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Il fabbricone, un cortile di storie



Elena Giandrini e Marzia Loriga con Tina Cosmai




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La compagnia Teatro Alkaest inscena lavori e testi che traggono forza dall’esperienza reale dei vissuti quotidiani e sociali degli stessi attori. Sì, perché si tratta di anziani della periferia milanese che drammatizzano eventi appartenuti alla loro vita, alla loro storia personale. Ricordi che percorrono la loro esistenza nello scorcio degli ultimi cinquant’anni, dalle origini contadine, alle guerre, alle fabbriche di Milano.

Tutto nasce e si svolge sul filo della memoria che mai smette di dipanarsi, per non dimenticare il valore di quell’identità personale che appartiene ad ognuno di noi. E’ un teatro singolare dunque, sia per i contenuti artistici sia per i risvolti sociali. Gli attori, come accennato sopra, sono per la maggior parte anziani che nell’interpretazione scenica si misurano con i propri vissuti antichi e non si limitano a rappresentare le vicende, ma le vivono attivamente sul palcoscenico.

E’ dunque il vissuto personale che entra in scena e in questo sta la forza dello spettacolo, nel particolare rapporto che si crea tra l’attore e lo spettatore, che si sente ammesso all'interno della vicenda intima del protagonista, trasportato nel viaggio personale di colui che la interpreta. E’ un intreccio tra storie, tra vissuti conservati nella mente, nei cuori.


Foto di Maurizio Buscarino


Il Teatro Alkaest è la rappresentazione, in scena, della memoria, della forza della storia rivissuta e raccontata per non perdere il senso dell’origine. La compagnia, nata nel 1984 da un gruppo di attori che per molti anni hanno lavorato con Tadeusz Kantor, mette in scena venerdì 16 novembre, in uno spazio comunale della zona 5 di Torino, il Centro Culturale Principessa Isabella, Il Fabbricone, scritto nel 1959 da Giovanni Testori, autore di Novate Milanese, per la regia di Gilberto Colla e Marzia Loriga. Il testo fa parte del grande affresco popolare disegnato da Testori con le sue prime opere quali Il Ponte della Ghisolfa, Maria Brasca, L’Arialda, ed è ambientato a Novate e dintorni.

Percorriamo la storia di questo dramma e della compagnia che lo mette in scena con i racconti di una delle attrici, la signora Elena Giandrini che in dicembre compie 83 anni, e con la direttrice artistica del Teatro Alkaest, Marzia Loriga.

Come nasce questa esperienza teatrale?

Elena Giandrini:

“Io sono una donna molto curiosa e lei sa che la sete di sapere non si placa mai. Un giorno ci hanno contattato alcune persone dicendo che avevano fatto parte della compagnia di Tadeusz Kantor e che volevano fare una compagnia teatrale con la nostra collaborazione. In quaranta siamo andati ad ascoltare ciò che avevano da dirci; volevano mettere su uno spettacolo che avesse come tema la vita e i personaggi di Novate.

"Molti si sono spaventati e hanno rinunciato, io no. Ho chiesto loro cosa davvero volevano da noi e mi hanno risposto che desideravano conoscere le nostre storie, il nostro passato lì a Novate, i fatti reali di gente comune. Ho fatto leggere loro delle cose che avevo scritto e non mi hanno più mollata. Abbiamo cominciato a fare teatro, certo ero un po’ perplessa perché alla mia età non è semplice affrontare un pubblico, ma ho accettato questa sfida con me stessa. Abbiamo preparato uno spettacolo in dialetto, il primo spettacolo, scene di vita quotidiana a Novate”.

Marzia Loriga:

“Il Teatro Alkaest nasce come lavoro sulla terza età, per puro caso, come spesso accade. Abbiamo chiesto al Comune di Novate uno spazio per mettere in scena i nostri spettacoli. Era l’ottobre del 1986 e l’assessore non voleva repliche ma lavori originali. Io da tempo desideravo lavorare con gli anziani, mettere in scena i loro racconti, stimolata anche dal clima di quel tempo, di attenzione per le storie vere. Quindi ho proposto all’assessore di teatralizzare storie vissute, di fare spettacoli con la memoria degli anziani. Lui fu molto disponibile e allora siamo andati nel luogo dove gli anziani ballavano, facevano ginnastica, ci siamo presentati e abbiamo detto che avevamo bisogno delle loro storie per fare degli spettacoli. L’esperienza è partita nel dicembre del 1987 con uno spettacolo intitolato Novate 576, un numero che è la somma degli anni di tutti, compresi noi che eravamo in quattro a lavorare con loro”.


Foto di Maurizio Buscarino


Come si è sviluppato quest’interesse per la memoria, per la storia personale?

Elena Giandrini:

“A me piace molto scrivere e racconto sempre di storie che ho vissuto o che sono accadute a persone che conosco. Scrivo un diario in cui si parla degli anziani, che raccoglie le mie riflessioni sui fatti che accadono nel cammino della vita. La vita si allunga e le famiglie diventano sempre più piccole, perché c’è esigenza di spazi di libertà sempre maggiori. Da ventiquattro anni sono vedova, ma non mi sento sola anche se il mio unico figlio è lontano; la scrittura, le storie e il teatro mi fanno compagnia”.

Marzia Loriga:

“Abbiamo cominciato a lavorare con le storie degli anziani, intessendole dei nostri desideri, delle nostre emozioni. Loro non hanno fatto nessun tipo di training teatrale tradizionale, hanno imparato le regole del teatro facendo teatro. Dopo Novate 576, abbiamo messo in scena Si vedono le nuvole, ed è la storia di un viaggio, il viaggio della loro vita. Comincia con la scena di un matrimonio in cui parlano di un’amica che deve sposarsi. La storia è ambientata nel periodo antecedente la guerra e attraversa poi la guerra e gli anni delle lotte sindacali. E’ il bagaglio della loro memoria, “più o meno pesante”, come afferma una di loro nello spettacolo.

"Vede, i testi non sono programmati, ma scritti appositamente sulle loro storie. Dopo questi due primi spettacoli, Luigi Arpini, uno degli attori di Kantor, ha scritto un testo dal titolo Il giardino dei ciliegi, liberamente ispirato a Cechov. Poi nel 1997 entra il gruppo dei giovani con Itaca, e il tema della memoria e il recupero della storia diviene più forte. Si incrociano le diverse esperienze, quella del passato e quella del futuro, interpretate e vissute sempre nell’ottica del racconto, del viaggio, della memoria. Da allora sono rimasti sempre insieme, anziani e giovani”.

Parliamo de Il Fabbricone, lo spettacolo che state replicando in questi giorni…

Marzia Loriga:

“Il fabbricone è una casa di ringhiera, popolare, costruita nel 1923 a Novate, una delle prime costruite in tutta Italia: ballatoi, bagni unici, ambienti poveri. La storia si svolge nel 1958, quando questo fabbricone era ormai distrutto, infatti nello spettacolo si dice, in milanese, “ormai era una ruera”. E’ la storia di due famiglie che abitano nel fabbricone, una di comunisti, l’altra di democristiani. In quest’ultima vi è una madre che ha un figlio che si prostituisce al Parco Sempione, una vicenda drammatica all’interno dello spettacolo. Nella famiglia comunista invece c’è il fratello maggiore, Antonio, personaggio ambiguo che frequenta ambienti loschi e nella convinzione che qualsiasi sistema vada usato per uscire da quella condizione di degrado in cui vive con la sua famiglia.

"Ne Il Fabbricone v’è una proiezione verso il futuro di un mondo che si sta trasformando, quello a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Antonio è il personaggio che simboleggia tale trasformazione. Lui pensa e dice “voglio fare la vita che piace a me, non quella che mi dice mio padre”. Questo spettacolo è una memoria assoluta di Novate, nel senso che il fabbricone esiste tutt’ora. Molti dei nostri anziani hanno conosciuto i personaggi della storia. Naturalmente Giovanni Testori ha reinventato e riscritto quelle storie, probabilmente alcuni nomi sono inventati, ma per gli anziani fare questo spettacolo significa ripercorrere una parte della loro vita che ricordano perfettamente, alcuni di loro hanno abitato proprio nel fabbricone. Mettono in scena la loro storia anche quando non è vissuta direttamente. E Redenta, una delle protagoniste dello spettacolo, è la personificazione della memoria, è la memoria che racconta. C’è una frase della drammaturgia che rende bene l’idea del personaggio: “Quando una cosa lei l’aveva là in testa, era chiusa in una cassaforte, chiusa per sempre”. Redenta non dimentica, conserva tutto nella sua mente”.

Elena Giandrini:

“Ho vissuto per molto tempo in queste case, in questi fabbriconi dove accadeva di tutto, conflitti familiari, politici, amorosi, dove abitavano famiglie di lavoratori sempre in lotta. Nello spettacolo io sono la Redenta, una ragazza a cui è morto il fidanzato in guerra, ed è per questo che è sempre rabbiosa, perché non è riuscita a coronare il suo sogno d’amore. Poi c’è questa passione tra una ragazza di famiglia democristiana e un ragazzo comunista. La Redenta è molto vicina a questa coppia, li protegge perché sono stati ripudiati dalle loro famiglie.

"Vi è un pezzo della mia storia in questo dramma, perché io mi sono sposata durante la guerra, per fare in modo che mio marito non andasse in Russia; dopo due anni è nato nostro figlio, alla fine del 1943, mentre mio marito era giù a Crotone. Non avevo sue notizie, lui è tornato a casa che il mio bambino aveva già due anni. E’ venuto su a Novate da Crotone, il 25 aprile era a Bologna, è stato uno dei primi ad arrivare con gli americani. E quando è arrivato siamo andati ad abitare proprio nel fabbricone della storia, era l’unico, solo in mezzo a tanto terreno.

"Riprendere e mettere in scena la mia storia mi aiuta a vivere, a non sentirmi sola. La memoria è importante, questa società la sta perdendo e invece noi, con questo teatro la teniamo viva, la raccontiamo. Io scrivo sempre, sui miei ricordi d’infanzia, sulle ore e i giorni passati. Mi piace ricordare il primo bacio che ho avuto, a diciannove anni, da mio marito.”

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