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Poesia e verità



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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it


Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema della poesia, ricordando il titolo di un libro che lei scrisse e pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di “poesia” e quello di “ontologia”?

Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti teorici, anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che l’estetica novecentesca, o anche del tardo Ottocento - ma forse l’estetica postkantiana in generale - avesse teso ad isolare l’arte dal dominio della verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di Croce, secondo cui nella dialettica dei distinti i predicati che si possono attribuire all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o brutto, ma non vero o falso. Questo significa che l’esperienza estetica non ha a che fare con l’esperienza della verità.

Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della pubblicazione del mio libro da autori - a cui io mi rifacevo - come Gadamer o come Heidegger. Gadamer in particolare, nel suo libro del 1960, Verità e Metodo, era partito proprio da una critica di quella che lui chiamava la “coscienza estetica” - potremmo chiamarla coscienza “estetistica” - cioè muovendo dalla critica di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero. Gadamer argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo, riferito soprattutto alla filosofia dell’arte del Novecento, era il corrispettivo dello scientismo metodologistico del positivismo. Se si domanda perché nell’esperienza estetica non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico. Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola così: Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il suo problema era quello di rivendicare l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come quelli della scienza. Ora, uno dei campi classici, o insomma l’emblema stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza estetica.

Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle scienze storiche, delle scienze umane - perché poi era questo il suo obiettivo più generale - muoveva dal recupero in senso veritativo dell’esperienza che sembra essere la più lontana dal vero e dal falso, vale a dire appunto l’esperienza estetica. Io procedevo in questa stessa direzione anche con riferimenti che non mi sembrava di trovare già in Gadamer, cioè sviluppando l’idea che le avanguardie artistiche del Novecento erano proprio una forma di rivolta degli artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi sostenevano che l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il vero o il falso, gli artisti pensavano invece che l’arte dovesse uscire dal mondo asettico del museo, della galleria o della pura esperienza della poesia che si raccomandava per la sua sonorità, per la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie novecentesche mi pareva - e mi pare ancora oggi - interpretabile come una rivolta dell’arte contro la sterilizzazione a cui sembrava volerla condannare l’estetica filosofica della sua stessa epoca. E naturalmente, ancora una volta, il riferimento principale - per me come del resto per lo stesso Gadamer - era la filosofia di Heidegger; questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia oggettivamente fondamentale per il pensiero del Novecento.

È con Heidegger, in fondo, che la poesia è stata completamente ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla prospettiva limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno due valenze differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza di verità nella poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal punto di vista di una concezione della verità che risale a Hegel prima che a Heidegger. Io riassumevo la posizione di Gadamer - mi sembra utile questa formula per ricordarla - dicendo che “si fa esperienza di verità, quando si fa vera esperienza”. Se noi teniamo presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza di verità; basti pensare all’esperienza che facciamo quando leggiamo un romanzo: ci cambia la vita, forse non così radicalmente, ma certo cambia, modifica la nostra visione del mondo. Ora, effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la verità è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e quindi che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma, assimilandola, diventiamo altri da quello che eravamo.

In Gadamer è molto importante questa idea dell’esperienza come Erfahrung. La parola tedesca Erfahrung ha da fare anche col viaggiare, col fahren, e implica un mutamento: possiamo fare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno a casa, non può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione mentale. Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci costringe, ci spinge a cambiare, facciamo un’esperienza di verità. In questo senso, l’incontro con l’opera d’arte, che è l’incontro con una visione del mondo “altra”, che ci scuote, o anche semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso dell’esperienza del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi, come per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera., che alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento sembravano escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia non sarebbe capace di verità scientifica, se la scienza fosse solo la conoscenza di leggi generali. Allora il punto è: questi saperi che non hanno da fare con principi generali, con leggi generali, ma con fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi di sì, se l’esperienza che facciamo in questi saperi è una vera esperienza. L’argomento di Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove attorno a questa prospettiva.

È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?

Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte una “messa in opera della verità”. Qui effettivamente troviamo la possibilità di parlare di “poesia e ontologia” o di “poesia e filosofia” o di “poesia e verità” o di “arte” in genere. In che senso l’opera d’arte è “messa in opera della verità”? Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come “messa in opera della verità”, bisogna avere una certa concezione della verità, che in Heidegger non è, e non può essere, quella della verità come corrispondenza di una proposizione a uno stato di cose. Molto spesso, naturalmente, la tradizione ha parlato di verità della poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a questa concezione della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha sempre dovuto concepire la poesia secondo il motto latino del miscere utile dulci, che esprime l’idea per cui nella poesia si possono dire delle verità, descrivendo, per esempio, come stanno le cose con l’essenza dell’uomo o le leggi morali, eccetera. Perché tali verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere, ad esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i proverbi, in genere, si formulano come dei versetti, espressi in termini “poetici”, con delle metafore.

Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma presentata con termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o si ricorda meglio. Ora, non è questo il senso in cui Heidegger parla di “una messa in opera della verità”, perché per lui la verità, prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i quali per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo veritiero quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’“apertura”, per così dire, il sistema dei presupposti in base a cui possiamo dire la verità, nel senso di descrivere validamente lo stato di cose, tutto questo insieme precede questa verità espressa come corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di un’altra apertura e e così via.

Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto risalire all’infinito per distruggere logicamente l’idea di verità, ma richiamare la nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base della critica marxiana dell’ideologia ossia che quando noi enunciamo una proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo siamo - come dice Heidegger - “gettati”, ci “apparteniamo”, “ci siamo”: è il nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non li descriviamo, mentre descriviamo ciò che vediamo con gli occhi; quando ci mettiamo a studiare i nostri occhi, magari li studiamo in base a un’immagine, che però guardiamo pur sempre con i nostri occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per guardare, non possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base della stessa idea che la poesia sia capace di verità.

Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia “dice” il vero?

La poesia non dice verità a livello della proposizione corrispondente all’oggetto, ma “dice” - esprime, rappresenta, mostra - qui è difficile qui usare un verbo adeguato - la verità dell’orizzonte a cui apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi parliamo di poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere in un errore di banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale verità enunciabile ricaviamo da una poesia di Pascoli, di D’Annunzio, di Carducci? Quando cerchiamo di volgere la verità della poesia in singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo delle proposizioni banali: “Gli uomini sono mortali”, “La vita è difficile”, “L’esistenza è sempre schiacciata dal problema della libertà”. Questo vuol dire che, se guardiamo alla verità della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati è una nozione di verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella poesia, questa verità è pensabile solo come apertura originaria dentro cui siamo gettati, orizzonte all’interno del quale possiamo diventare consapevoli di noi stessi, che è dunque cosa ben diversa da una verità enunciata come proposizione descrittiva all’interno di questo stesso orizzonte.

Il rapporto con questa verità è poetico anche perché non può essere descrittivo-proposizionale o scientifico: se noi ci sforziamo di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è impossibile renderla in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con esse siamo in un rapporto che si potrebbe chiamare “abitativo”, nel senso che c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato tematico, una più originaria appartenenza che noi non riusciamo a tematizzare. Noi non possiamo dire che, poiché non riusciamo a tematizzarla, dobbiamo trascurarla. Trascurarla, infatti, significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi non sospettiamo neanche di avere - il che è abbastanza pericoloso. Sapere di appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a noi - perché ciò è contraddittorio con la nozione stessa di orizzonte -, significa già sforzarsi di fare esperienza di questo orizzonte con altri mezzi. In fondo, tutta la storia delle arti nella storia della cultura è questo.

Le arti non hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili in un trattato, e tuttavia ci sono sempre state. Controbattere sostenendo che ciò è accaduto solo perché l’uomo ha inevitabilmente anche un aspetto di “oziosità” è una spiegazione un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza sociale che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia messa in opera della verità tende a spiegare meglio tutte queste cose; c’è una verità più originaria delle singole verità che possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più originaria non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili: esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura, nella musica, nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo, questa apertura della verità.

Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme di contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la verità non sia sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non è vero che tutti gli uomini sono sempre gettati in un orizzonte di verità sempre uguale, ma che ci sono delle cesure, dei cambiamenti nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo. Anche questa è una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo riferirmi, ad esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad esempio, che parla dei “paradigmi”, secondo cui le scienze provano, dimostrano proposizioni, però all’interno di un insieme di presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto il paradigma all’interno del quale si prova o si falsifica una proposizione. A sua volta, il paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma più ampio all’interno del quale si possa provare qualcosa o falsificare qualcosa. Quindi, anche in questo caso, i paradigmi all’interno dei quali si muovono le verità della scienza sono storicamente dei fatti complessi.

Certamente non si può dire che essi siano dei fatti irrazionali, però sono dei complessi eventi storici a cui gli scienziati appartengono e all’interno dei quali trovano o falsificano proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere un’idea, ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte è “messa in opera della verità”. “Messa in opera” che può essere storicamente mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi, non sono sempre gli stessi. È la ragione per cui l’arte è una storia e non accade una volta sola. Altrimenti basterebbe una sola opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca, per tutte le epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo delle differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi diversi, dei mondi storici all’interno dei quali l’umanità del passato è vissuta e dentro cui ancora viviamo noi, mediandoli con il nostro mondo storico, con i nostri poeti, con le nostre opere d’arte.

In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor Vattimo, proprio la poesia ha un ruolo privilegiato?

Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla poesia come arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente complesso, forse anche controverso tra gli interpreti di Heidegger, però Heidegger certamente ritiene che, in qualche senso, la funzione inaugurale di apertura di un mondo storico che l’opera d’arte ha, si realizza in modo speciale, in modo privilegiato nell’arte della parola. “Apertura di un mondo storico” può voler dire due cose. Svelamento di un mondo storico - e in questo caso ci troviamo in temi che sono familiari alla storia dell’estetica e della filosofia. Hegel, per esempio, sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo dello spirito, la verità dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca, si rivela nell’arte e non nella religione o non nella filosofia.

L’estetica hegeliana sostiene che nella storia dell’umanità, l’età in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello spirito dell’epoca è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in qualche modo, più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o nella religione, mentre, ad esempio, lo spirito medievale si rivela piuttosto nella religione cristiana; il senso del gotico è il senso di un’arte la cui verità è però la religione. Bene, noi possiamo intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per cui nell’opera d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si rivela. Ma l'originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte si “inaugura” un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si svela più adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.

Il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui noi accediamo al mondo; non accade che prima noi vediamo il mondo e poi troviamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo linguaggio, la nostra lingua naturale, che però non è naturale in quanto eterna; è naturale nel senso che è la nostra lingua madre, la lingua che impariamo quando siamo bambini. Ebbene, questo linguaggio, che non è sempre uguale - le lingue sono mai state tutte eguali nel corso della storia - costituisce un fatto naturale e storico insieme. In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui ovviamente cambia. Heidegger identifica i momenti di “inaugurazione” di una lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici.

Noi diciamo abitualmente a scuola che Dante è il padre della lingua italiana, che la traduzione della Bibbia di Lutero ha fondato il tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come Dante, il padre della lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in maniera banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle lingue naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte “mette in opera la verità” e la mette in opera come opera d’arte linguistica, perché dal punto di vista di Heidegger, anche per interpretare storicamente delle opere d’arte non linguistiche - per esempio la pittura di Michelangelo o di Goya - noi, per esprimerne il carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.

Abbiamo visto che per Heidegger c'è una certa originarietà della poesia rispetto alle altre arti: quali sono i problemi suscitati da questa tesi?

Questo è un punto su cui pochi studiosi di estetica concorderebbero pienamente, perché l’esperienza dello spazio, per esempio, che si fa con la pittura, con l’architettura, con le arti visive, si può considerare ragionevolmente ancora più originaria, o almeno altrettanto originaria, di quella delle parole. Heidegger stesso, in un’opera tarda, la breve ma intensissima prolusione degli anni Sessanta intitolata L’arte e lo spazio, potrebbe fornire elementi per andare in questa direzione, in quanto qui egli sostiene che, se dovesse riscrivere Essere e Tempo, riconoscerebbe altrettanto originario, nella nostra esperienza, lo spazio.

Heidegger, mettendo allo stesso livello spazio e tempo come forme originarie della nostra esperienza, avrebbe forse anche dovuto rivedere il rapporto tra arti del linguaggio e arti visive, spaziali. Dunque per gli studiosi heideggeriani, su questo probabilmente c’è ancora molto da lavorare. Però il senso fondamentale è: l’opera d’arte ha una funzione inaugurale rispetto ai mondi storici, soprattutto in forma di opera d’arte poetica - “dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde”, “poeticamente abita l’uomo su questa terra” è un verso di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento in un saggio sulla poesia. Ovviamente l’abitare richiama l’esperienza dell’architettura, delle arti della visione; il “poeticamente” significa, se dobbiamo prenderlo alla lettera, nell’interpretazione che dà Heidegger di questo verso di Hölderlin, che l’abitare storico dell’uomo ha a che fare con lo stare in un ambiente, ma questo stare in un ambiente è vissuto esistenzialmente anzitutto come appartenenza ad un linguaggio che è parola.

I versi di Hölderlin che Heidegger commenta con l’espressione a cui io mi sono poco fa richiamato, sono in realtà due, tra loro simili. L’altro dice: “voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde”, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo su questa terra”. Qui, secondo me, c’è un’ulteriore dimensione di questo significato aprente dell’opera d’arte, che vale la pena illustrare. Questo distico hölderliniano, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo”, contiene anche un altro elemento, non solo quello dell’abitare, non solo quello della poesia nel senso di arte della parola, ma anche quello di una opposizione tra “abitare poetico” e “merito”.

Ancora una volta, quella verità che si apre nella poesia e che è l’apertura dell’orizzonte all’interno del quale poi noi possiamo enunciare le verità nel senso tematico, proposizionale della parola, quella verità è anche qualcosa che ci proviene e che noi non costruiamo. Ecco perché c’è un’avversativa tra il “pieno di merito” e “tuttavia poeticamente abita l’uomo”. “Pieno di merito” vuol dire: certamente l’uomo abita sulla terra, costruendo case, producendo automobili, ascensori per facilitarsi l’esistenza, per difendersi dai pericoli della natura, e così via; tuttavia, dice Hölderlin, l’uomo “abita poeticamente”. C’è qualche cosa, alla base di tutta questa opera che è propria dell’uomo, che non è attività, ma è prima di tutto qualcosa come ricezione, passività. In fondo, anche noi, quando facciamo esperienza di poesia, parliamo quasi spontaneamente di grazia.

Gli applausi che si rivolgono ai grandi interpreti hanno da fare col ringraziamento e poi, tradizionalmente il bello dell’arte è stato accostato all’idea di grazia, non tanto alla graziosità che è un’accentuazione della facilità del movimento - si dice che un balletto è grazioso, che una piccola opera d’arte è graziosa, quasi come se fosse qualcosa di meno del bello -; la grazia è, per esempio, il creare “in stato di grazia”, il che costituisce l’originalità del genio. Tutti questi modi in cui la tradizione ha enfatizzato l’esperienza estetica, hanno una loro radice nel “doch”, nell’opposizione tra l’attività utile, produttiva, volontaria, di cui noi abbiamo merito, l’uomo ha merito, e il trovarsi gettato in un mondo disponendo già, per esempio, del linguaggio e di un insieme di vie di accesso agli enti, che non ci siamo costruiti da noi e che sono alla base di tutto il nostro costruire. Questo è importante per capire qual è quel tipo di verità che si può dare nella poesia.

Vi sono altre dottrine estetiche che possono illustrare la concezione heideggeriana dell’arte?

Un altro grande pensatore estetico del Novecento è stato Michel Dufrenne, autore di varie opere tra cui una Fenomenologia dell’esperienza estetica, e un saggio intitolato Il poetico; egli è stato un filosofo, diciamo, di scuola fenomenologica ma molto sensibile anche alle suggestioni heideggeriane. Ebbene, Dufrenne aveva descritto l’opera d’arte come un “quasi soggetto”, il che ci serve molto per capire che cosa possiamo intendere Heidegger a proposito dell’apertura nel mondo. Un “quasi soggetto” è un “oggetto” che si incontra nel mondo e che non si lascia trattare come un puro oggetto. Un’opera d’arte è una visione sul mondo, non un pezzo di mondo. Un romanzo, un quadro, una sinfonia, non sono cose che si aggiungono ad altre nel mondo, ma contengono sempre, in qualche modo, l’appello a reinterpretare il mondo. L’“altro” con cui mi incontro, se non è un individuo che voglio usare per un certo scopo, ma è uno che ascolto come un “altro”, mi offre un’interpretazione del mondo con cui mi debbo misurare, non è un oggetto che metto accanto agli altri tranquillamente, aggiungendo un pezzo al mio mondo.

Qualcosa di questo genere si può intendere per capire di che cosa parliamo quando diciamo che un’opera apre un mondo. È una prospettiva altra sul mondo, che può diventare un oggetto del mio mondo, ma se desidero appendere un quadro nella mia camera, lo faccio non soltanto perché sta bene lì; qualcuno può anche intenderlo solo così, in termini puramente decorativi, ma se poi cercassimo di spiegarci perché sta bene, secondo me, scopriremmo sempre che sta bene perché evoca, apre immagini di mondo alternative a quelle dentro cui sto e quindi non è semplicemente una parte, un pezzo passivo, inerte nel mio mondo, ma è un soggetto che mi parla.

C’è però un’altra considerazione che dobbiamo fare, sempre riguardo ad Heidegger. Lei non crede che vi sia in Heidegger una sorta di intonazione religiosa? In fondo egli parla di poesia, ne parla in generale come luogo originario, però poi sceglie, di fatto, alcuni poeti in particolare, ne privilegia alcuni, Hölderlin su tutti. Ecco, che cosa significa questa scelta?

Qui il discorso potrebbe, dovrebbe essere molto ampio. È vero che Heidegger sceglie Hölderlin tra i poeti - uno dei poeti che commenta più frequentemente, con cui ha convissuto, per così dire, per tanto tempo, fino a definirlo come “il poeta del poeta”, cioè il poeta della poesia. Questo è molto interessante perché collocherebbe Hölderlin e Heidegger nell’orizzonte di uno dei tratti caratteristici della poesia novecentesca o dell’arte novecentesca, che è intensamente caratterizzata dall’autoriflessione. C’è tutta una storia della pittura, per esempio, tra Otto e Novecento, che vede l’evoluzione della pittura come un’accentuazione della consapevolezza dei mezzi della pittura: il colore, il quadro, la tela, le linee, la prospettiva spaziale. Quindi mi sembra molto significativo che Heidegger sia così sensibile a questo. Diciamo però che il discorso di Heidegger va ancora oltre, non solo scegliendo Hölderlin in quanto “poeta del poeta”, ma anche Rilke, per esempio, o, negli scritti degli anni Cinquanta, Trakl, che è un poeta difficile perché “maledetto” in molti sensi, un poeta espressionista del tutto diverso dai poeti “vati” che ci si aspetta che Heidegger commenti; ebbene, la scelta di questi poeti non è in Heidegger slegata da una considerazione epocale. Ancora una volta, non ci sono poeti che esprimono meglio di altri l’essenza eterna dell’arte, ci sono poeti che sono più eloquenti, più capaci di dirci che ne è dell’essere nella nostra determinata epoca.

Il destino dell’essere nella nostra determinata epoca ha probabilmente a che fare anche con il fatto che il poeta poeti sulla poesia, nel senso che l’autoriflessività della poesia hölderliniana, che parla del poeta, diventa determinante per Heidegger, perché è particolarmente in sintonia con un’epoca dell’essere che è quella che Heidegger tenta di cogliere. Che cosa può voler dire tutto questo? Traduciamolo un po’ sommariamente nei nostri termini. Non sempre e non in ogni epoca culturale o della storia dell’essere è così chiaro che l’esperienza della verità sia esperienza dell’orizzonte piuttosto che esperienza delle proposizioni vere, come ho detto prima. È nella nostra epoca, che Heidegger chiama della “fine”, del “compimento” o del “superamento” della metafisica, che ci diventa possibile capire meglio che la verità non è soltanto o principalmente la proposizione che descrive adeguatamente lo stato di cose, ma è l’appartenenza ad un orizzonte dentro cui siamo “gettati”, che ci è donato.

In questa epoca, in cui diventa comprensibile - perché è finita la metafisica - questa esperienza della verità come appartenenza, allora è più verosimile cercare il vero nei poeti e in certi poeti che poetano sulla poesia. Ecco perché il discorso è complesso. Heidegger non avrebbe mai detto che si debba in ogni epoca cercare la verità piuttosto nella poesia; ma soltanto che nella nostra epoca diventa possibile cercare la verità nei poeti, in quei poeti che sono particolarmente consapevoli del significato della poesia in questa epoca. Quest’idea è complessa, ma non del tutto inverosimile. Non tutti i poeti sono uguali, non sempre il rapporto tra verità e poesia si svela nello stesso modo. Per Heidegger di questa epoca sono emblemi poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl, George.

Lasciamo la poesia, per tornare invece al discorso più globale sull’arte. Lei ha parlato dell’arte, dell’esperienza estetica come esperienza di verità. Possiamo allora radicalizzare il discorso e intenderla proprio come esperienza ermeneutica?

Possiamo sicuramente parlare di esperienza ermeneutica in rapporto a questa verità intesa come appartenenza all’apertura. L’ermeneutica è quella posizione filosofica che individua l’esperienza della verità non come descrizione oggettiva di stati di cose, o quanto meno non solo come descrizione oggettiva di stati di cose, ma prima di tutto come abitare dentro un’apertura che ci regge e ci rende possibile qualunque descrizione oggettiva. Come a Marx interessava capire l’ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo, così a Heidegger interessa cercare di risalire a questa verità come apertura alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo risalire è un dialogo con la poesia. Heidegger ha spesso parlato della filosofia, del pensare, come dialogo di filosofia e poesia. Questo dialogo è sempre in corso e in esso entra in gioco il modo di vedere la verità come orizzonte a cui apparteniamo, il che non è molto lontano dalla religione. A mio parere una riflessione intensa, approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il pensiero, non può che condurre anche a ritrovare una certa valenza religiosa di ciò con cui la filosofia ha a che fare. Potremmo dire che se ciò che ci si svela nella poesia è quella verità che ci è data come dono, come grazia - si potrebbe dire -, e con cui siamo in un rapporto di dialogo chiarificatore, interrogativo, non puramente contemplativo e passivo -, allora quell’altra forma della vita spirituale che Hegel, come ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte, riguarda sicuramente la religione.

Io credo che il pensiero contemporaneo, attraverso l’esperienza dell’ermeneutica, nella misura in cui riceve di nuovo un accesso ad una ricerca della verità, ad un ascolto della verità che si dà nella poesia, sia in qualche modo richiamato anche ad un’esperienza religiosa. Ciò che caratterizza il pensiero di oggi in una larga parte della filosofia - anche se non in tutta - è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma sempre più anche una nuova sensibilità religiosa che non mette da parte la poesia. Probabilmente se vi sarà una nuova esperienza religiosa del pensiero, essa dovrà essere sempre più intensamente collegata con l’esperienza estetica, comportando, a partire da questo aspetto, una ridefinizione dell’esperienza religiosa stessa.

Chi è Gianni Vattimo

Gianni Vattimo è nato a Torino nel 1936. Allievo di Luigi Pareyson, si è laureato nel 1959 a Torino. Ha studiato ad Heidelberg con Karl Löwith e Hans Georg Gadamer, il cui pensiero ha introdotto in Italia. Dal l964 professore incaricato e dal 1969 ordinario di Estetica a Torino, dal l982 è ordinario di Filosofia teoretica presso la stessa università. Ha insegnato come Visiting Professor in varie università degli Stati Uniti. È stato direttore della "Rivista di estetica"; membro di comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere; socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino. Svolge un'intensa attività di editorialista per il quotidiano torinese “La Stampa”, per “L’Espresso” e per “El Pais”.

Nelle sue opere, Vattimo ha proposto una interpretazione dell'ontologia ermeneutica contemporanea, che ne accentua il legame positivo con il nichilismo, inteso come indebolimento delle categorie ontologiche, tramandate dalla metafisica e criticate da Nietzsche e da Heidegger. Un tale indebolimento dell'essere è la nozione-guida per capire i tratti dell'esistenza dell'uomo nel mondo tardo-moderno e - nelle forme della secolarizzazione, del passaggio a regimi politici democratici, del pluralismo e della tolleranza - rappresenta anche il filo conduttore di ogni possibile emancipazione.

Principali pubblicazioni:

Il concetto di fare in Aristotele,
Giappichelli, Torino, 1961; Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino 1963; Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino, 1967; Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1968; Schleiermacher, filosofo dell'interpretazione, Mursia, Milano, 1968; Introduzione ad Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971; Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974; Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1980; Al di là del soggetto: Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, Feltrinelli, Milano, 1981; La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985; Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari,1985; La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989; Etica dell'interpretazione, Rosenberg & Sellier,Torino, 1989; Filosofia al presente, Garzanti, Milano, 1990; Oltre l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1994; Credere di credere, Garzanti, Milano, l996. Ha curato: (con p. a. rovatti) Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983; (con j. derrida) Diritto, giustizia e interpretazione: annuario filosofico europeo, Laterza, Roma-Bari, 1998. Vattimo, inoltre, cura un annuario filosofico a carattere monografico edito da Laterza (Filosofia '86 e seguenti).



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