Una senese a New York
Laura Biagi con Angelica Alemanno
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Laura, non ancora trent’anni, ricercatrice. Una “italiana all’estero”,
per la precisione a New York, cioè una delle tante donne del nostro
Paese che vivono e si autogestiscono cercando di portare il proprio
contributo culturale e nazionale oltreoceano. Laura è una studentessa
ma anche una cantante dedita alla ricerca spirituale. Dopo la laurea
ha compiuto la difficile scelta del dottorato, accettando di
continuare la sua ricerca accademica in un Paese che non è il suo, un
paese “lontano e difficile” come gli Stati Uniti.

Di cosa si occupa esattamente e cosa sta “ricercando”?
Mi occupo di arte e spettacolo in generale e di musica in particolare.
Da un paio di mesi ho iniziato a studiare medicina alternativa,
soprattutto l’Ayurveda, una filosofia indiana che include uno studio
della dieta e dell’alimentazione. Sto cercando di integrare l’arte
della terapia naturale con il mio studio e la mia pratica in campo
artistico.
Conosceva gli Stati Uniti prima di trasferirsi. E com’è il suo
rapporto con la lingua?
Ho iniziato a studiare inglese quando avevo 10 anni. Sono sempre stata
attratta da questa lingua, forse perché da piccola ascoltavo la radio
e soprattutto la musica rock e pop, inglese e nordamericana. Perciò
conoscevo gli Stati Uniti prima di venirci proprio grazie alla musica.
Poi ho preso un diploma e una laurea in lingue straniere. Ho cantato
per la prima volta in pubblico quando avevo 7 anni e cantavo pezzi in
inglese. E anche prima di conoscere la lingua inventavo i testi
cercando di mimarne il suono. Sapevo che prima o poi avrei vissuto a
New York. Tra l’altro non sono la prima della famiglia a farlo. Il
nonno di mio padre ha lasciato la Calabria per venire a Brooklyn
durante la Grande Immigrazione all’inizio del secolo scorso.
Che cosa significa per una studentessa vivere a New York con una
borsa di studio? Sente sulla sua pelle di essere una straniera?
Senza la borsa di studio non ce l’avrei mai fatta. Col dollarocosì
"alto"? Forget it. Anzi, diciamo pure che senza la
mia famiglia non ce l’avrei mai fatta: per me sono un supporto
spirituale e materiale. Vivo a New York da tre anni, e anche se mi
mantengo lavorando nel dipartimento dove studio (il Performance
Studies Department, presso la New York University, www.nyu.edu),
mio padre mi ha aiutata pagandomi il viaggio di andata e ritorno dagli
States e anche mandando dei “rinforzini” come li chiama
lui, cioè un po’ di soldi ogni tanto.
Il primo anno è stato difficile perché New York offre tante
possibilità e si vuole provare tutto. Però tutto costa. Piano
piano ho imparato a vivere dell’essenziale e comunque sono molto
fortunata perché posso anche permettermi qualcosa in più. Non mi
sorprende che io abbia iniziato a studiare e praticare il buddismo a
New York. E’ una città nella quale, se ci si lascia prendere la
mano, si possono spendere un sacco di soldi per delle cose davvero
effimere. Si, mi sento straniera, sulla pelle, nel cuore, nello
spirito. Allo stesso tempo, New York è una città nella quale vivono
genti di etnie diverse. E’ davvero incredibile: si presta a essere
la tua città se è tuo il destino di viverci, almeno per un po’.

Come definirebbe New York con una metafora?
Una mamma generosa e un po’ sbadata. Una città femmina, malgrado
tutti i suoi fallici grattacieli.
Le sono mai capitati episodi, anche minimi, in cui ha percepito la
differenza, e si è sentita un’estranea alla comunità?
Si, per via della lingua prima di tutto e del linguaggio del corpo che
l’accompagna. Sono toscana e a Siena mi hanno insegnato che si “parla
come si mangia,” cioè si parla per esprimere e non per nascondere.
Quando si vive all’estero, anche se si parla la lingua locale, ci
sono delle espessioni che non trovano il loro giusto segno, che
sia un gesto o una parola, e per quanto ti sforzi nessuno ti comprende
come lo farebbe il panettiere sotto casa in Italia. Si cercano allora
altri modi di tradurre o di esprimere quel concetto ma non sempre ci
si riesce. Percepisco la distanza con l’Italia, soprattutto con la
famiglia e gli amici. Per il resto mi sento molto a mio agio.
Il suo essere donna la limita mai nelle scelte quotidiane a New
York?
Per niente, anzi. Mi sento molto tranquilla e rispettata per quello
che sono. Il sistema accademico americano si basa sulla meritocrazia e
non sul nepotismo e questo è un dono prezioso per una donna
ricercatrice. Se vali e vuoi, ottieni, senza compromessi che infangano
la tua dignità o il rispetto di te stessa come essere umano.
Lei si occupa di musica popolare italiana, che è “cultura di
nicchia” persino nel nostro Paese. In che modo negli Stati uniti è
percepita questa tradizione, e ci sono fessure di scambio e
contaminazione?
Il folk è molto apprezzato negli Stati Uniti. A New York ci sono ogni
giorno molti concerti e spettacoli di musica e cultura tradizionali di
diverse parti del mondo. La musica popolare italiana non è molto
conosciuta, nonostante una vasta comunità di italoamericani, e non
solo, interessati alla pizzica e al tarantismo.
Si conosce la tradizione della musica popolare napoletana e del Sud in
generale per via dell’immigrazione. Naturalmente siamo vittime dei
soliti stereotipi, tarantella pizza e pomodoro. La mancanza di
interesse e conoscenza ci fa spesso essere stranieri in casa propria.
La musica popolare tradizionale italiana, come la tarantella o la
pizzica, è un “prodotto da museo” o è qualcosa ancora vivo che
ha trovato il suo spazio di evoluzione anche dentro una cultura “altra”?
La bellezza della musica popolare, anche se a volte la si chiama
tradizionale, è che non è fissa o immutabile. Al contrario! Si, ci
sono delle strutture fisse ma è proprio nella natura della musica la
capacità di muoversi e di adattarsi a contesti sociali, politici, e
linguistici diversi. E’ molto vivo l’interesse per il tarantismo
che ha trovato il suo spazio come musica terapeutica, come mezzo
catartico.
A New York Alessandra Belloni, romana, insegna la pizzica (tamburello
e ballo) da più di venti anni e ha creato uno spazio culturale nel
quale la gente si riunisce per suonare e ballare. Poi, all'interno
delle comunità italoamericane, ci sono ancora molte famiglie che
usano la tarantella per celebrare le feste.
Mi parli da cantante, e non da ricercatrice. Come crede di mettere
a frutto questa esperienza americana? Quali sono i suoi sogni e le sue
più prossime aspirazioni?
Il mio sogno è quello di poter continuare a ricercare. Vorrei
studiare e praticare la medicina alternativa, lo yoga e la
meditazione, la musica, il movimento e i colori. Vorrei trovare una
pratica originale che unisca tutto questo per poi poterla condividere
con altri.
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