L'aspetto nascosto della nostra
storia
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Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli
italiani negli Stati Uniti 1776-1880, Mondadori, pagg.856, L.80.000
Francesco Durante è tornato da poco - "stavolta
definitivamente" - nella sua amata Napoli, dopo svariati anni
come "emigrante" a Milano, presso il settimanale Donna di
la Repubblica. Oggi Durante è caporedattore del Corriere
del Mezzogiorno, il dorso napoletano del Corriere della Sera,
ma per qualche tempo ha sospeso l'attività di critico letterario,
autore di numerosi saggi e storie della letteratura, e di traduttore
(sua la versione italiana di sei romanzi di John Fante) per dedicarsi
anima e corpo alla stesura di due tomi mastodontici incentrati sulla
figura dell'emigrato italiano negli Stati Uniti.
Il primo, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli
Stati Uniti 1776-1880, è appena uscito per Mondadori (che
pubblicherà a ruota anche il secondo) e racconta - attraverso una
collezione di poesie, diari, lettere, inni - la presenza degli
italiani in Nord America, dall'anno della Dichiarazione di
indipendenza degli Stati Uniti fino alla vigilia della grande
emigrazione.
"Un periodo del quale non si sa quasi nulla", afferma
Durante. "Pochi immaginano che ci fossero italiani in Nord
America in quel secolo, e invece esisteva già una comunità di poche
migliaia di persone che, per quanto numericamente scarsa, costituiva
già la quarta etnia presente negli Stati Uniti."

Perché scrivere un libro come questo?
Perché non c'era, prima di tutto, ed era immorale che non ci fosse. Italoamericana
copre un aspetto nascosto della nostra storia, un aspetto del quale ci
si ricorda poco, tanto che mi piacerebbe che il mio saggio venisse
adottato nelle scuole. Dal molo dell'Immacolatella Vecchia a Napoli si
sono imbarcati almeno quattro milioni di italiani per trasferirsi
all'estero, eppure su quel porto non c'è una sola targa che ricordi
questo esodo, che secondo me è il più grande avvenimento della
storia dell'Italia unita. Non c'è stato nulla di altrettanto
colossale quanto l'emigrazione. Eppure l'abbiamo totalmente rimossa,
quando invece dovrebbe ritornarci in mente proprio adesso che da paese
emigrante siamo diventati paese di accoglienza.
Eppure molti italiani non considerano quella degli emigrati come
storia nazionale.
Fanno male, perché invece è una storia che riguarda tutta
l'Italia, e non solo il Sud. Con cifre da paura: il Veneto, il Friuli,
ma anche il Piemonte sono state regione di emigrazione fortissima. La
Liguria poi è stata letteralmente decimata dall'emigrazione, tra
l'altro cominciata prima che nel Sud. L'America è piena di paesi e di
città dove si ritrova l'Italia di cento-centocinquant'anni fa, e dove
si è conservata, miracolosamente integra, un'identità che noi
abbiamo perduto.
Crede che lo sforzo degli italoamericani per tenersi strette le
proprie radici possa esserci utile a ritrovare le nostre?
Assolutamente sì, e anche a farci intravedere il futuro. C'è una
strada di East Harlem, credo la 115esima, nella zona dove un tempo
abitavano Fiorello La Guardia e i più noti italoamericani della sua
epoca, e che poi è diventata prima la Harlem nera e poi la Harlem
ispanica, dove c'è un santuario che celebra l'immagine di una Madonna
proveniente da Polla, un paese che alla fine dell'Ottocento si era
quasi totalmente trasferito in America. Quella Madonna era diventata
un punto di riferimento per tutti gli italiani della zona.
Oggi, a distanza di più di un secolo, gli italiani alla 115esima
strada non ci sono più, perché si sono trasferiti in quartieri più
eleganti. Ma in luglio, in occasione della festa della Madonna,
tornano tutti lì a seguire una straordinaria processione che nel
frattempo si è contaminata con elementi caraibici, addirittura vodoo.
E' uno spettacolo commovente e bellissimo, un miracolo di integrazione
culturale, e una testimonianza della possibilità che ha la cultura di
alimentarsi di nuove linfe.
Quanto lavoro di ricerca ha richiesto questo saggio?
Tre anni effettivi, ma in realtà ho cominciato a raccogliere
informazioni già nel '93. Ma ho dovuto licenziarmi per poter passare
un anno totalmente su questa materia. Ho esplorato settanta fra
biblioteche e archivi in Italia e in America, facendo la spola fra i
due continenti.

Quali sono i personaggi italiani più
significativi nei quali si è imbattuto facendo ricerca per Italoamericana?
Ho scoperto che c'erano italiani presenti a ognuno degli snodi più
incredibili della storia americana - magari sullo sfondo, ma c'erano.
A volte neanche tanto sullo sfondo: nel 1776 Filippo Mazzei,
consigliere di Thomas Jefferson, gli ispirò la parte iniziale della
Dichiarazione di indipendenza, quella che comincia con "Ogni uomo
nasce libero". Mazzei firmò molti articoli rivoluzionari sulla Virginia
Gazette e fu uno dei propagandisti dell'indipendenza americana in
Europa.
Il librettista Lorenzo Da Ponte visse in America la parte finale -
forse la più significativa - della sua vita esportando l'opera
italiana a New York. Poi ricordo una quantità di esuli
risorgimentali, spesso con un passato torbidissimo, come Antonio
Gallenga, che era stato armato da Mazzini per uccidere Carlo Alberto e
che sul più bello non ce la fece e scappò in America, o Carlo
Camillo Di Rudio, che aveva attentato alla vita di Napoleone terzo e
che dopo essere stato incarcerato nella Guyana, era finito a
combattere a Little Big Horn col Generale Custer.
Quale personaggio è stato una vera scoperta?
Le scoperte sono state decine, perché quasi il 90% del materiale
che propongo nel saggio è inedito. Il personaggio al quale sono più
legato è però Bernardino Ciambelli, detto "l'Omero di Mulberry
Street", di cui parlo nel secondo volume - un lucchese, e Lucca
è stata una delle province più spopolate dall'emigrazione. Ciambelli
era un giornalista trapiantato a New York che alla fine dell'Ottocento
pubblicò decine di grandi feuilleton con titoli come I misteri di
Mulberry Street (una celebre strada di Little Italy, ndr) o La
trovatella di Bleeker Street, in appendice ai quotidiani
italoamericani, o nella forma del dime novel, cioé a fascicoli
settimanali da dieci centesimi l'uno.
Da un punto di vista strettamente sintattico e grammaticale i romanzi
di Ciambelli erano scritti malissimo, ma erano eccezionali per la
quantità di cose che racconta: ci ha lasciato la testimonianza di un
mondo fantastico.. Era anche attore e drammaturgo, ad esempio ha
scritto un testo teatrale su Petrosino. Eppure in Italia è un
illustre sconosciuto, ed è ignoto anche in America, al di fuori della
comunità italoamericana, perché scriveva in italiano e non è mai
stato tradotto in inglese.
Peraltro Ciambelli ha avuto una funzione di educazione, perché in
alcuni suoi drammi dell'emigrazione c'è la descrizione dello
sfruttamento del lavoro degli emigranti da parte di boss più o meno
mafiosi. Alcuni radicali, come Carlo Tresca, hanno ricordato come
durante la loro infanzia i libri di Ciambelli fossero stati importanti
per dare una coscienza civica agli immigrati.
Gli immigrati negli Stati Uniti nell'Ottocento si consideravano ancora
italiani, o avevano già acquisito un senso di identità americana?
Secondo me l'italoamericanità comincia già nel Settecento. James
Philip Puglia, un quasi contemporaneo di Mazzei, genovese di origini
ticinesi, scrisse e pubblicò, in spagnolo e in inglese, un trattato, The
Federal Politician, in cui c'è un passo che rievoca la sua
indignazione perché non volevano dargli un incarico governativo in
quanto straniero - una rivendicazione di appartenenza che anche il
Lorenzo Da Ponte è fortissima.
E fin da subito è evidente fra gli immigrati italiani in America un
forte senso di scissione interna. Ad esempio Eleuterio Felice Foresti,
il capo della congrega mazziniana di New York, nel 1856 venne nominato
console americano a Genova, scrisse dall'Italia alcune lettere in
America parlando della enorme nostalgia per quel mondo che gli
appariva assai superiore sul piano delle libertà civili.
E anche se l'emigrazione della quale parlo nel primo volume di Italoamericana
era più colta di quella di massa del volgere del secolo, c'era
già una scissione fra lingua madre e lingua del paese di arrivo Ho
pubblicato le lettere di Adolfo Farsari, un avventuriero che combattè
nella guerra civile americana, che si scusava con i genitori per il
suo cattivo italiano: "Ormai non me lo ricordo più bene",
scrive, e quando parla dei nemici, lui che combatteva coi nordisti,
non dice "il sud", ma "il south".

Una decina di anni fa Gay Talese ha fatto una
sparata sul New York Times dicendo che non esisteva una
letteratura italoamericana. Aveva ragione?
In realtà la letteratura italoamericana c'era, era lui che ne
ignorava l'esistenza. Adesso ha cambiato idea, perché ha scoperto
autori come John Fante, del quale finalmente è uscita una biografia
in America scritta da Stephen Cooper. Ma il panorama della letteratura
italoamericana è sempre stato molto vivace, anche se forse sono
mancati i grandi capolavori. L'unica opera di un autore italoamericano
a raggiungere la grande notorietà è Il padrino di Mario Puzo,
che però non è un capolavoro.
Come mai Fante ha avuto successo prima in Europa e poi negli USA?
In Europa è stato scoperto durante gli anni Ottanta, quando in
America l'avevano già completamente dimenticato. Charles Bukowski,
molto più seguito in Europa che negli Stati Uniti, aveva scritto la
prefazione alla riedizione americana di Chiedi alla polvere (il
romanzo più noto di John Fante, ndr), dove raccontava di aver
imparato a scrivere perché, frequentando la biblioteca di Los
Angeles, si era imbattuto del tutto casualmente nel personaggio di
Arturo Bandini (protagonista di Chiedi alla polvere e di altri
romanzi di Fante, ndr). "Il mio maestro è Bandini", aveva
allora dichiarato Bukowski, e la sua dichiarazione ha fatto da traino.
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