Una finzione intenzionale
Franco Fortini con Renato Parascandolo
Articoli collegati:
Contro la volgarità del cuore
umano
Un veicolo di libertà
Il poeta e i suoi luoghi
L'amore del tempo
La Residencia de Estudiantes
Il pensiero dominante
Mario Luzi: scrivere come euforia vitale
Lettera aperta di un piccolo editore
Una finzione intenzionale
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia delle Scienze
Filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Fortini, proviamo ad iniziare in modo diretto, immediato,
con la domanda essenziale: che cos’è la poesia?
Rispondere è come se si volesse rispondere a “che cos’è l’uomo”
o a “che cos’è il mondo”. Bisogna aggirare la difficoltà.
Ammettendo che si sappia che cos’è il linguaggio articolato di cui
ci serviamo e quali sono i diversi aspetti, le diverse funzioni che
coesistono in ogni atto del linguaggio, si può dire che nel
linguaggio umano c’è una funzione che tende a mettere in evidenza
soprattutto, o almeno in modo particolare, il linguaggio stesso, ad
attirare l’attenzione sulla forma della comunicazione. Ebbene questa
è la funzione poetica.
Certo bisogna tener presente che quando si parla di poesia questa
parola significa due cose: da un lato, appunto, un tipo particolare di
discorso parlato o scritto che si distingue da altri modi di
comunicazione; dall’altro, invece, un’attribuzione di valore per
cui si dice “poesia” per dire qualcosa di bello, di importante, di
riuscito, di meritevole di stima o di attenzione.
Nel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è
un discorso, o ragionamento, o una comunicazione dove prevalgono
elementi di ritmo e cadenze, di ripetizioni, di immagini che alterano
i significati immediati e che gli conferiscono, oltre ai primi, anche
significati interiori. Per un altro verso, quando noi diciamo “questa
è poesia” intendiamo in genere qualcosa di elevato e di nobile, di
rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente
ecc.
Facciamo un esempio. Se io dico: “Madre dei santi, immagine della
città superna, del sangue incorruttibile conservatrice eterna” ecc.
- con quello che segue nella Pentecoste del Manzoni - posso dare
importanza al ritmo, ai gruppi di sillabe, al sistema di accenti e di
rime e naturalmente posso anche sapere, oppure qualcuno ce lo spiega,
che in questo caso l’appello è diretto alla chiesa cattolica.
Invece se io dico: “Trenta dì conta novembre con april, giugno e
settembre, di ventotto ce ne è uno, tutti gli altri ne han trentuno”,
anche qui trovo ritmo - infatti sono quattro ottonari - e trovo delle
rime.
Insomma, se devo chiedermi come classificare l’inizio di una delle
più famose composizioni letterarie della lingua italiana, oppure di
un soccorso mnemonico come quello che ci vuole informare di quali
siano i mesi che hanno trenta o trentuno giorni non c’è dubbio che
l’uno e l’altro devono essere considerati in questo senso: poesie
o testi poetici. Si potrebbe obiettare che nell’un caso ci sono
delle parole desuete, arcaiche, solenni, nell’altro caso no. Ma non
è del tutto vero perché, per esempio, nel testo manzoniano ci sono
delle parole come “superna” oppure delle inversioni - si dice: “del
sangue conservatrice” invece che “conservatrice del sangue”- ma
anche nel proverbio rimato troviamo per esempio delle parole in disuso
come “dì”, oppure delle abbreviazioni o troncature come “april”
invece di “aprile”.
Ecco, è a questo punto che viene avanti il secondo significato
correntemente attribuito alla parola “poesia”. Nel primo caso c’è
un oggetto sublime; si tratta niente di meno che della discesa dello
Spirito Santo e poi soprattutto non ha nessun senso isolare questi
primi versi che ho letto da quelli che seguono; mentre nella seconda
è una canzoncina puerile con dei fini di sostegno alla memoria. Ora
qui dobbiamo decidere: ci occupiamo della poesia come oggetto di
bellezza, di commozione o di espressione o ci occupiamo piuttosto
della poesia come oggetto verbale, ossia come un tipo particolare di
comunicazione, sospendendo per il momento ogni giudizio di valore ?
Allora approfondiamo questo aspetto della poesia proprio come “oggetto”
verbale. Che cosa è che chiamiamo una “poesia”?
Certamente oggi - non due o tremila anni fa quando, probabilmente, la
questione sarebbe stata diversa - quando noi diciamo “una poesia”
intendiamo una composizione, un testo non lungo dove sia possibile
identificare un certo sistema che è indicato graficamente dagli “a
capo” e poi anche da un congegno di pause maggiori, quelle che
separano una unità ritmica da un’altra. Ebbene, queste possono
corrispondere o non corrispondere alle intonazioni cosiddette naturali
e in questo caso comunque le chiamamo “verso”.
Ora, se io parlando o scrivendo faccio tornare ad intervalli uguali
certi accenti e certi accenti tonici, si forma, come si suol dire, un’attesa
tecnica. Prendiamo la comunicazione normale: “se mi dai quella mezza
matita che è posata vicino al tuo libro, ti sarò molto grato, mio
caro, e al più presto te la renderò”. Questo enunciato è un
gruppo di quattro decasillabi e chi ascolta o legge si aspetta che il
discorso continui ripetendo lo stesso schema ritmico. Molto spesso dei
prosatori fanno uso di questi schemi ritmici con effetti vari.
Nel Cinquecento un retore veronese o padovano, Sperone Speroni,
iniziava così una sua orazione: “Noi Padovani generalmente siamo
allegrissimi non solamente per l’onor nostro particolare e per la
pubblica utilità, onde noi siamo non poca parte, ma per l’onore di
tutto il popolo”: era una serie di quinari con i quali egli credeva
di dare sostenutezza al suo discorso. In epoca contemporanea è
possibile vedere come certi scrittori, per esempio il bravissimo
Silvio D’Arzi, abbia costruito un suo racconto in novenari
abbastanza nascosti per cui il lettore non se ne accorge ma,
insensibilmente, gli viene suggerito un ritmo. Questo è un
procedimento che naturalmente i grandi prosatori hanno in qualche modo
sempre seguito, e che spiega perché si sia potuto parlare di un “ron
ron” per esempio per la prosa di Flaubert. Ognuno avverte che ci
sono degli elementi di scansione anche nelle scritture in prosa.
Ora, se a questo punto alle ricorrenze degli accenti si aggiungono le
ricorrenze sonore, certi nessi vocalici o consonantici che vengono
chiamati nel linguaggio della retorica le allitterazioni, le omofonie,
o le rime, l’attesa dell’ascoltatore e del lettore si farà sempre
più forte, sia che essa sia adempiuta, sia che essa resti delusa.
Prendiamo un esempio del Metastasio: “Se a ciascun l’interno
affanno si vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci
farebbero pietà”. Sono quattro gruppi di otto sillabe legate anche
da rime, ma se io invece di “pietà” scrivessi “commozione”
che cosa verrebbe? Verrebbe: “se a ciascun l’interno affanno si
vedesse in fronte scritto, quanto quei che invidia fanno ci farebbero
commozione”: a questo punto avremmo una delusione nella nostra
attesa. Però, attenzione: le cose possono diventare più complesse e
due delusioni messe ad adeguata distanza e rimate tra loro non ci
deludono più. Per esempio in questi versi sempre del Metastasio: “Sogna
il guerrier le schiere/ le selve il cacciator/ e sogna il pescator/ le
reti e l’amo./ Sopito in dolce oblio/ sogno pur io così/ colei che
tutto il dì/ sospiro e chiamo”.
Oggi è quasi naturale identificare la poesia con la poesia lirica,
intendendo una espressione di sentimenti soggettivi, mentre noi
sappiamo che la poesia come momento del linguaggio e dell’esperienza
può trovarsi naturalmente nell’epica come nella drammatica, nella
narrativa e persino anche negli scritti critici, nei diari, negli
scritti epistolari, memorialistici. E' così professor Fortini?
Certamente, è così. Però si tratta di sapere se la comunicazione è
orientata all’informazione, alla narrazione, alla recitazione: se il
soggetto che parla si ritira o no sul fondo; allora, in questo caso,
potremmo parlare di “racconto”, di “favola”, di “leggenda”,
di “scena teatrale”, di “monologo”.
Facciamo un esempio. Se io dico: “Fuggii da casa col circo/ perché
mi ero innamorato di madamoiselle Estralada/ la domatrice dei leoni”
oppure “Il maestro ci aveva fatto ad alta voce, e come allora usava,
la lettura: ‘Immagina un bambino che va solo in America, solo a
trovare sua madre’”- e se io non so di dove vengano quelle parole
e chi le sta pronunciando posso pensare che si tratti di due passi di
conversazione di un uso televisivo, oppure di un appunto di diario. Se
invece io so che le prime parole che ho ricordato sono l’inizio di
una delle più di duecentotrenta immaginarie lapidi funerarie in un
immaginario cimitero americano, quello di Spoon River, pubblicate nel
1915 dal poeta americano Edgar Lee Masters e che quelle parole si
suppongono pronunciate da un defunto, ecco che allora gli elementi
fonici e ritmici, le figure di discorso, la ripetizione, che erano
servite per definire come poesia i versi della Pentecoste manzoniana o
quelle del proverbio sui mesi, perdono una parte della loro importanza
e sono altri elementi invece esterni al testo in quanto tale a
intervenire. Per esempio il pathos che è connesso con la voce di un
morto fra i tanti di un villaggio, quindi col mito e col brivido del
morto vivente: siamo quindi al confine fra la lirica e il monologo.
L’altro esempio fatto viene da una poesia di Umberto Saba. È
necessario mettere in evidenza che quelle righe che ci sembravano
prosa, “il maestro ci aveva fatto ad alta voce, come allora usava,
la lettura: ‘immagina un bambino che va solo in America a trovare
sua madre’”, invece sono organizzati in tradizionali
endecasillabi, di cui è fatta la stragrande maggioranza della poesia
italiana lungo otto secoli, e che quindi è come se, per dir così, ci
venisse consigliato non di leggere “immagina un bambino che va solo
in America” quale sarebbe l’intonazione colloquiale, bensì “Immagina
- pausa forte, a capo - un bambino che va solo in America”.
Insomma noi oggi abbiamo la tendenza a sopravvalutare come poesia l’espressione
dei sentimenti soggettivi, invece anche quella poesia moderna, come è
il caso della poesia di Saba, che sembra essere un moto immediato dell’animo,
è una intenzionale e organizzata finzione.
Professor Fortini, allora la definizione di “lirica” come “poesia
dell’espressione soggettiva” non è più vera?
Certo che è vera. Però bisogna ricordarsi che, oggi, la poesia è
capace di liricizzare, per così dire, il materiale meno soggettivo,
meno emotivo. Ci sono degli autori delle avanguardie letterarie,
soprattutto del periodo surrealista, che inserivano nei loro libri di
versi interi passi di testi pubblicitari o frammenti degli orari
ferroviari o passi dell’elenco del telefono, così come c’erano
degli artisti che esponevano una ruota di bicicletta o una sedia
contando sull’effetto di “spaesamento”.
Ora lo spaesamento effettivamente fa di un testo un altro testo,
spesso può essere anche solo la sede editoriale quella che assegna a
un determinato messaggio un uso non pratico. Quando pensiamo per
esempio a certe celebri poesie di Ungaretti molto brevi, dobbiamo
renderci conto che non si tratta soltanto di mettere in evidenza la
loro ritmicità che suggerisce una lettura solenne e attonita, da
oracolo o da voce sovraumana: questa non viene solo dalle indicazioni
per la scansione che sono date dagli a capo, dall’isolamento delle
parole, ma anche da tutto il più vasto bianco della pagina e, per
dirla tutta, anche dalla collocazione in una serie che ci permette di
indentificare questa come poesia. Come se si accendesse un segnale
preventivo, una luce rossa che annuncia “qui poesia” e noi siamo
quindi disposti a non trovare in questo testo un’informazione
ferroviaria ma a interpretare quest’ultima come un nesso fonico o
simbolico, cioè una poesia.
A questo punto, ha ancora senso distinguere tra poesia lirica e
poesia non-lirica?
Certo,il nostro secolo ha una sorta di “imperialismo” della
lirica per cui, tra l’altro, Benedetto Croce aveva sostenuto che
ogni poesia è poesia lirica. Ma da qualche decennio c’è un rigetto
di questa nozione di lirica, in quanto si parla di poesia come di
testi autosufficienti e intimamente coerenti all’interno dei quali
prevale la funzione poetica.
Io vorrei prendere l’esempio di una brevissima poesia di Brecht che
ha anch’essa un’epigrafe. “Qui giace/ Karl Liebknecht/ che
combattè contro la guerra. Quando fu assassinato/ la nostra città c’era
ancora”. Si noti che di fronte a un testo come questo viene a
mancare quasi del tutto l’idea corrente che la poesia sia
intraducibile perché il baricentro, il peso di questi versi non è
interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei
destinatari, dei lettori.
Per esempio se i lettori non sanno che questo Liebknecht è un
rivoluzionario socialista tedesco che è stato ucciso da militari
della destra nazionalista tedesca alla fine del 1918, insieme a Rosa
Luxemburg; e se non sanno che “la nostra città” di cui si parla
è Berlino e che la distruzione di questa città nella seconda guerra
mondiale è avvenuta ventisette anni dopo la morte di Liebknecht,
questa poesia ci diventa incomprensibile. Tutte le nozioni storiche,
morali e politiche che premono intorno a quelle quindici parole - “Qui
giace Karl Liebknecht che combatté contro la Guerra, quando fu
assassinato la nostra città c’era ancora” - premono intorno a
queste parole non diversamente da quanto faccia per esempio la
teologia intorno alla poesia cristiana o la mitologia classica per
poter capire il canto di Ulisse di Dante.
La “guerra” che ha distrutto la “nostra città” di cui si
parla nella poesia non è quella contro cui si batté Liebknecht però
il suo assassinio è stato un passo verso quella distruzione; ma
questa non sarebbe ancora una poesia, la si avverte, anzi essa diventa
una poesia, se si capisce che il rapporto di causa e di effetto per la
morte del dirigente rivoluzionario e pacifista e la distruzione di un’intera
capitale crea un personaggio, non quello dell’assassinato, il
personaggio di colui che parla. Quest’ultimo passa da un pensiero
all’altro, “qui giace Liebkneicht che combatté contro la guerra -
pausa - quando fu assassinato la nostra città c’era ancora”: c’è
lo stupore e la tristezza di questa scoperta e di questa connessione
tra epoche diverse.
Chi parla non è l’autore Brecht, è un suo personaggio, il
visitatore della tomba, il berlinese che fra sé e sé ripercorre
sinteticamente un cinquantennio di storia. È questa la forza poetica
dell’epigrafe. Naturalmente poi non conta molto che la città sia
stata ricostruita, anche Troia fu ricostruita: dalla distruzione di
Troia a quella di Berlino l’umanità ormai in proposito ha una lunga
esperienza.
Ma allora a chi si rivolge la poesia?
Ecco, qui bisognerebbe ricordare una cosa che è stata detta da un
famoso critico canadese in modo paradossale ma anche in modo molto
serio, che definiva la poesia lirica come quel genere di poesia nella
quale l’autore “finge” l’assenza di pubblico, finge di parlare
o di scrivere per sé o tutt'al più per un “tu” o per un “voi”,
come destinatari immaginari o reali, come destinatari di una epistola,
come ascoltatori di una orazione. Insomma non c’è poesia lirica che
non implichi la costituzione di una persona almeno a cominciare da
quella che parla. Ora questa persona però non è intesa nel senso
anagrafico; è colui che lo scrittore o il parlante finge sia l’autore.
Insomma bisogna cercare di evitare l’inganno della identificazione
che è così corrente scolasticamente. Quante volte noi diciamo: “allora
Dante dice a Virgilio”. No, Dante non dice nulla a Virgilio. Dante
dice che un personaggio che egli chiama “Dante” si rivolge a un
personaggio che egli dice “Virgilio”. Quando noi diciamo: “Petrarca
dice che...” o “Leopardi lamenta che...”, bisognerebbe dire: “Il
personaggio che il poeta Petrarca ha scelto come enunciatore suo, come
suo portavoce o altro che sia e di cui ha costruito la figura dice che
la signora Laura, ecc.”. Oppure Leopardi ha costruito una o più
figure di personaggi eroici infelici ai quali fa pronunciare la
propria composizione; queste figure possono avere un nome reale,
storico - per esempio Saffo o Bruto - possono essere dei personaggi
immaginari, possono essere il “pastore errante dell’Asia”, o
possono altre volte dire “io”: ma in questo senso si equivalgono.
E’ difficile pensare a un giovane adolescente studente che non si
sia cimentato, perlomeno una volta, con la scrittura di una poesia.
Ecco, perché in ogni età, cultura e condizione si scrivono versi?
Effettivamente con la successione delle tendenze letterarie e delle
tendenze culturali o, diciamo ideologiche, degli ultimi due secoli a
partire pressappoco dall’età della Rivoluzione francese, la
scrittura in generale e la scrittura poetica in particolare sono
diventate uno strumento di introspezione, sono diventate una via alla
ricerca della propria identità. Insomma ogni scrittura che non abbia
delle finalità puramente pratiche, sembra guidare alla scoperta di se
stessi: allora scrivere versi diventa, in misura minore, anche tenere
un diario o scrivere delle lettere reali o immaginarie. Scrivere versi
diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimé, un modo illusorio
di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento
psicanalitico.
Per esempio è diffusa l’idea che le scritture poetiche private
siano alcunché di gratuito che uno può fare o può non fare, invece
ci si accorge che questa è la conseguenza del fatto che le classi
dominanti a partire dall’inizio dell’Ottocento avevano investito
la categoria degli intellettuali di quelle funzioni che erano state
nei secoli precedenti propri della casta sacerdotale, e esaltarono all’interno
di questi intellettuali i letterati e i poeti come dei portatori di
qualcosa di particolarmente rilevante, libero, gratuito, sublime e
hanno continuato a mantenere questa sorta di illusione attraverso l’educazione
di massa, attraverso i media audiovisivi, nonostante che appunto l’educazione
di massa e i media audiovisivi, l’industria culturale dei nostri
tempi, abbiano tolto ogni mandato sociale, ogni compito collettivo al
letterato. So benissimo che mi si dirà che questo non è del tutto
vero. Certo, fittiziamente vengono mantenuti, ma vengono mantenuti con
una funzione analoga a quella che hanno i corazzieri al Quirinale.
Il poeta si lascia adulare grazie ai suoi supposti rapporti col mondo
dell’invisibile e dell’inconscio, come vedremo supposti, ma non
del tutto falsi. Insomma per risolvere dei problemi affettivi, morali,
psicologici, religiosi, metafisici è meglio non fare assegnamento
sulla scrittura dei versi. Se si scrivono o se si leggono dei versi
senza qualche coscienza critica o storica della tradizione letteraria
per un verso e della loro destinazione, della loro collocazione nella
realtà di oggi, si fa una strada falsa, non dimenticando che una
letteratura di consumo di apparente immediatezza esiste ed è quella
che troviamo per esempio in molte forme pubblicitarie, nell’uso
della parola nei testi pubblicitari o nelle canzoni di consumo. Anzi
è molto educativo, è molto importante leggere e considerare i testi
delle canzoni per vedere a quali antecedenti di metro, di linguaggio,
di argomento, di situazioni essi si richiamino.
Per chi conosca questo settore della nostra cultura è facile vedere
dietro le parole dei cantautori più moderni come si ritrovano, come
si leggono in filigrana cose che fanno parte della tradizione
letteraria recente o remota. Leopardi, per esempio, pensava, sognava,
immaginava che in ere remote c’era stata una vicinanza della lirica
con la poesia cosiddetta popolare e diceva: “la poesia è l’espressione
libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito nell’uomo”
e dispiace dirgli che si sbagliava, si sbagliava moltissimo e lo
dimostrava lui stesso con l’altissimo livello di autocontrollo
critico che poneva nella sua opera di poeta, e quindi anche nel
continuo ricorso che egli faceva alla tradizione letteraria. Insomma l’arte
della lirica è cosciente di se stessa, è bisognosa di un’atteggiamento
critico-culturale per non essere ignara del deposito di lingua e di
forme alle quali attinge necessariamente.
Può provare a spiegarci qual è la differenza tra un linguaggio
normale, il linguaggio della comunicazione, da quello della
persuasione oratoria, oppure da quello poetico?
Innanzitutto bisogna dire che il linguaggio poetico è uno spazio
chiuso su se stesso nelle singole opere, è una identità, un perenne
ritorno di elementi, in esso tendono a prevalere la simmetria, l’armonia
o al contrario l’asimmetria e la disarmonia che poi si ricompongono
in altra simmetria; è un gioco calcolato di elementi variabili e di
elementi invarianti. Di qui abbiamo la presenza costante della
ripetizione, del raddoppiamento, del ritorno, del parallelismo che è
uno degli elementi fondamentali della tradizione poetica dai tempi
più remoti fino ad oggi e naturalmente poi c’è tutta una serie di
livelli che va dalle scelte lessicali, alle figure foniche e ritmiche,
allo svolgimento tematico, all’argomento, alle riferenze ideologiche
che vi stanno intorno, etc. Ora, ognuno di questi livelli interferisce
con ognuno degli altri e con tutti gli altri.
Il lettore tende a commutare la propria attenzione ora sull’uno ora
sull’altro. Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi
da assonanze o da omofonie presenta innanzitutto una dimensione fonica
o ritmica. Ecco per esempio alcuni versi di Marino Moretti: “Lenta
lenta lenta va/ nei canali l’acqua verde/ e co’ suoi cigni si
perde/ nella grigia immensità/ Oh dolcezza del mio cuore/ dei miei
sensi un poco stanchi!/ Vanno i cigni i cigni bianchi/ sullo specchio
dell’amore”.
In una poesia senza rime, con ritmi meno insistiti, con pause ritmiche
meno folte tenderà, invece, a diventare importante il tema, l’argomento,
la vicenda. Per esempio: “Vent’anni è stato in giro per il
mondo./ Se ne andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne/ e
lo dissero morto. Sentii poi parlarne da donne, come in favola,
talvolta/ ma gli uomini più gravi lo scordarono, ecc.”.
Naturalmente questi versi di Pavese hanno anch’essi un ritmo.
Succede, tuttavia, che chi ascolta i versi di Pavese fa attenzione
soprattutto al racconto della vicenda e dopo avverte che c’è una
cadenza da cantastorie, da discendente di Omero. Invece chi ascolta i
versi di Moretti ascolta prima di tutto la melodia e solo ad un
secondo livello si accorge o può capire che stiamo parlando di un
canale olandese.
Insomma, tutta la poesia ha con se dei fini di persuasione, di
esclamazione, di informazione e di emozione; afferma qualcosa, lo
nega, lo chiama, ragiona ecc. Tutto l’intero discorso poetico è
disposto in modo tale da evocare una separatezza da quei fini, in modo
da mostrare una seconda finalità, è disposto in modo da costringere
il lettore, l’ascoltatore ad avvertire una quantità di sintomi che
negli altri discorsi non ci sono o che non sarebbero così importanti,
come ad esempio la quantità delle figure retoriche o del discorso,
gli effetti fonici, le scelte lessicali e così via, in rapporto con
strutture che apparentemente sono simili a quelle che appaiono nella
comunicazione non poetica. In un passo del vecchio Goethe si legge:
“quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa, è quando
non si ha nulla da dire che si scrivono poesie”, il che è
abbastanza sorprendente considerando che chi diceva queste cose aveva
scritto credo una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita.
E tuttavia c’era qualcosa di vero: quando non si ha nulla da dire
nel senso di comunicazione, quale può essere la comunicazione
prosastica, allora si adopera quel mezzo di comunicazione che dice
altro da quello che direbbe la prosa. La poesia non vuole comandare,
non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Si
impone con l’autorità dell’ istituzione letteraria che essa evoca
o rivive, si impone con l’adempimento di un rituale, di un
cerimoniale. Insomma, anche la poesia più apparentemente privata
chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore
non individuale del linguaggio, produce un senso.
Professor Fortini, se il dire della poesia non è un dire
strumentale, un dire fattuale o positivo che cosa dice la poesia?
La poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa.
La voce della poesia dice questo o quello, ma lo dice in modo che un
effetto d’eco ci ricorda sempre che non la si può prendere in
parola. Naturalmente questo irrita coloro che vogliono opinioni,
vogliono scelte, sentimenti immediati. Ebbene questa sua ambiguità
fondamentale è la sua lezione, una lezione insostituibile. Insomma,
nella poesia ci si trova di tutto ma lo si trova ad una distanza tale
che ricorda continuamente la necessità di prendere le distanze.
Qualcuno alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno
fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece
che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno, cioè
un discorso che in apparenza è un discorso come un altro cioè un
discorso di amore, di dolore, di descrizione, di esortazione, di
sapere, di sapienza che è fatto sotto lo sguardo di un fantasma sotto
uno sguardo che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto
come accade appunto nei sogni.
Dobbiamo immaginare che la poesia non ha nessuna intenzione di
agire sulla realtà?
Qui si tocca un punto molto importante e delicato. C’è stato per
esempio Adorno che ha scritto che la specificazione formale di una
poesia lirica si pone di per sé come antagonista al mondo
storico-sociale che le sta intorno e ha affermato che quando all’interno
di un testo le tensioni raggiungono un grado elevato di energia e di
vitalità, la presenza dell’oggetto estetico la “poesia” nega e
avversa e contesta tutto quello che è accettato nel quotidiano
ripetuto.
E’ interessante notare che Adorno prendeva come esempio una breve
poesia di un autore romantico tedesco Moerike, che era una descrizione
di un crepuscolo in una cittadina tedesca primaverile, quindi qualcosa
che apparentemente non aveva nessun contenuto eversivo, né
rivoluzionario. Ebbene - diceva Adorno - è proprio quella immagine
che noi potremmo chiamare pascoliana per intenderci, che è un
suggerimento di speranza di felicità che può avere nell’animo di
chi ne partecipa un valore dirompente; è una promessa di felicità
che tende a fare avvertire la insopportabilità del mondo schiavistico
e volgare nel quale noi viviamo.
Spesso - dice Adorno - ciò che apparentemente sembra il più lontano,
il più remoto dall’appello all’azione e all’immediatezza, ha la
funzione di mostrare l'insostenibilità del mondo che ci sta intorno,
la stessa funzione che ha il bicchiere di grappa dato al soldato che
deve uscire dalla trincea per affrontare il fuoco nemico. Certo aveva
ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta
circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità,
come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare
gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico - Lu Sun
parlava degli ufficiali di artiglieria - è meglio usare i cannoni. E
tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno
che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni
generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della
poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto
benissimo.
Appunto a questo proposito sarebbe curioso ricordare un dialogo fra il
rivoluzionario russo Alexander Herzen e Giuseppe Mazzini a Londra poco
dopo la caduta della Repubblica Romana quando a Mazzini, che obbietta
alla poesia di Leopardi di non esssere sufficientemente animatrice di
generosi sentimenti, Herzen invece risponde dimostrando che appunto è
proprio questa sua apparente separatezza morale quella che ne fa la
forza. Ne segue una scena molto bella in cui Aurelio Saffi,
combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va
con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a
leggere le poesie di Leopardi.
Se noi teniamo presente che il messaggio che in una poesia si
indirizza al lettore è comunicazione di certi particolari contenuti,
ma, nello stesso tempo è anche comunicazione di “altro”
attraverso per esempio l’inconsueta inversione -”caro mi fu”- l’aggettivo
antiquato, latineggiante “ermo”, l’anticipazione, anch’essa
latineggiante “ermo colle” invece che “colle ermo”, allora non
solo questo ma tutto il fatto che quest’intera affermazione è
contenuta in una sequenza ritmica cui il nostro orecchio è abituato,
il verso di undici sillabe, con una sosta sulla sesta sillaba “sempre
caro mi fu/ questo ermo colle”. Questi elementi intervengono sul
contenuto, sull’informazione che ci viene data; non la sopprime ma
la muta: chi ascolta o legge non può non avvertire che gli vengono
inviate anche altre informazioni.
Nessuna interpretazione esaurisce la poesia, ma nessuna poesia può
fare a meno dell’interpretazione. Condivide questa affermazione?
Direi senz'altro di sì. Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad
alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla,
ricrearla. In una certa misura criticarla. Quando si dice che un testo
poetico non è interpretabile solo a partire da se stesso si allude
alla sua situazione nella cultura e nella storia. Chiunque legga una
poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza
culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza
che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di
tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. Anzi questo avviene
in un modo diverso, e possiamo dire, per certi aspetti, più profondo
o più coinvolgente di quanto non sia per altre forme di comunicazione
linguistica proprio perché è ambigua, proprio perché ha un’apparenza
informativa, comunicativa e persuasiva che viene modulata, per dir
così, in una forma.
Questa forma diventa deformatrice del messaggio e lo rende risonante
come avviene nel sogno, in cui certe figure, certi personaggi sono
dotati di doppie identità. Questo potere è stato attribuito alla
poesia da tutte le più remote e diverse tradizioni della poesia e
tradizioni culturali, e questo spiega anche tra l’altro l’equivoco
continuo che c’è tra la sacralità di tipo religioso e la funzione
del poeta. L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio
o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che
effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è
stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di
comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal
fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il
sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che
pervenivano i loro messaggi.
Spesso mi è occorso di ricordare, in queste circostanze, il passo
assolutamente straordinario della Odissea quando Ulisse ha compiuto la
sua vendetta sui Proci, ha compiuto la terribile strage a colpi di
frecce e tra i morti e gli agonizzanti si fa avanti il cantore, colui
che in sostanza cantava narrazioni epico-liriche alla mensa dei Proci;
gli si fa incontro, gli abbraccia le ginocchia, lo scongiura di non
ucciderlo e lo scongiura di non ucciderlo dicendo: “sì, è vero io
ho cantato per questi usurpatori ma l’ho fatto perché vi ero
costretto e d’altronde sappi che io sono prontissimo a cantare anche
per te; ma astieniti dal sangue di colui che in qualche modo è
consacrato ad Apollo e che è quindi un personaggio sacro”.
Qui troviamo nello stesso tempo affermata l’elemento di diciamo di
grandezza e di miseria della tradizione letteraria, per cui per un
verso c’è una sorta di invisibile tonsura sacra sul poeta, e nello
stesso tempo c’è l’abiezione di colui che vive mendicando alla
tavola dei padroni e dei potenti. Naturalmente Ulisse non uccide il
cantore e da quel momento il destino del poeta e del letterato nella
cultura occidentale è segnato.
Se c’è una contiguità della poesia con la verità e con la
sacralità e se nello stesso tempo si afferma che la poesia è
portatrice di verità, qual è la differenza a questo punto tra la
poesia e la filosofia, la poesia e la scienza?
Le verità teologiche, per esempio di Alighieri, le verità
filosofiche e antropologiche di Leopardi, la visione dei rapporti
umani quali si rivelano per esempio nella poesia di Giovanni Pascoli o
in quella di Vittorio Sereni, non sono né da prendere letteralmente e
quindi da misurare nella loro verità o parziale o integrale o
falsità, né da considerare senza importanza. Ricordiamo che Croce,
per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la
considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico.
Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che
noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero
cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton
diceva: “Il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri
è un poeta cattolico”, ed effettivamente l’aspetto in questo caso
teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità
materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori,
sono elementi integranti e integrali della poesia.
Questi elementi sono inseparabili dalla rappresentazione, non sono
delle verità vestite con un abito diverso, sono inseparabili dalla
rappresentazione di questa o di quella situazione immaginaria che si
tratti di parlare dell’oltretomba o della sera di sabato in un
villaggio italiano, o del raccapriccio di morti in una valle toscana
come nel tardo Pascoli o del brivido della trasformazione sociale
della morte individuale nella poesia lombarda di Vittorio Sereni.
Tutto questo non ci induce a cogliere dei letterari enunciati di
verità: se io voglio cercare questi letterali enunciati di verità li
troverò piuttosto, per esempio, nelle pagine dello Zibaldone
leopardiano, nel De vulgaria eloquaentia o nel Convivio
di Dante, o nelle prose di Pascoli o di Sereni che non nei versi;
tuttavia mentre sarebbe assolutamente assurdo di prendere alla lettera
le affermazioni teoriche o filosofiche di Dante e di Leopardi, il
fatto che non si condivida, come ho detto, le idee di Dante sulla
Trinità o sulla istituzione del Purgatorio né quelle del Leopardi
sul pessimismo cosmico, non vuol dire che debbano essere considerati
dei superati, degli inattuali, degli illusi perché quello che essi ci
dicono a proposito di cose che noi possiamo considerare superate o
false è qualche cosa di non superato e di vero.
Chi è Franco Fortini?
VITA
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), nato a
Firenze nel 1917, ha compiuto i suoi studi nella città natale
laureandosi in Lettere e in Giurisprudenza. Espulso, in seguito alle
leggi razziali, dall'organizzazione universitaria fascista, dopo l'8
settembre ripara in Svizzera. Dal l945 ha svolto una molteplice
attività di copywriter, consulente editoriale, traduttore e,
infine, docente universitario. Ha tenuto la cattedra di Storia della
critica all'Università di Siena. Franco Fortini ha collaborato ad
alcune tra le più importanti riviste del Novecento: a Letteratura
(di Bonsanti) e Riforma letteraria (di Carocci e Noventa),
sotto il regime fascista; e, dopo la guerra, a Il Politecnico
(di Vittorini), Ragionamenti (da lui fondata nel l955 con L.
Amodio, S. Caprioglio, e Roberto e Armanda Guiducci) Officina e
Comunità, nonché a diversi quotidiani: dall'Avanti!
(di cui è stato redattore dal l945 al l948) al Corriere della Sera,
al Sole-24 0re. È morto a Milano nel l995.
OPERE
Ricordiamo di Fortini: Foglio di via e altri versi, Einaudi,
Torino, 1946; Agonia di Natale, Einaudi, Torino, 1948; Dieci
inverni (1947-1957), Feltrinelli, Milano, 1957; Poesia ed
errore (1937-1957), Feltrinelli, Milano, 1959; Verifica dei
poteri, Il Saggiatore, Milano, 1965; L'ospite ingrato, De
Donato, Bari, l966; I cani del Sinai, De Donato, Bari, 1967; Questioni
di frontiera, Einaudi, Torino, l977; Insistenze, Garzanti,
Milano, l985; Composita solvantur, Einaudi, Torino, l995; Poesie
inedite, Einaudi, Torino, 1995. Della sua vasta attività di
traduttore ricordiamo: m. proust, Albertina scomparsa, Einaudi,
Torino, 1952; m. proust, Jean Santeuil, Einaudi, Torino, l953;
b. brecht, Poesie e canzoni, Einaudi, Torino, 1961; w. goethe, Faust,
Mondadori, Milano, 1970; Il ladro di ciliege, Einaudi,
Torino, l983.
PENSIERO
Franco Fortini ha attraversato la problematica dell'ermetismo, per
arrivare presto a una forma di marxismo critico che lo ha collocato in
una posizione fortemente polemica, sia verso l'establishment letterario,
sia verso le neoavanguardie, tra le cui file si è mosso. Testimone
intransigente di quella speranza di rivoluzione che aveva sostenuto la
lotta partigiana, nelle sue forme più avanzate, come la Repubblica
della Val d'Ossola, Fortini si è costantemente impegnato, da
intellettuale rivoluzionario, nelle lotte ideologiche del suo tempo,
con opere di critica e di narrativa, con reportage ed
epigrammi, in cui come, un Aiax mastigophoros alla rovescia, ha
"trattato da eroi quelli che erano poco più di un gregge".
Articoli collegati:
Contro la volgarità del cuore
umano
Un veicolo di libertà
Il poeta e i suoi luoghi
L'amore del tempo
La Residencia de Estudiantes
Il pensiero dominante
Mario Luzi: scrivere come euforia vitale
Lettera aperta di un piccolo editore
Una finzione intenzionale
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |