"Il governo D'Alema ha
fatto un bel lavoro. Apo in galera e Belgrado rasa al suolo" era lo slogan cantato da
giovani e pacifisti di vari gruppi il 2 giugno scorso, nel dare l'assalto all'Altare della
Patria dove avrebbero issato uno striscione contro la guerra. Il destino di Apo (Ocalan)
purtroppo è noto. Le vicende relative a Belgrado sono un po' diverse.
Infatti, quasi alla stessa ora dello stesso giorno l'inviato della RAI
Ennio Remondino compariva in diretta sulle tre reti. Dalla piazza dei più importanti
edifici governativi di Belgrado stava dando notizie dell'ultima e più promettente
iniziativa diplomatica. Aggiungeva due particolari importanti per una guerra. Il
presidente finlandese, rappresentante per l'Europa, e il mediatore russo Cernomirdin,
giunti con due diversi aerei, erano stati ricevuti all'aeroporto "intatto" di
Belgrado, secondo le regole formali del protocollo, da tutto il governo. Gli ospiti
avrebbero trascorso la notte nel "castello bianco", residenza formale del
presidente Milosevic. Si trattava di notizie gradite perché facevano bene sperare. Ma
davano anche il ritratto di un governo nel pieno controllo e di una capitale perfettamente
funzionante.
Chi ha dato dunque la notizia di Belgrado rasa al suolo ai giovani che
hanno brevemente occupato, per una dimostrazione contro la guerra, il monumento romano al
Milite ignoto? La risposta è semplice e disorientante. La NATO. Il quartier generale
della Alleanza Atlantica ha esercitato fin dal primo giorno la più strana attività di
disinformazione che sia mai avvenuta sul versante di chi inizia un conflitto. La
disinformazione è consistita in questo: affermare ogni mattina di avere compiuto "il
peggio" la notte precedente, esaltando il più possibile le centinaia di
azioni, le migliaia di aerei, le decine di migliaia di bombe. Durante le azioni aeree
della guerra contro la Jugoslavia la NATO ha anche compiuto molti errori, quasi sempre
prontamente riconosciuti. Essi hanno certo turbato l'opinione pubblica, e non solo coloro
che erano comunque ostili all'intervento armato.
Ma è probabile che sentimenti profondi ed estesi di disagio (uso una
parola capace di comprendere strati diversi di opinione pubblica) siano stati
costantemente provocati dal far sapere al mondo ogni mattina, dopo venti, quaranta,
sessanta giorni di attacchi con forze aeree paragonabili a quelle della seconda guerra
mondiale, che "la notte scorsa è stata la peggiore per la Jugoslavia". Gli
uomini della NATO hanno dedicato il loro sforzo comunicativo a far sapere di essere freddi
e costanti autori di azioni apocalittiche, descritte in modo da scuotere e disturbare
anche i più motivati sostenitori della scelta di intervento militare.
Da parte dei comunicatori della NATO non si è mai nascosto che i voli
ad altissima quota erano giustificati dall'evitare qualsiasi rischio personale ai piloti.
Ma questa ripetuta notizia, unita alla lista delle città e dei villaggi colpiti, più il
numero di aerei, di voli, di bombe e di missili, non poteva che accrescere il senso di
gelida crudeltà di ogni azione, in cui una parte rischia tutto e una parte niente, a
causa della tecnologia estremamente superiore. S'intende che, se questo è il quadro
comunicativo di fondo, la notizia delle decine di vittime provocate dagli
"errori" non poteva che apparire ancor più grave a causa della connessione
"pilota sicuro - obiettivo sbagliato".
Impossibile non ricordare che questo strano e distorto rapporto di
comunicazione fra il portavoce della NATO e l'opinione pubblica dei diciannove paesi
democratici che sono parte della alleanza , è stato segnato da toni di singolare
antipatia, momenti di maleducazione e di franca indifferenza verso la sensibilità dei
destinatari delle notizie. L'inglese Jimmy Shea, portavoce principale della Alleanza
Atlantica, sarà ricordato nel mondo delle notizie, come il peggior comunicatore di ogni
impresa militare del dopo Guerra fredda.
Alla curiosa incapacità o mancanza di desiderio di farsi capire da una
opinione pubblica democratica, ovviamente perplessa e in gran parte disorientata non tanto
sullre ragioni quanto sui modi, i percorsi, i fini dell'azione militare, Shea ha aggiunto
un impegno quasi caricaturale per apparire da un lato indifferente e dall'altro terribile.
Ha presentato e ripetuto notizie di attacchi il cui risultato cumulativo finale dovrebbe
essere di molto superiore alle stragi compiute dalla guerra aerea nella seconda guerra
mondiale.
Paradossalmente il portavoce della NATO è stato il teste d'accusa più
utile e credibile per tutti coloro che si sono opposti alla guerra. Probabilmente si deve
alla sua azione costante di antipatia personale unita all'impegno di rendere le notizie il
più possibile tremende, se il fronte anti-guerra si è progressivamente allargato, non
solo in Italia. Tutto è avvenuto come se il portavoce della NATO fosse persuaso che
l'obiettivo della dura pressione psicologica fosse l'opinione dei paesi democratici
dell'Alleanza, non quella del paese colpito. In quel paese, come si nota anche dai diari
di cittadini serbi pubblicati dai nostri giornali, ci si è subito resi conto che, a parte
la tragedia degli errori, la guerra era soprattutto un brutto dialogo con il potere di
Belgrado, colpiva e distruggeva secondo un linguaggio che il dittatore poteva capire,
molto meno la gente, che si è ostinata il più possibile (certo a Belgrado) a vivere una
vita "normale" almeno nelle apparenze, nella routine, nei riti quotidiani. Chi
ha vissuto da bambino sotto le bombe alleate sa che nessuna di quelle routine e di quei
riti si salva se l'impegno è davvero - come dicono i ragazzi di Roma e come desidera far
capire il portavoce della NATO - "radere al suolo".
Raramente i portavoce di guerra vengono ricordati. Ma Shea si distingue
per avere costruito una guerra sulla guerra, turbando immensamente anche i più persuasi
sostenitori dell'intervento armato. Si distingue per avere ignorato del tutto la tipica
necessità democratica di dialogare con l'opinione pubblica. Si ricorderà anche per la
platea particolarmente passiva di giornalisti che gli sono stati intorno durante i suoi
"briefings". Ma anche per il "carisma zero" dei suoi superiori ha
avuto un ruolo. Il generale Wesley Clarck, nonostante in suo pedigree di "Rhode
Scholar", cioè di puro intellettuale e pluri-laureato, è apparso figura mediatica
debole, scarsamente visibile, forse poco autorevole fra i suoi pari. Il segretario
generale Solana è sembrato avere perduto del tutto il suo tocco di politico non privo di
fama e di gradimento non solo nel mondo spagnolo. È ricomparso, nelle vesti di
"burocrate internazionale", incarnazione non alta, non nobile, come abbiamo
imparato da tante vicende dell'Europa istituzionale. Soprattutto poco adatto alla
comunicazione.
Altri valuteranno i risultati, gli eventuali "pro" e i
terribili "contro" di questa guerra che - anche nel migliore dei casi - non
sarà a somma zero, a causa dei morti. Ma la NATO ha certamente perduto in modo clamoroso
la guerra della comunicazione, si è sbarrata la strada ad ogni possibilità di
persuasione, al di là delle fila di coloro che hanno creduto e sostenuto l'azione
militare fin dal principio. Un rapporto con l'opinione pubblica non è mai stato
tentato. Ciò ha creato un danno non da poco per i futuri rapporti fra la NATO e le
opinioni pubbliche dei paesi democratici che ne fanno parte e che sono gli "azionisti
di riferimento" della Alleanza.
Il versante opposto è stato governato, come è noto, da una censura
inflessibile che ha dato e stoppato notizie di guerra come ha voluto, usando con mano
ferma a questo scopo, decine e decine di giornalisti del mondo. Sono sfuggiti alcuni
intelligenti ed esperti commentatori e coloro che hanno deciso di dedicarsi al
"qui" e "adesso", questi morti, questi profughi, questo villaggio,
questo ospedale, questo rifugio, questi bambini. Ne sono uscite pagine molto belle, ma
più del giornalismo di dolore che del giornalismo di guerra. Per questo evento è spesso
mancato un punto di vista, un quadro di riferimento più grande di ogni singola disgrazia.
La "guerra che non si vede" a cui ci si era abituati durante la guerra del Golfo
è stata sostituita da una narrazione frammentata in episodi terribili e spezzati, una
continua estrapolazione della scena insopportabile a cui manca il senso, o almeno
l'ambientazione del giornalista che - nella fase del giudizio - è bloccato dal suo stare
all'interno di un regime inflessibile, che non ha mai sentito il bisogno - o la necessità
- di allentare la presa.
In parte ha funzionato, in buona fede e a causa del dramma di cui il
giornalista era partecipe, vittima, non solo testimone, una sorta di "sindrome di
Stoccolma". Non ha giovato la tecnica di giornalismo televisivo prevalente in Italia,
il talk show. È uno "spettacolo" che favorisce gli aspetti istrionici, i
trasalimenti temperamentali, il partito preso. Si presta bene al deliberato zig-zagare dei
conduttori che puntano a non perdere l'attenzione e sacrificano volentieri continuità e
chiarezza.
Così che si è assistito a un infinito confronto di pareri personali,
di strategie personali, di informazioni personali, di umori personali. Niente di tutto
questo poteva arricchire neppure di poco la comunicazione. Se mai erano come una pioggia
inquinata di esibizioni, che ha diminuito la visibilità di fatti semplici e noti. Il
materiale visivo della guerra ha avuto solo due fonti: il governo jugoslavo e i campi
profughi. Sui campi profughi abbiamo visto sequenze bellissime ma è mancata la
rigorosa continuità accanto alla qualità quasi cinematografica delle immagini.
Ogni dato è apparso istantaneo e impressionistico. Ogni narrazione, anche le più belle e
toccanti, ha avuto un carattere estemporaneo, senza ieri e senza domani. Ogni conta, ogni
dislocazione di persone e di campi, ogni accumulo di aiuti o mancanza di aiuti, sono
ricominciati ogni giorno, alternando immagini da inferno con immagini di campi perfetti,
sequenze in cui decine di persone attendevano in piedi sotto la pioggia a sequenze in cui
quelle decine di migliaia di persone sono scomparse.
Le stesse città, lo stesso giorno, risultano "vuote e
fantasma" (dichiarazione di Rugova alla TV italiana il 12 maggio) oppure
"tuttora abitate da 70mila persone di quattro etnie" (Ennio Remondino, stesso
giorno, stessa televisione). Non è stata usata quasi mai una tecnica che è di routine
per la CNN: dichiarare se le immagini che si vedono in un dato momento sono
"repertorio" (o di un altro giorno, indicando quale) o se sono nuove e di un
fatto nuovo. Per decine di sere gli spettatori italiani hanno guardato le stesse
esplosioni e gli stessi incendi visti altre infinite volte, ma usati a sostegno di un
racconto "in diretta" relativo a fatti appena avvenuti e dunque impossibili da
giudicare.
Una trovata di estrema utilità - invece - sono state le conversazioni
- brevi e chiare, soprattutto nel TG1 - con commentatori lontani dagli eventi ma chiari e
bene informati, in grado, almeno, di dare ordine alla cascata di materiale televisivo non
identificato. Purtroppo il materiale jugoslavo soggetto a censura non è mai stato
dichiarato tale. Ogni volta, infatti, accanto all'immagine di devastazione, mancava
l'ambientazione: quanto stiamo vedendo, di ciò che è accaduto, poco, tanto, un
dettaglio, una casa o una città distrutta? Faceva luce soltanto la ricorrente
precisazione del corrispondente: "Come sapete, qui c'è la legge marziale".
Il programma di Michele Santoro è diventato il simbolo di ciò che non
si deve fare in una situazione di guerra come quella che abbiamo vissuto. Non perché sia
cattiva l'intenzione. Semplicemente perché non si può fare. L'imbarazzo e anche il
dissociarsi dei giornalisti dello stesso editore privato (Mediaset) lo hanno subito
dimostrato. I giudizi su quel programma televisivo sono stati molto duri. Ma ciò che è
accaduto è stato soprattutto un atto eccessivo di fede che il conduttore ha fatto a se
stesso. Ha voluto dichiarare - credo in buona fede - di essere il portatore di una
naturale superiorità, rispetto alle parti, di poter passare indenne attraverso l'uso
propagandistico di una parte sola.
Così non è stato e così non poteva essere. C'è da sperare che la
lezione, in mano a persone intelligenti, non sia andata perduta.
A differenza della NATO, media e giornali italiani non hanno mai perso
il contatto con l'opinione pubblica, anche a costo di offrire sequenze informative
contraddittorie. Contraddittorio è stato infatti lo stato d'animo di quasi tutti, orrore
per la pulizia etnica, dubbio (anche a causa della mala informazione della NATO)
sull'azione militare e la sua capacità di "cura del male". Questo è il dato
positivo di una stagione giornalistica segnata da paurosi dislivelli. Forse, al di là di
tante straordinarie incoerenze, lettori e spettatori italiani si sono un poco riavvicinati
ai propri media, li hanno riconosciuti come portatori delle loro (nostre) stesse
ambivalenze. E questo potrà giovare al destino della informazione in un paese dove la
buona informazione non ha mai avuto vita facile.