Per uno spazio pubblico planetario
Parla Marc Augé
A cura di Alessandro Lanni
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Etnologo, antropologo della quotidianita', Marc Auge' si occupa da
lungo tempo di "spazi", in particolare di quei luoghi sui
generis detti "non luoghi". Ha dedicato diversi lavori
a questo tema (in particolare: Un etnologo nel metro' 1992; Non
luoghi 1993; Disneyland e altri non luoghi 1996), nei
quali stazioni, aeroporti, metropolitane divengono ambienti tipici
dell'Occidente dove l'individuo si percepisce anonimo, solo e senza
senso.

In occasione del Festival di filosofia di Modena
(21-23 settembre), Auge' ha risposto ad alcune domande all'indomani
dei drammatici eventi di New York e Washington. Lo spazio del quale
ha parlato non e' piu' quello, per certi versi claustrofobico, dei
"non luoghi", ma si prefigura come la necessita'
impellente di un luogo aperto di discussione pubblica.
Professor Auge', dopo gli attentati agli Stati Uniti si profila
una crisi che, se non e' mondiale, ci si avvicina parecchio. Si
tratta di uno scontro tra civilta', tra Occidente e Islam, tra Nord
e Sud?
Credo che il mondo non possa essere tagliato drasticamente in due
parti. E' vero, esistono il mondo dello sviluppo e quello del
sottosviluppo. Esistono poli caratterizzati dalla miseria e altri
dalla ricchezza, ma questo non significa che non siano correlati.
Insomma non si puo' pensare il mondo come diviso in due con da un
lato i poveri e i valori e dall'altro la tecnologica e la
postmodernità: si tratta dello stesso mondo.
Si riferisce alla globalizzazione?
Quello che va sotto il termine "globalizzazione" esprime
proprio questa profonda unita' dei processi. E' vero, la felicita'
dei ricchi ha conseguenze immediate sui Paesi poveri. E d'altra
parte, ci sono aree di sottosviluppo anche nall'interno delle
nazioni ricche. La "cosmotecnologia" (neologismo con cui
Augé nomina l'orizzonte culturale e di senso della contemporaneita',
ndr) che in questo momento domina il mondo ha delle conseguenze
anche sulle comunita' piu' isolate. E cio' esprime bene il paradosso
stesso della globalizzazione. Da un lato essa dovrebbe indicare
l'unita' di tutti i processi, dall'altro assistiamo alla crescita
delle disuguaglianze tra i diversi stati. Nasce cosi' non una
geografia a due dimensioni, ma una geografia pluridimensionale che
ci impedisce di pensare semplicisticamente alla polarita'
sviluppo/sottosviluppo.
Esiste una relazione tra i drammatici eventi di New York e
Washington e la globalizzazione?
Si', credo che gli attentati vadano letti e compresi in relazione
con la globalizzazione. Chi finanzia gli attentatori non e' certo
povero, non rappresenta i paesi poveri e neanche i terroristi sono
poveri: sono stati educati in Occidente, sanno guidare aerei.
Tuttavia eventi straordinari come quelli dell'11 settembre superano
molto la personalita' degli attentatori, che non e' un elemento
fondamentale per la spiegazione degli eventi stessi.
Ci spieghi meglio...
La nostra difficolta' e' piuttosto nel renderci conto che la scala
per valutare gli eventi e' cambiata. Il presidente Clinton disse una
volta qualcosa che suonava all'incirca cosi': "le questioni
internazionali sono diventate questioni interne". Questa frase,
che per un certo verso puo' suonare imperialistica nella bocca
dell'allora presidente degli Stati Uniti, manifesta la stretta
relazione che intercorre tra la totalita' del mondo e i singoli
Paesi, le singole aree.

Non e' corretto, dunque considerare gli attentati
alle Twin Towers come provenienti da un altro mondo. Una metafora
potrebbe essere: il mondo e' affetto da una malattia auto immune, il
sistema immunitario si rivolta contro lo stesso organismo. Gli
attentati potrebbero essere letti cosi': i terroristi hanno
attaccato con gli strumenti stessi, con la stessa tecnologia
occidentale. Anche questo, forse, rende cosi' difficile per noi
comprendere un evento come quello dell'11 settembre. Siamo costretti
a cambiare gli strumenti di valutazione, ma non ne possediamo ancora
di nuovi. Non c'e' ancora un'opinione pubblica, uno spazio pubblico
planetario a cui potersi riferire. Ed e' chiaro che attentati come
questi cercano di affossare l'apertura di uno spazio di discussione
collocando le relazioni internazionali sotto il segno della
violenza.
Dopo gli attentati cambiera' la nostra percezione dello spazio?
L'11 settembre ha ucciso quello che lei chiama "spazio
pubblico"?
Non credo ci sara' un cambiamento nella comprensione dello spazio in
futuro. Piuttosto assisteremo alla sua illustrazione piena. Abbiamo
tutti visto che le torri sono crollate in diretta. Per molti di noi
questo e' stato uno shock che per molte ore ci ha fatto pensare ad
un film. Queste immagini di violenza sembrano sempre venire
dall'esterno del mondo, invece, bisogna prenderne atto, ne fanno
parte. E' probabile che la crisi sara' trattata come un regolamento
di conti planetario. Ma in realta' questo accelerera' la
costituzione di quello spazio pubblico che e' una condizione
essenziale per il nostro futuro.
Sta parlando di un futuro prossimo?
Questa costituzione e' difficile per molte ragioni. Esistono ancora
dei poli che possono suscitare violenze o battute d'arresto al
processo. La globalizzazione, malgrado lo si senta dire spesso, non
ha affatto terminato la storia del mondo. Per esempio, questa crisi
e' con l'Islam, ma si possono prevedere momenti difficili anche con
la Cina, in un eventuale scontro con Taiwan. Oppure con i grandi
movimenti religiosi che stanno facendo proseliti nell'America del
sud. Insomma, nella globalizzazione esistono una serie di movimenti
che puntano all'universalita' e costituiscono una serie di
contraddizioni, di fermenti che rallentano l'evoluzione verso uno
spazio pubblico mondiale.
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