è alcun bisogno di una specifica regolamentazione governativa. Anzi, è opinione comune - considerevolmente rafforzata dalla politica dell'Amministrazione Clinton al riguardo - che solo un intervento regolamentatore del governo potrebbe impedire a Internet di compiere la sua magia.

Benché Internet e la comunicazione digitale in genere stiano apportando cambiamenti radicali nel nostro sistema di media e di comunicazione, il risultato da esse generato potrebbe non essere un mercato più competitivo o lo sviluppo di media più democratici. Anzi, l'evidenza dei dati suggerisce che, poiché Internet sta diventando uno strumento sempre più commerciale, è sempre più probabile che siano le grandi imprese operanti nel settore delle comunicazioni a conseguire i risultati migliori. Con un minimo costo aggiuntivo, i colossi dell'informazione possono immettere nel Web una programmazione digitale che va ad incrementare le altre loro attività. Per incrementare il pubblico dei loro utenti, possono servirsi degli strumenti tradizionali che già possiedono per reclamizzare i loro siti. I principali "marchi" della comunicazione di massa sono stati anche i primi a far pagare un abbonamento per accedere ai servizi offerti sul Web; anzi, sono probabilmente le uniche imprese che avrebbero un'alternativa valida.

I colossi dei media possono fare in modo (e lo fanno) che gli inserzionisti tradizionali acquistino spazi sui loro siti. Possono anche servirsi del loro potere di mercato e dei loro marchi già affermati per conquistare posizioni di rilievo nel settore dei browser per il Web. La versione 4.0 di Internet Explorer, il marchio della Microsoft, offre 250 canali già pre-collegati, e le posizioni in maggior evidenza sono quelle di Disney e di Time Warner. Netscape e Pointcast stanno concludendo accordi simili. Per di più circa la metà del capitale investito nelle aziende che producono contenuti e software per Internet proviene da imprese già affermate nel settore della comunicazione, le quali cercano di capitalizzare sulle nuove applicazioni che appaiono più redditizie, non appena queste emergono. In più i dati esistenti stanno a indicare che nel Web commercializzato l'ingerenza sui contenuti da parte degli inserzionisti, che hanno a disposizione una vastissima scelta, si farà ancora più pesante.

Se mettiamo insieme tutte queste considerazioni sul mercato, è difficile immaginare la crescita di un mercato competitivo nel settore dei media digitali, in cui i fornitori medio-piccoli riusciranno ad avere la meglio sui colossi già affermati. La comunicazione digitale genererà cambiamenti notevoli, ma nessuna rivoluzione. E alla fine il contenuto della comunicazione nel mondo digitale apparirà del tutto simile ai contenuti presenti nel mondo pre-digitale.

Ironicamente, l'elemento che più colpisce nelle nuove tecnologie non è probabilmente il fatto che abbia scatenato la concorrenza nel mercato delle comunicazioni, ma che abbia ulteriormente favorito le fusioni sinergiche annullando le tradizionali distinzioni tra radio, televisione, telecomunicazioni e software per computer. Negli anni novanta quasi tutte le principali multinazionali dei media hanno stretto alleanze strategiche o joint-ventures con le principali imprese di telecomunicazioni e di software. La Warner è legata a molti dei principali operatori telefonici regionali (Bell), alla AT&T e ad Oracle ed è entrata in una importante joint-venture con la US West. Parimenti la Disney è legata a diverse importanti compagnie americane di telecomunicazioni, oltre che ad America Online. Nella proprietà di News Corp. c'è un'importante partecipazione di WorldCom (MCI), e la stessa impresa ha varato una joint-venture con British Telecom. La Microsoft, come ha osservato un esperto, sembra andare a letto con tutti. A tempo debito il cartello mondiale dei media potrebbe finire per assomigliare a un cartello globale della comunicazione.

In che misura allora l'ascesa di Internet può modificare le mie proposte per una riforma strutturale dei media. Quasi per nulla. Vi sono naturalmente, per quanto riguarda questo nuovo strumento, alcune specifiche riforme politiche che vale la pena perseguire: per esempio, garantire un accesso pubblico universale a prezzi bassissimi, anzi possibilmente gratis, e imporre ai principali browser e ai siti commerciali di inserire nel pacchetto dei link a siti non-profit. In termini generali faremmo comunque meglio a considerare Internet nello stesso modo in cui la considerano i colossi dei media: una parte, non la totalità, del panorama mediatico che va emergendo. Pertanto quando cerchiamo di dar vita a un numero maggiore di imprese più piccole, quando parliamo ci creare reti e stazioni radiotelevisive pubbliche e accessibili alle comunità, quando pensiamo a una forte componente di servizio pubblico nella programmazione di notiziari e di trasmissioni per i bambini all'interno della tv commerciale, quando cerchiamo di sfruttare le politiche governative per far crescere un settore non-profit nei media, tutti questi sforzi avranno un impatto fortissimo anche sullo sviluppo di Internet in quanto mass medium. Perché? Perché i siti Web perderanno gran parte del loro valore se non trovano le risorse per fornire prodotti di qualità. E tutti i nuovi media che deriverebbero dalle riforme da noi proposte dovranno necessariamente avere dei siti Web, esattamente come i media commerciali. Dando vita a una cultura più vibrante e più democratica, avremo già fatto un bel pezzo di strada anche nei riguardi del Web.

 

Conclusioni

Immaginiamo un mondo in cui decine, o forse centinaia, di imprese del settore operano nei diversi mercati della comunicazione; mercati abbastanza competitivi da consentire l'ingresso a nuovi operatori. Immaginiamo un mondo con un gran numero di reti e stazioni radiotelevisive di proprietà statale, gestite dalla comunità o che consentono l'accesso al pubblico, con sovvenzioni sufficienti a consentire la produzione di prodotti di qualità. Immaginiamo un mondo in cui le frequenze pubbliche promuovono un giornalismo battagliero, programmi adatti ai bambini, informazioni sui candidati alle elezioni politiche, il cui controllo è nelle mani di personalità che si dedicano interamente al servizio pubblico. Immaginiamo un mondo in cui una politica fiscale creativa mette i media non-profit e non commerciali in condizione di nascere e prosperare, dando vita a qualcosa di assai simile a una sfera di dibattito pubblico.

Per quanto possiamo immaginarlo, un mondo siffatto ci appare alquanto implausibile - e non soltanto a causa della potenza politica esercitata dalle multinazionali della comunicazione e dalle loro lobbies. Nella scorsa generazione i neoliberali fautori del "libero mercato" hanno compreso meglio di chiunque altro l'importanza dei media come strumento di controllo sociale. Le fondazioni conservatrici più importanti hanno dedicato notevoli risorse alla riduzione dell'autonomia del giornalismo e all'attenuazione delle diversità ideologiche, spingendo i media in una direzione più esplicitamente "pro-business". La destra politica ha compreso perfettamente che se le grandi imprese dominano i principali luoghi deputati all'educazione e al dibattito, il controllo pubblico sui loro affari si riduce cospicuamente. I medesimi gruppi fautori del "libero mercato" hanno combattuto tutti gli elementi di interesse pubblico che si sia tentato di introdurre nelle leggi e nei regolamenti del settore, opponendosi a qualunque forma di media non commerciali e non-profit e mettendosi alla testa di una crociata per garantire che l'emittenza pubblica rimanessi all'interno di rigidi e angusti confini ideologici. Insomma, nell'ultima generazione abbiamo assistito a un'importante battaglia politica sul terreno dei media, ma soltanto uno dei combattenti ne è uscito vivo. I risultati sono chiari, e spaventosi.

Oggi però emergono segnali di battaglia sul controllo dei nostri media. Organizzazioni come la Fairness & Accuracy Reporting (Fair), un osservatorio sui media, sono esplose negli anni novanta e gruppi militanti di controllo sui mezzi di comunicazione locali sono spuntati un po' ovunque a Denver, New York, Chicago, Los Angeles, Seattle e in tutto il paese a partire dal 1995. Nel 1998 la coalizione Rainbow/PUSH ha fatto della riforma del settore uno degli obiettivi principali della sua organizzazione, promuovendo convegni regionali in tutta la nazione. I membri del Congressional Black Caucus e del Congressional Progressive Caucus hanno stabilito di avanzare e sostenere proposte di leggi in ciascuna delle aree menzionate sopra. Molte organizzazioni di lavoratori, soprattutto i sindacati del settore, mostrano un interesse crescente nei confronti del problema. Tutto questo sarebbe stato impossibile solo cinque anni fa. È un atteggiamento che si inserisce in una tendenza mondiale, affermatasi nella seconda metà degli anni novanta quando la riforma dei media è divenuta un obiettivo imprescindibile dei movimenti politici democratici.

Ma la strada è ancora lunga. Ampi settori della popolazione, che sono fortemente danneggiati dallo status quo e che pertanto dovrebbero essere tra i più strenui avvocati di tale riforma - educatori, librai, genitori, giornalisti, piccoli imprenditori, ambientalisti - sono ben poco consapevoli addirittura dell'esistenza stessa del problema, tanto meno del dibattito in corso. La lobby dei colossi dell'informazione è talmente potente che la loro vittoria, allo stato attuale delle cose, appare scontata, soprattutto dal momento che gli organi d'informazione gestiti dalle grandi multinazionali mostrano scarsissimo interesse a pubblicizzare l'argomento.

Conseguire un'autentica riforma del settore richiederà quindi quel genere di forza politica che può venire solo da un ampio movimento sociale per la democratizzazione della nostra società. Dobbiamo imparare a considerare la riforma in questione come una parte integrante di qualunque politica progressista, non una causa che interessa soltanto gli specialisti. E la riforma dei media può avere una vasta risonanza politica. Alcuni "conservatori culturale" possono essere sensibili all'invito a ridurre l'ipercommercializzazione della nostra cultura mediatica. E anche i democratici più favorevoli al mercato possono riconoscere che quella dei media è un'area in cui l'applicazione pura e semplice dei principi commerciali ha prodotto corollari disastrosi. In sintesi, il treno della riforma è pronto per uscire dalla stazione. Se abbiamo a cuore la democrazia, non ci resta che salire in carrozza.

 

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