Recensione/L'infedele
Paola Casella
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Un anziano scrittore pende dalle labbra di una donna nel mezzo del
cammin della sua vita: quarant'anni, bellissima anche se non priva di
difetti, recettiva come lo si è, o lo si diventa, solo quando il
tempo comincia a sfuggirci di mano. La donna racconta allo scrittore
la sua storia, ed è come se quella storia si rivelasse davanti agli
occhi di entrambi in tempo reale: la donna non sembra avere idea delle
conseguenze future dei suoi atti, né la capacità di prevedere le
svolte della vicenda. Solo ad un certo punto prenderà coscienza della
natura di ciò che sta raccontando e dirà, in tono grave: "Qui
comincia la tragedia".
L'infedele è la storia di un tradimento coniugale: Marianne
(la luminosa e bravissima Lena Endre) tradisce il marito Markus (Thomas
Hanzon) con il migliore amico di entrambi, David (Krister Henriksson).
E quella che all'inizio sembra una scappatella, un divertissment,
si trasforma in una trasgressione profonda, che finirà per disgregare
le vite dei tre protagonisti, e in maniera indiretta (e per questo
ancor più dolorosa) quella della figlia di Marianne e Markus, la
piccola Isabelle (Michelle Gylemo).

L'infedele è diretto da Liv Ullmann su una sceneggiatura di
Ingmar Bergman (come era già successo con Conversazioni private,
il debutto alla regia dell'ex attrice bergmaniana), ed è basato sulla
biografia sentimentale del regista svedese: nella realtà lui era
David, l'amante, nel film è il vecchio scrittore, che infatti si
chiama proprio Bergman (anche so lo scopriamo solo dai titoli di coda)
e ha la faccia di Erland Josephson, già protagonista di Scene da
un matrimonio e di Persona, per citare solo due titoli.
L'infedele è dunque un mea culpa: attraverso la
ricostruzione di un episodio del suo passato, narrata in forma di
seduta analitica, Bergman cerca la redenzione per una colpa che
evidentemente ancora lo tormenta. E se il regista svedese,
notoriamente ateo e scettico sulla possibilità di dare o ricevere il
perdono, si limita a trasformare il suo pentimento in sceneggiatura,
la regista norvegese aggiunge a quella seceneggiatura una pietas
che le permette addirittura di inserire due carezze all'interno della
storia. "Non erano nel testo di Bergman", ha ammesso lei,
"e quando Ingmar ha visto il film mi ha chiesto di eliminarle. Ma
io non l'ho fatto. Forse lui non riesce a perdonarsi, ma io, che sono
credente, posso farlo al posto suo. Dio perdona tutti: chi siamo noi
per non fare altrettanto?"
L'infedele rimane tuttavia una tragedia, e una tragedia
contemporanea, o meglio senza tempo (la Ullmann ha dichiarato di avere
scientemente eliminato dalla trama e persino dalla scenografia
qualsiasi riferimento temporale), che ha il pathos e la
pesantezza del teatro greco classico. La protagonista (e con lei noi
spettatori) entra nel tradimento in modo solo apparentemente causale,
come se avesse imboccato per sbaglio il sentiero che porta al dirupo,
e poi si fosse spinta troppo avanti per poter riornare sui suoi passi.
Ma se nella sceneggiatura originale Bergman rappresentava Marianne
come una vittima innocente e inconsapevole, o innocente in quanto
inconsapevole, Liv Ullmann invece riporta sulla sua protagonista
la responsabilità del tradimento, non risparmiandole né il peso né
la dignità delle sue azioni.

In questo modo Marianne diventa un personaggio veramente attuale,
poiché oggi il tradimento, come qualunque altra svolta in un
rapporto, non è più condizionato così fortemente dalle costrizioni
sociali e dal ruolo subordinato delle donne, e diventa una scelta
cosciente da parte di tutti gli attori della vicenda. La Ulmann riduce
ulteriormente l'elemento di causalità della vicenda seminando qua e
la dettagli preziosi per capire le motivazioni profonde di un
tradimento apparentemente insensato. "Ho fatto come Hitchcock",
ha detto la regista, non senza un pizzico di autoironia. "Ho
costruito la storia come un giallo, inserendo qua e la piccoli indizi
di ciò che sta per succedere, campanelli di allarme che però la
maggior parte degli spettatori non ascolta, proprio come non li
ascolta Marianne nel corso della storia".
Così sentiamo Marianne dire che il marito concertista va e viene
dalla casa, con "apparzioni da ospite", ma capiamo solo poi
quanto, ormai da tempo, quel marito fosse diventato ospite assente
anche nel contesto del loro matrimonio, e quanto la solitudine delle
torunée pesasse sia su di lui che sulla sua famiglia. E ci accorgiamo
che l'accenno iniziale dello scrittore alla propria ricerca di
"un diversivo prima della morte" si applica perfettamente
anche a Marianne e a David, entrambi quarantenni, entrambi
apparentemente rassegnati al fatto che la loro vita debba procedere
secondo direttive prestabilite: lei moglie e madre, lui single
impenitente.
Se la recitazione di Lena Endre nei panni di Marianne è profondamente
empatetica, quella di Krister Henriksson nei panni di David, l'amante,
è opportunamente irritante: non dimentichiamo che David è una
proiezione di Bergman, in pieno trip espiatorio. E la Ullmann rincara
la dose, riservando a David un paio di scene nella quali appare come
un individuo privo di scrupoli e di riguardi: pensiamo alla sequenza
in cui si siede sui vestiti di lei, appoggiati a una poltrona, o
quella in cui, durante un pranzo con la famiglia di Marianne, aspetta
che i padroni di casa abbiano voltato le spalle per rubare una
cucchiaiata di panna dalla ciotola comune, e rimette il cucchiaio
(comune) nella ciotola dopo averlo leccato. Un atto, quest'ultimo,
davvero imperdonabile.
In questo "adulterio pianificato e messo in atto", come lo
descrive Marianne (parole di Liv Ullmann, a naso), ognuno ha un ruolo
prestabilito. David è colui che rompe le uova nel paniere, la mela
marcia. "Nessuno è marcio come me" dice infatti,
apparentemente mettendo in guardia Marianne, nei fatti suscitando in
lei lo stesso desiderio di rompere uno schema apparentemente perfetto,
in realtà "svuotato" (come un guscio vuoto) che è il suo
matrimonio con Markus. Markus è, sempre apparentemente, il marito
ideale: "attraente a dir poco", artista di successo, padre
esemplare (anche se in realtà sempre "via"). Si rivelerà
invece infantile e insicuro, assai più rapido e pericoloso nel
mentire di Marianne, ferocemente vendicativo e crudelmente vessatorio
nei confronti della moglie.
A Marianne tocca il ruolo del ponte fra "l'uomo di successo"
che è - apparentemente - suo marito e l'amante che "si porta
dietro il fallimento" - e che in realtà è un regista affermato
e tirannico sul set. Lei che - apparentemente - orchestrava
brillantemente la propria vita fra marito, figlia, lavoro e amicizie,
non vede invece l'ora di "buttarsi a capofitto in situazioni
sulle quali non ha controllo", di entrare in "una giungla di
impulsi e attacchi di vertigini", anche se questa giungla
"cresce come un cancro e alla fine diventa impenetrabile". E
non ci pensa nemmeno, a "ritornare in sé", perché ha
appena scoperto che "dentro Marianne ci sta un'altra persona
senza nome né identità".
Ecco, se dovessi passare dal cinema alla facile sociologia, sceglieri
questa frase per speigare come mai tante donne di oggi abbandonano la
famiglia, o si abbandonano al tradimento. In un'epoca di redifinizione
dei ruoli sessuali, di (relativamente) maggiore indipendenza femminile
sul piano economico, molte donne si ritrovano dentro "un'altra
persona senza nome né identità" che grida per uscire, per
rompere un guscio ormai vuoto di consuetudini sociali e di aspettative
maschili mai cambiate, nonostante l'evolvere dei tempi. "Una
persona cresce dentro un'altra persona, e il processo non può essere
fermato, è quasi biologico", dice Marianne.
L'amore, secondo L'infedele, è il raggiungimento di una serie
di punti di non ritorno. Ciò che succede dopo, è imperscrutabile.
Bergman suggerisce che la conclusione sia sempre la tragedia. La
Ullman da invece spazio alla speranza, almeno per le donne: "Che
cosa è successo dopo?", chiede ansiosamente lo scrittore a
Marianne, verso la fine del film. Marianne sorride e dice qualcosa
come "le cose si sistemano e diventiamo amici". Ma lo
scrittore non è ancora pronto ad accettare che la conclusione sia
quella, e con un gesto determinato cambia il finale della storia:
"No, Marianna muore" - una frase che suona come una
sentenza, perché per lo scrittore Marianne deve morire. E Liv
Ullmann, con pazienza tipicamente femminile, lascia che Marianne
abbozzi, che acconsenta: "Va bene, Marianne muore". In
fondo, quella Marianne è solo una creatura dell'immaginazione
dell'uomo Bergman.
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