Il pensiero dominante
Francesco Roat
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Poesia è attenzione precipua alla parola, al suono della parola (sia
acusticamente, quale registro armonico del verso, che letterariamente,
quale ritmo e cadenza). Forse solo in questo è individuabile un
distinguo significativo dalla prosa, interessata sì alla pregnanza
tonale del lessico ma costretta alla sintassi del periodare narrativo:
sempre meno libero rispetto alla parola poetica che non tanto
racconta, illustra o descrive sebbene equivale a un evento. E’ in
sé presenza viva d’evento, al contempo e forma e contenuto. Come se
la poesia eliminasse ogni iato tra singolo e universo, tra il
percepire e l’oggetto della percezione, tra io e altro da me, sia
esso il resto dell’umanità o il mondo.
Perciò -scrivono Franco Loi e Davide Rondoni nell’introduzione alla
loro antologia poetica Il pensiero dominante,(Garzanti, 2001)-
la poesia è ancora a tutt’oggi “un oggetto strano, sospetto”
nel suo rimettere sempre in questione l’adeguatezza del rapporto che
ognuno intrattiene con sé stesso, con gli altri e con le cose. Nel
suo esprimere la commozione, lo stupore dell’accadere.

Quasi che la poesia, per usare un’espressione di Mario Luzi,
manifestasse la disposizione del mondo a dirsi. Eppure paradossalmente
il dire poetico non sta tanto nella parola ma nella tensione che la fa
nascere. Non si risolve nel verso sublime, nella metafora riuscita,
nel vocabolo allusivo. Non già canto, la poesia più autentica e meno
letteraria è semmai grido, è qualcosa che si situa nella parola ma
insieme la travalica usandola come trampolino di lancio, come
strumento - raffinato quanto si vuole o umile - per consentire la com/prensione
e l’ascolto.
Tesi a rimarcare l’ambito empatico di ri/sonanza della poesia, Loi e
Rondoni sottolineano infatti che si è sempre poeti in due, nel senso
che il dire e il darsi poetico è costitutivamente - al di là di ogni
tipologia, estetica o scuola - ambito esperienziale, cioè incontro
fra chi scrive e chi legge.
Non si ha dunque da essere esperti, critici o studiosi per avvicinarsi
alla poesia da lettori e ancor meno da autori. E forse ciò che negli
ultimi decenni ha più allontanato i giovani da questa modalità
espressiva è il timore di accostarsi a qualcosa di libresco, paludato
e retorico che può venire tristemente associato al mandare a memoria
controvoglia i versi dei classici al solo fine d’una promozione
scolastica.
Così accade che nonostante la produzione poetica nel nostro Paese sia
interessante, ricca di fermenti e vivace, la maggior parte dei poeti
(tranne qualche nome illustre) viva una sorte di semiclandestinità,
riuscendo - quando va bene - a farsi pubblicare presso Case Editrici
sconosciute, magari a pagamento o dietro cospicuo contributo spese.
Quindi i testi non circolano specie se i librai stessi, per timore di
rese, evitano prudenzialmente di ospitare sui propri scaffali volumi
di poesia già in odore di macero seppure ancor freschi di stampa.
Va dunque un plauso a quest’antologia di autori italiani in cui
compaiono pochi nomi celebri e parecchi sconosciuti al grosso
pubblico. Si tratta di una nutrita serie di poesie in lingua e in
vernacolo (circa duecento), pubblicate negli ultimi trent’anni, il
cui comune denominatore è quello - avvertono i curatori, poeti
ambedue, sebbene diversi per età e scelte stilistiche - d’essere
una raccolta di testi “che ci hanno colpito e comunicato qualcosa di
importante”.
Inutile qui stilare elenchi o graduatorie di merito, anche perché, lo
ammettono Roi e Rondoni: “Molto ci sarà sfuggito”. Basti, a mo’
d’esempio, una citazione giusto dalla prima poesia del libro -
peraltro splendida - di Antonella Anedda:
…”L’inverno dispone il suo tempo
come pane lo posa sui davanzali di pietra
con calma raccoglie il mio sguardo
il tuo collo il geranio forato dal passero
la carta che la pioggia ha bagnato”…
Ogni interpretazione - mi pare -, ogni altro commento è superfluo
davvero.
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