L’ora del ritorno
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Stefano Tassinari, L’ora del ritorno, Marco Tropea editore
2001, pp.158, lire 20.000 (Euro 10,33)
Stefano Tassinari è un emiliano-romagnolo che da bambino beveva le
parole dei partigiani. Andava insieme ai suoi compagni nelle case di
chi aveva fatto la Resistenza e rimaneva fino a notte fonda a farsi
raccontare le storie dei combattenti a volte traditi anche dai loro
stessi capi: i racconti di Silvio Corbari che si burlava dei nazisti
travestendosi come loro, o del famoso Stella Rossa.
Cresciuto, il piccolo Stefano è diventato giornalista militante, ha
lavorato nelle radio libere romane; ritornato nella sua regione,
adesso collabora con i programmi culturali di RadioTre e organizza
eventi culturali. Per la sua alacre e inesausta attività di
animatore letterario e culturale qualcuno lo ha accomunato a Pier
Vittorio Tondelli; noi possiamo dire che Tassinari partecipa alle
presentazioni dei suoi libri indossando maglioni di lana colorati e
non giacca e cravatta, che è uno scrittore libero, sempre ‘a
sinistra’ ma con una punta di disincanto o meglio con la voglia di
ridiscutere.
E certamente non ha dimenticato tutte quelle storie partigiane che
ascoltava da bambino, perché se ne sente vivo l'eco nel suo ultimo
romanzo, L’ora del ritorno. Un romanzo della memoria non
solo perché si muove intorno a un fatto che pur inventato ha un
impianto storico e potrebbe essere vero, e non solo perché passa in
rassegna vari eventi storici novecenteschi, ma anche perché usa
tutte le parole che gravitano intorno alla memoria:
"ricordi", "rimozioni", "dimenticare",
“paragoni tra allora e adesso”, “rimuovere dalla mente
informazioni riservate” (che era un’abitudine dei partigiani,
per non farsi uscire di bocca notizie top-secret quando erano sotto
tortura), “nasconderle in un anfratto del cervello, e un attimo
dopo confonderle con le cose più banali”.
Si parla di ricostruire. Perché spesso fatti incomprensibili
rimangono insoluti e in attesa fin quando non si ha il coraggio o
non si sente la necessità di ritornare a ripescarli nella mente,
ricostruirli e trovarvi la verità. Malgrado “certe volte la
memoria ti sconvolge lo stomaco molto più di una bottiglia di vino
cattivo”.
Spesso l’ora del ritorno arriva quando si è anziani, quando si
vuole rimettere tutto a posto prima di morire e, prima di chiudere,
dare senso a ogni cosa. E’ il Capodanno del 2000. Eugenio Accorsi,
il protagonista, ha settantacinque anni e vive da solo nella
periferia residenziale di una città. E’ stato un partigiano di
sinistra nella Seconda Guerra Mondiale, ed essendo l’unico
sopravvissuto a un massacro, agli occhi del partito è diventato un
sospettato, uno che forse ha tradito e per questo isolato. E’ un
dissidente, anche per sua volontà. Ma la verità è un’altra e la
scoprirà alla fine grazie alla figlia Luisa. Il che lo porterà a
dire a bassavoce: “Per chi l’abbiamo fatta la nostra Resistenza
se oggi la sinistra…”.
Luisa è una delle donne importanti della vita di Eugenio, insieme a
Marta, che rimane uccisa quella notte del '44 e che ricorda la
militante di Terra e libertà di Ken Loach, per i capelli “lisci
e non troppo lunghi” che spuntano da sotto il basco. Insieme alla
madre di Luisa, Giulia, un’altra compagna più ligia al partito
che all’inizio si avvicina ad Eugenio solo per spiarlo, per capire
la verità. Sono donne risolutrici, piene di risorse.
A volte profonde e insicure come la giovane madre di uno dei
microracconti che occupano i capitoli dispari e che sono inventati
dallo stesso Eugenio prendendo come personaggi la gente che il
nostro osserva dal balcone. A volte giovanissime donne con una
leggerezza che nasconde intelligenza e senso pratico, come Rita, la
giovane adolescente che non solo cantando Mercedes Benz di
Janis Joplin ammalia il protagonista del capitolo sette, un
diciottenne figlio di una coppia di sinistra, di morettiana memoria.
“Avere i genitori di sinistra è peggio che averli reazionari, o
magari ignoranti e contenti”, dice a un certo punto il
diciottenne, che inizia a raccontare la sua vita (quella inventata
da Eugenio, s’intende) sotto forma di flusso di coscienza e che
con la sua volontà, la sua ironia, la moderata paura e l’ansia
che gli stanno crescendo dentro e con la sua storia d’amore appena
nata rappresenta quasi il messaggio di speranza del libro.
L’ora del ritorno sembra un film: i dialoghi e i racconti
scorrono fluidamente ed è una lettura che non stanca mai; parole
spesso venate di malinconia e poesia ma allo stesso tempo chiare e
nitide, tipiche di chi conosce davvero il mestiere del giornalista
perché vuole arrivare alla gente, vuole dare valore a termini non
più usati come ‘contro-informazione, o di chi protesta perché
spesso si preferisce mimetizzare “un massacro di civili inermi”
descrivendolo come “un atto di ingerenza umanitaria”.
E di chi ha pensato a questa storia ben cosciente del rischio della
strumentalizzazione, perché la sua non è una ricostruzione della
memoria storica e politica agiografica o retorica ma piena di
ambiguità, anche quelle di una sinistra o meglio delle sinistre in
ridiscussione, tra cui quella che vive imborghesita e quella che,
come ha fatto Tassinari, ancora manifesta contro la guerra e anche
per questo viene tacciata di "conservatorismo".
Durante la presentazione del libro a Roma -il 9 novembre alla
Biblioteca Rispoli- proprio di questo si è parlato con lo scrittore
e con Marino Sinibaldi, autore del programma radiofonico Fahrenheit.
Se prima si cercava di ricostruire la storia in modo retorico, oggi
il cinema e la letteratura riprendono il passato italiano e in
particolare partigiano cercando di evidenziarne le contraddizioni.
Ecco allora film come Porzus (1997) di Renzo Martinelli o Il
partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa, quest'ultimo tratto
dagli scritti di Beppe Fenoglio, che era un partigiano atipico,
monarchico, eretico e non realista. Perché la storia non è una
sola: potrebbe sembrare uno slogan ma contiene verità.
“La mia generazione, quella che è stata giovane negli Anni 70 -ha
detto Stefano Tassinari- per anni si è rinchiusa in se stessa per
autodifendersi. Adesso è ora di ritornare a parlare, cercando di
capire le ambiguità che hanno gravato su di noi per troppo tempo”.
L’ora del ritorno per poi poter andare avanti.
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