Intellettuali a Milano: come
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Fulvio Papi, Gli amati dintorni. Filosofia, arte, politica negli
specchi della memoria, Ghibli, Milano, 2001
Autobiografia di una stagione culturale e filosofica del Novecento
italiano. Se dovessimo descrivere in una riga Gli amati dintorni
di Fulvio Papi, questa ci sembrerebbe la definizione migliore.
Racconto di un'epoca e di un ambiente intellettuale, quelli della
Milano tra gli anni '60 e '70 (ma che parte dai '50 e si allunga
negli '80), narrati da un testimone oculare sui generis, che
in quegli anni fu protagonista in prima persona.
Papi fu interprete di quella scena, come filosofo, come insegnante,
come giornalista e come politico militante (allora nel Psi). Per
questo di "autobiografia" si tratta. Eppure, al tempo
stesso, quella di Gli amati dintorni è una trama collettiva,
che ha coinvolto molta parte della testa pensante di una città. E
che è stata la cifra originale di un percorso culturale unico in
Italia. I personaggi che percorrono le pagine, ognuno a modo suo,
sono simboli, esemplificazioni di una storia politica e ideale che
appare ormai molto lontana.
Il primo e forse il più importante attore del libro - e della
stessa biografia dell'autore - è Antonio Banfi, il filosofo del
quale Papi fu prima allievo e poi assistente sul finire degli anni
'50. Sul filo del ricordo - una lettura consigliata, un rimprovero,
una discussione sui "fatti d'Ungheria" - si compone la
personalità del senatore comunista e del pensatore che fu uno tra i
maggiori del Novecento italiano.
La militanza di Banfi nelle file del Partito comunista e la
parallela riflessione filosofica fu un modello della "via
milanese" all'engagement. L'intellettuale e, ancor di
più, il filosofo militante, che delle sue idee ha fatto anche uno
strumento di lotta politica e culturale, sono rievocati da Papi, se
non con esplicito rimpianto, certo con una qualche nostalgia.
Oscillanti tra la filosofia e la politica sono anche i ricordi che
Papi dedica ad un altro filosofo della "scuola milanese",
Salvatore Veca. Del quale dice - a proposito della sua
"vittoria" nel linguaggio e nelle categorie del discorso
politico della sinistra contemporanea - che: "senza nulla
togliere ad altri, è stato forse l'ultimo filosofo che ha giocato
un'altra volta la carta del rapporto tra pensiero filosofico e
azione politica".
Alla rievocazione dei personaggi si appaia la meditazione sulle
idee. Papi modifica quasi in ogni pagina il registro della
descrizione e dell'evocazione dei suoi amati dintorni:
dall'intimistico ("Credo fosse il gennaio del 1957: dai vetri
della sala dei professori della Facolta' di Lettere della Statale,
entrava una luce talmente opaca...") all'analisi del pensiero
piu' rarefatto. Papi cuce insieme miscrostorie vissute in presa
diretta con la Storia con la "S" maiuscola. E questo vale
non solo per i filosofi di professione (oltre a quelli citati
bisogna ricordare i capitoli dedicati ad Anceschi, Formaggio, Dal
Pra e Sini), ma anche per gli altri protagonisti che animano il
libro.
L'incontro con Vittorio Sereni, poeta-professore, all'indomani dello
schianto del grande Torino sulla collina di Superga; il '68
nell'università di Pavia condiviso col critico letterario Cesare
Segre; le riunioni con Cesare Musatti nella Federazione milanese del
Psi; Ernesto Treccani e l'arte impegnata eticamente e politicamente.
Rievocare queste figure significa per Papi non solo far riapparire
la propria storia personale. Significa, certamente, tirare le somme,
fare i conti con il proprio passato privato. Ma non solo. I ricordi
di Papi sono anche, e soprattutto, un omaggio al ruolo pubblico, al
significato che tutti i protagonisti del Gli amati dintorni
hanno avuto in quarant'anni e più di centralità nella cultura
italiana.
Un solo capitolo del libro di Papi non è dedicato a un uomo, ma a
un'istituzione. Un luogo che interpreta e racchiude, crediamo,
l'anima di una stagione ormai conclusa della vita culturale
italiana. Si tratta della Casa della cultura, invenzione del Fronte
popolare nel periodo post bellico. Che sotto la guida di personaggi
molto in vista - il primo presidente fu Ferruccio Parri - fece
discutere intellettuali e cittadini di scienza e politica, ma anche
di psicoanalisi, cinema, letteratura, dodecafonia e pittura con la
più grande libertà. Uno stile originale e profondamente innovativo
poco apprezzato dai dirigenti comunisti del dopoguerra.
Nella Casa della cultura si sperimentò l'unione tra prassi e teoria
(di "prassi teorica" parlava Enzo Paci, un altro grande
allievo di Banfi, riecheggiando Husserl), tra politica e
intellettuali, che arrivò fino agli anni '80, quando, almeno in
certi termini, l'esperienza si concluse. La Casa della cultura è
rimasta, ma si è spenta la speranza, se si può dire, di una
politica più pensante e di una cultura e di una filosofia più
militanti. Anche perché "scrittori, poeti e filosofi - scrive
Papi - non sono più in grado di costruire una coscienza pubblica,
se si dà ovviamente alla parola 'coscienza' il significato che le
spetta come luogo della propria riflessione, identità, decisione e
scelta." Non solo a Milano, ma in tutta Italia.
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