Poesia e verità
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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema
della poesia, ricordando il titolo di un libro che lei scrisse e
pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa
voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di “poesia”
e quello di “ontologia”?
Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti teorici,
anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che l’estetica
novecentesca, o anche del tardo Ottocento - ma forse l’estetica
postkantiana in generale - avesse teso ad isolare l’arte dal dominio
della verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di
Croce, secondo cui nella dialettica dei distinti i predicati che si
possono attribuire all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o
brutto, ma non vero o falso. Questo significa che l’esperienza
estetica non ha a che fare con l’esperienza della verità.
Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica
filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della
pubblicazione del mio libro da autori - a cui io mi rifacevo - come
Gadamer o come Heidegger. Gadamer in particolare, nel suo libro del
1960, Verità e Metodo, era partito proprio da una critica di
quella che lui chiamava la “coscienza estetica” - potremmo
chiamarla coscienza “estetistica” - cioè muovendo dalla critica
di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte
e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero.
Gadamer argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo,
riferito soprattutto alla filosofia dell’arte del Novecento, era il
corrispettivo dello scientismo metodologistico del positivismo. Se si
domanda perché nell’esperienza estetica non vi siano il vero e
falso, si tende a rispondere che questi appartengono esclusivamente a
quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico.
Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola
così: Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il
suo problema era quello di rivendicare l’esperienza di verità che
si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come quelli
della scienza. Ora, uno dei campi classici, o insomma l’emblema
stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza estetica.
Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle
scienze storiche, delle scienze umane - perché poi era questo il suo
obiettivo più generale - muoveva dal recupero in senso veritativo
dell’esperienza che sembra essere la più lontana dal vero e dal
falso, vale a dire appunto l’esperienza estetica. Io procedevo in
questa stessa direzione anche con riferimenti che non mi sembrava di
trovare già in Gadamer, cioè sviluppando l’idea che le avanguardie
artistiche del Novecento erano proprio una forma di rivolta degli
artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica
filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi
sostenevano che l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il
vero o il falso, gli artisti pensavano invece che l’arte dovesse
uscire dal mondo asettico del museo, della galleria o della pura
esperienza della poesia che si raccomandava per la sua sonorità, per
la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti
esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie
novecentesche mi pareva - e mi pare ancora oggi - interpretabile come
una rivolta dell’arte contro la sterilizzazione a cui sembrava
volerla condannare l’estetica filosofica della sua stessa epoca. E
naturalmente, ancora una volta, il riferimento principale - per me
come del resto per lo stesso Gadamer - era la filosofia di Heidegger;
questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza
filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia
oggettivamente fondamentale per il pensiero del Novecento.
È con Heidegger, in fondo, che la poesia è stata completamente
ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla prospettiva
limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo
Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno
due valenze differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza
di verità nella poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal
punto di vista di una concezione della verità che risale a Hegel
prima che a Heidegger. Io riassumevo la posizione di Gadamer - mi
sembra utile questa formula per ricordarla - dicendo che “si fa
esperienza di verità, quando si fa vera esperienza”. Se noi teniamo
presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera
d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza
di verità; basti pensare all’esperienza che facciamo quando
leggiamo un romanzo: ci cambia la vita, forse non così radicalmente,
ma certo cambia, modifica la nostra visione del mondo. Ora,
effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la verità
è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e
quindi che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma,
assimilandola, diventiamo altri da quello che eravamo.
In Gadamer è molto importante questa idea dell’esperienza come Erfahrung.
La parola tedesca Erfahrung ha da fare anche col viaggiare, col
fahren, e implica un mutamento: possiamo fare l’esempio di un
individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno a casa, non
può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa
altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione
mentale. Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci
costringe, ci spinge a cambiare, facciamo un’esperienza di verità.
In questo senso, l’incontro con l’opera d’arte, che è l’incontro
con una visione del mondo “altra”, che ci scuote, o anche
semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso dell’esperienza
del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi, come
per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera.,
che alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento
sembravano escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia
non sarebbe capace di verità scientifica, se la scienza fosse solo la
conoscenza di leggi generali. Allora il punto è: questi saperi che
non hanno da fare con principi generali, con leggi generali, ma con
fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi di sì, se l’esperienza
che facciamo in questi saperi è una vera esperienza. L’argomento di
Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove
attorno a questa prospettiva.
È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera
d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo
abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza
di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung
des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte
una “messa in opera della verità”. Qui effettivamente troviamo la
possibilità di parlare di “poesia e ontologia” o di “poesia e
filosofia” o di “poesia e verità” o di “arte” in genere. In
che senso l’opera d’arte è “messa in opera della verità”?
Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come “messa
in opera della verità”, bisogna avere una certa concezione della
verità, che in Heidegger non è, e non può essere, quella della
verità come corrispondenza di una proposizione a uno stato di cose.
Molto spesso, naturalmente, la tradizione ha parlato di verità della
poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a questa concezione
della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in
termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha
sempre dovuto concepire la poesia secondo il motto latino del miscere
utile dulci, che esprime l’idea per cui nella poesia si possono
dire delle verità, descrivendo, per esempio, come stanno le cose con
l’essenza dell’uomo o le leggi morali, eccetera. Perché tali
verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere, ad
esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i
proverbi, in genere, si formulano come dei versetti, espressi in
termini “poetici”, con delle metafore.
Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la
stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma
presentata con termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o
si ricorda meglio. Ora, non è questo il senso in cui Heidegger parla
di “una messa in opera della verità”, perché per lui la verità,
prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura
di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non
è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando
degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i quali
per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo
veritiero quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’“apertura”,
per così dire, il sistema dei presupposti in base a cui possiamo dire
la verità, nel senso di descrivere validamente lo stato di cose,
tutto questo insieme precede questa verità espressa come
corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme
difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera,
perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro
sistema di presupposti, di un’altra apertura e e così via.
Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe
risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto risalire all’infinito
per distruggere logicamente l’idea di verità, ma richiamare la
nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base della
critica marxiana dell’ideologia ossia che quando noi enunciamo una
proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta
non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in
qualche modo siamo - come dice Heidegger - “gettati”, ci “apparteniamo”,
“ci siamo”: è il nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non
li descriviamo, mentre descriviamo ciò che vediamo con gli occhi;
quando ci mettiamo a studiare i nostri occhi, magari li studiamo in
base a un’immagine, che però guardiamo pur sempre con i nostri
occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per guardare, non
possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però
filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base
della stessa idea che la poesia sia capace di verità.
Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia “dice” il vero?
La poesia non dice verità a livello della proposizione corrispondente
all’oggetto, ma “dice” - esprime, rappresenta, mostra - qui è
difficile qui usare un verbo adeguato - la verità dell’orizzonte a
cui apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi
parliamo di poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere
in un errore di banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale
verità enunciabile ricaviamo da una poesia di Pascoli, di D’Annunzio,
di Carducci? Quando cerchiamo di volgere la verità della poesia in
singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo delle
proposizioni banali: “Gli uomini sono mortali”, “La vita è
difficile”, “L’esistenza è sempre schiacciata dal problema
della libertà”. Questo vuol dire che, se guardiamo alla verità
della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati è una nozione di
verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul
principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella
poesia, questa verità è pensabile solo come apertura originaria
dentro cui siamo gettati, orizzonte all’interno del quale possiamo
diventare consapevoli di noi stessi, che è dunque cosa ben diversa da
una verità enunciata come proposizione descrittiva all’interno di
questo stesso orizzonte.
Il rapporto con questa verità è poetico anche perché non può
essere descrittivo-proposizionale o scientifico: se noi ci sforziamo
di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è impossibile renderla
in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con esse siamo
in un rapporto che si potrebbe chiamare “abitativo”, nel senso che
c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato
tematico, una più originaria appartenenza che noi non riusciamo a
tematizzare. Noi non possiamo dire che, poiché non riusciamo a
tematizzarla, dobbiamo trascurarla. Trascurarla, infatti,
significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi non
sospettiamo neanche di avere - il che è abbastanza pericoloso. Sapere
di appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a
noi - perché ciò è contraddittorio con la nozione stessa di
orizzonte -, significa già sforzarsi di fare esperienza di questo
orizzonte con altri mezzi. In fondo, tutta la storia delle arti nella
storia della cultura è questo.
Le arti non hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili
in un trattato, e tuttavia ci sono sempre state. Controbattere
sostenendo che ciò è accaduto solo perché l’uomo ha
inevitabilmente anche un aspetto di “oziosità” è una spiegazione
un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli
artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza
sociale che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia
messa in opera della verità tende a spiegare meglio tutte queste
cose; c’è una verità più originaria delle singole verità che
possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più originaria
non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili:
esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura,
nella musica, nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo,
questa apertura della verità.
Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme
di contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la
verità non sia sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non
è vero che tutti gli uomini sono sempre gettati in un orizzonte di
verità sempre uguale, ma che ci sono delle cesure, dei cambiamenti
nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo. Anche questa è
una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella
heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo
riferirmi, ad esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad
esempio, che parla dei “paradigmi”, secondo cui le scienze
provano, dimostrano proposizioni, però all’interno di un insieme di
presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto il paradigma all’interno
del quale si prova o si falsifica una proposizione. A sua volta, il
paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di
falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma
più ampio all’interno del quale si possa provare qualcosa o
falsificare qualcosa. Quindi, anche in questo caso, i paradigmi all’interno
dei quali si muovono le verità della scienza sono storicamente dei
fatti complessi.
Certamente non si può dire che essi siano dei fatti irrazionali,
però sono dei complessi eventi storici a cui gli scienziati
appartengono e all’interno dei quali trovano o falsificano
proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere un’idea,
ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte
è “messa in opera della verità”. “Messa in opera” che può
essere storicamente mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi,
non sono sempre gli stessi. È la ragione per cui l’arte è una
storia e non accade una volta sola. Altrimenti basterebbe una sola
opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca, per tutte le
epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la
Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo
delle differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi
diversi, dei mondi storici all’interno dei quali l’umanità del
passato è vissuta e dentro cui ancora viviamo noi, mediandoli con il
nostro mondo storico, con i nostri poeti, con le nostre opere d’arte.
In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con
la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor
Vattimo, proprio la poesia ha un ruolo privilegiato?
Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di
Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla
poesia come arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente
complesso, forse anche controverso tra gli interpreti di Heidegger,
però Heidegger certamente ritiene che, in qualche senso, la funzione
inaugurale di apertura di un mondo storico che l’opera d’arte ha,
si realizza in modo speciale, in modo privilegiato nell’arte della
parola. “Apertura di un mondo storico” può voler dire due cose.
Svelamento di un mondo storico - e in questo caso ci troviamo in temi
che sono familiari alla storia dell’estetica e della filosofia.
Hegel, per esempio, sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo
dello spirito, la verità dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca,
si rivela nell’arte e non nella religione o non nella filosofia.
L’estetica hegeliana sostiene che nella storia dell’umanità, l’età
in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello spirito dell’epoca
è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello
spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in
qualche modo, più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o
nella religione, mentre, ad esempio, lo spirito medievale si rivela
piuttosto nella religione cristiana; il senso del gotico è il senso
di un’arte la cui verità è però la religione. Bene, noi possiamo
intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per cui nell’opera
d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si rivela.
Ma l'originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte
si “inaugura” un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si
svela più adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.
Il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui noi
accediamo al mondo; non accade che prima noi vediamo il mondo e poi
troviamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre
esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in
un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è soprattutto
il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un
insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo
linguaggio, la nostra lingua naturale, che però non è naturale in
quanto eterna; è naturale nel senso che è la nostra lingua madre, la
lingua che impariamo quando siamo bambini. Ebbene, questo linguaggio,
che non è sempre uguale - le lingue sono mai state tutte eguali nel
corso della storia - costituisce un fatto naturale e storico insieme.
In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui ovviamente
cambia. Heidegger identifica i momenti di “inaugurazione” di una
lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici.
Noi diciamo abitualmente a scuola che Dante è il padre della lingua
italiana, che la traduzione della Bibbia di Lutero ha fondato il
tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come Dante, il padre della
lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in maniera
banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto
profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle
lingue naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte “mette
in opera la verità” e la mette in opera come opera d’arte
linguistica, perché dal punto di vista di Heidegger, anche per
interpretare storicamente delle opere d’arte non linguistiche - per
esempio la pittura di Michelangelo o di Goya - noi, per esprimerne il
carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.
Abbiamo visto che per Heidegger c'è una certa originarietà della
poesia rispetto alle altre arti: quali sono i problemi suscitati da
questa tesi?
Questo è un punto su cui pochi studiosi di estetica concorderebbero
pienamente, perché l’esperienza dello spazio, per esempio, che si
fa con la pittura, con l’architettura, con le arti visive, si può
considerare ragionevolmente ancora più originaria, o almeno
altrettanto originaria, di quella delle parole. Heidegger stesso, in
un’opera tarda, la breve ma intensissima prolusione degli anni
Sessanta intitolata L’arte e lo spazio, potrebbe fornire elementi
per andare in questa direzione, in quanto qui egli sostiene che, se
dovesse riscrivere Essere e Tempo, riconoscerebbe altrettanto
originario, nella nostra esperienza, lo spazio.
Heidegger, mettendo allo stesso livello spazio e tempo come forme
originarie della nostra esperienza, avrebbe forse anche dovuto
rivedere il rapporto tra arti del linguaggio e arti visive, spaziali.
Dunque per gli studiosi heideggeriani, su questo probabilmente c’è
ancora molto da lavorare. Però il senso fondamentale è: l’opera d’arte
ha una funzione inaugurale rispetto ai mondi storici, soprattutto in
forma di opera d’arte poetica - “dichterisch wohnt der Mensch auf
dieser Erde”, “poeticamente abita l’uomo su questa terra” è
un verso di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento in un saggio
sulla poesia. Ovviamente l’abitare richiama l’esperienza dell’architettura,
delle arti della visione; il “poeticamente” significa, se dobbiamo
prenderlo alla lettera, nell’interpretazione che dà Heidegger di
questo verso di Hölderlin, che l’abitare storico dell’uomo ha a
che fare con lo stare in un ambiente, ma questo stare in un ambiente
è vissuto esistenzialmente anzitutto come appartenenza ad un
linguaggio che è parola.
I versi di Hölderlin che Heidegger commenta con l’espressione a cui
io mi sono poco fa richiamato, sono in realtà due, tra loro simili. L’altro
dice: “voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser
Erde”, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo su
questa terra”. Qui, secondo me, c’è un’ulteriore dimensione di
questo significato aprente dell’opera d’arte, che vale la pena
illustrare. Questo distico hölderliniano, “pieno di merito e
tuttavia poeticamente abita l’uomo”, contiene anche un altro
elemento, non solo quello dell’abitare, non solo quello della poesia
nel senso di arte della parola, ma anche quello di una opposizione tra
“abitare poetico” e “merito”.
Ancora una volta, quella verità che si apre nella poesia e che è l’apertura
dell’orizzonte all’interno del quale poi noi possiamo enunciare le
verità nel senso tematico, proposizionale della parola, quella
verità è anche qualcosa che ci proviene e che noi non costruiamo.
Ecco perché c’è un’avversativa tra il “pieno di merito” e
“tuttavia poeticamente abita l’uomo”. “Pieno di merito” vuol
dire: certamente l’uomo abita sulla terra, costruendo case,
producendo automobili, ascensori per facilitarsi l’esistenza, per
difendersi dai pericoli della natura, e così via; tuttavia, dice
Hölderlin, l’uomo “abita poeticamente”. C’è qualche cosa,
alla base di tutta questa opera che è propria dell’uomo, che non è
attività, ma è prima di tutto qualcosa come ricezione, passività.
In fondo, anche noi, quando facciamo esperienza di poesia, parliamo
quasi spontaneamente di grazia.
Gli applausi che si rivolgono ai grandi interpreti hanno da fare col
ringraziamento e poi, tradizionalmente il bello dell’arte è stato
accostato all’idea di grazia, non tanto alla graziosità che è un’accentuazione
della facilità del movimento - si dice che un balletto è grazioso,
che una piccola opera d’arte è graziosa, quasi come se fosse
qualcosa di meno del bello -; la grazia è, per esempio, il creare “in
stato di grazia”, il che costituisce l’originalità del genio.
Tutti questi modi in cui la tradizione ha enfatizzato l’esperienza
estetica, hanno una loro radice nel “doch”, nell’opposizione tra
l’attività utile, produttiva, volontaria, di cui noi abbiamo
merito, l’uomo ha merito, e il trovarsi gettato in un mondo
disponendo già, per esempio, del linguaggio e di un insieme di vie di
accesso agli enti, che non ci siamo costruiti da noi e che sono alla
base di tutto il nostro costruire. Questo è importante per capire
qual è quel tipo di verità che si può dare nella poesia.
Vi sono altre dottrine estetiche che possono illustrare la concezione
heideggeriana dell’arte?
Un altro grande pensatore estetico del Novecento è stato Michel
Dufrenne, autore di varie opere tra cui una Fenomenologia dell’esperienza
estetica, e un saggio intitolato Il poetico; egli è stato un
filosofo, diciamo, di scuola fenomenologica ma molto sensibile anche
alle suggestioni heideggeriane. Ebbene, Dufrenne aveva descritto l’opera
d’arte come un “quasi soggetto”, il che ci serve molto per
capire che cosa possiamo intendere Heidegger a proposito dell’apertura
nel mondo. Un “quasi soggetto” è un “oggetto” che si incontra
nel mondo e che non si lascia trattare come un puro oggetto. Un’opera
d’arte è una visione sul mondo, non un pezzo di mondo. Un romanzo,
un quadro, una sinfonia, non sono cose che si aggiungono ad altre nel
mondo, ma contengono sempre, in qualche modo, l’appello a
reinterpretare il mondo. L’“altro” con cui mi incontro, se non
è un individuo che voglio usare per un certo scopo, ma è uno che
ascolto come un “altro”, mi offre un’interpretazione del mondo
con cui mi debbo misurare, non è un oggetto che metto accanto agli
altri tranquillamente, aggiungendo un pezzo al mio mondo.
Qualcosa di questo genere si può intendere per capire di che cosa
parliamo quando diciamo che un’opera apre un mondo. È una
prospettiva altra sul mondo, che può diventare un oggetto del mio
mondo, ma se desidero appendere un quadro nella mia camera, lo faccio
non soltanto perché sta bene lì; qualcuno può anche intenderlo solo
così, in termini puramente decorativi, ma se poi cercassimo di
spiegarci perché sta bene, secondo me, scopriremmo sempre che sta
bene perché evoca, apre immagini di mondo alternative a quelle dentro
cui sto e quindi non è semplicemente una parte, un pezzo passivo,
inerte nel mio mondo, ma è un soggetto che mi parla.
C’è però un’altra considerazione che dobbiamo fare, sempre
riguardo ad Heidegger. Lei non crede che vi sia in Heidegger una sorta
di intonazione religiosa? In fondo egli parla di poesia, ne parla in
generale come luogo originario, però poi sceglie, di fatto, alcuni
poeti in particolare, ne privilegia alcuni, Hölderlin su tutti. Ecco,
che cosa significa questa scelta?
Qui il discorso potrebbe, dovrebbe essere molto ampio. È vero che
Heidegger sceglie Hölderlin tra i poeti - uno dei poeti che commenta
più frequentemente, con cui ha convissuto, per così dire, per tanto
tempo, fino a definirlo come “il poeta del poeta”, cioè il poeta
della poesia. Questo è molto interessante perché collocherebbe
Hölderlin e Heidegger nell’orizzonte di uno dei tratti
caratteristici della poesia novecentesca o dell’arte novecentesca,
che è intensamente caratterizzata dall’autoriflessione. C’è
tutta una storia della pittura, per esempio, tra Otto e Novecento, che
vede l’evoluzione della pittura come un’accentuazione della
consapevolezza dei mezzi della pittura: il colore, il quadro, la tela,
le linee, la prospettiva spaziale. Quindi mi sembra molto
significativo che Heidegger sia così sensibile a questo. Diciamo
però che il discorso di Heidegger va ancora oltre, non solo
scegliendo Hölderlin in quanto “poeta del poeta”, ma anche Rilke,
per esempio, o, negli scritti degli anni Cinquanta, Trakl, che è un
poeta difficile perché “maledetto” in molti sensi, un poeta
espressionista del tutto diverso dai poeti “vati” che ci si
aspetta che Heidegger commenti; ebbene, la scelta di questi poeti non
è in Heidegger slegata da una considerazione epocale. Ancora una
volta, non ci sono poeti che esprimono meglio di altri l’essenza
eterna dell’arte, ci sono poeti che sono più eloquenti, più capaci
di dirci che ne è dell’essere nella nostra determinata epoca.
Il destino dell’essere nella nostra determinata epoca ha
probabilmente a che fare anche con il fatto che il poeta poeti sulla
poesia, nel senso che l’autoriflessività della poesia
hölderliniana, che parla del poeta, diventa determinante per
Heidegger, perché è particolarmente in sintonia con un’epoca dell’essere
che è quella che Heidegger tenta di cogliere. Che cosa può voler
dire tutto questo? Traduciamolo un po’ sommariamente nei nostri
termini. Non sempre e non in ogni epoca culturale o della storia dell’essere
è così chiaro che l’esperienza della verità sia esperienza dell’orizzonte
piuttosto che esperienza delle proposizioni vere, come ho detto prima.
È nella nostra epoca, che Heidegger chiama della “fine”, del “compimento”
o del “superamento” della metafisica, che ci diventa possibile
capire meglio che la verità non è soltanto o principalmente la
proposizione che descrive adeguatamente lo stato di cose, ma è l’appartenenza
ad un orizzonte dentro cui siamo “gettati”, che ci è donato.
In questa epoca, in cui diventa comprensibile - perché è finita la
metafisica - questa esperienza della verità come appartenenza, allora
è più verosimile cercare il vero nei poeti e in certi poeti che
poetano sulla poesia. Ecco perché il discorso è complesso. Heidegger
non avrebbe mai detto che si debba in ogni epoca cercare la verità
piuttosto nella poesia; ma soltanto che nella nostra epoca diventa
possibile cercare la verità nei poeti, in quei poeti che sono
particolarmente consapevoli del significato della poesia in questa
epoca. Quest’idea è complessa, ma non del tutto inverosimile. Non
tutti i poeti sono uguali, non sempre il rapporto tra verità e poesia
si svela nello stesso modo. Per Heidegger di questa epoca sono emblemi
poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl, George.
Lasciamo la poesia, per tornare invece al discorso più globale sull’arte.
Lei ha parlato dell’arte, dell’esperienza estetica come esperienza
di verità. Possiamo allora radicalizzare il discorso e intenderla
proprio come esperienza ermeneutica?
Possiamo sicuramente parlare di esperienza ermeneutica in rapporto a
questa verità intesa come appartenenza all’apertura. L’ermeneutica
è quella posizione filosofica che individua l’esperienza della
verità non come descrizione oggettiva di stati di cose, o quanto meno
non solo come descrizione oggettiva di stati di cose, ma prima di
tutto come abitare dentro un’apertura che ci regge e ci rende
possibile qualunque descrizione oggettiva. Come a Marx interessava
capire l’ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo,
così a Heidegger interessa cercare di risalire a questa verità come
apertura alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo
risalire è un dialogo con la poesia. Heidegger ha spesso parlato
della filosofia, del pensare, come dialogo di filosofia e poesia.
Questo dialogo è sempre in corso e in esso entra in gioco il modo di
vedere la verità come orizzonte a cui apparteniamo, il che non è
molto lontano dalla religione. A mio parere una riflessione intensa,
approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il pensiero, non
può che condurre anche a ritrovare una certa valenza religiosa di
ciò con cui la filosofia ha a che fare. Potremmo dire che se ciò che
ci si svela nella poesia è quella verità che ci è data come dono,
come grazia - si potrebbe dire -, e con cui siamo in un rapporto di
dialogo chiarificatore, interrogativo, non puramente contemplativo e
passivo -, allora quell’altra forma della vita spirituale che Hegel,
come ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte, riguarda
sicuramente la religione.
Io credo che il pensiero contemporaneo, attraverso l’esperienza dell’ermeneutica,
nella misura in cui riceve di nuovo un accesso ad una ricerca della
verità, ad un ascolto della verità che si dà nella poesia, sia in
qualche modo richiamato anche ad un’esperienza religiosa. Ciò che
caratterizza il pensiero di oggi in una larga parte della filosofia -
anche se non in tutta - è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma
sempre più anche una nuova sensibilità religiosa che non mette da
parte la poesia. Probabilmente se vi sarà una nuova esperienza
religiosa del pensiero, essa dovrà essere sempre più intensamente
collegata con l’esperienza estetica, comportando, a partire da
questo aspetto, una ridefinizione dell’esperienza religiosa stessa.
Chi è Gianni Vattimo
Gianni Vattimo è nato a Torino nel 1936. Allievo di Luigi Pareyson,
si è laureato nel 1959 a Torino. Ha studiato ad Heidelberg con Karl
Löwith e Hans Georg Gadamer, il cui pensiero ha introdotto in Italia.
Dal l964 professore incaricato e dal 1969 ordinario di Estetica a
Torino, dal l982 è ordinario di Filosofia teoretica presso la stessa
università. Ha insegnato come Visiting Professor in varie
università degli Stati Uniti. È stato direttore della "Rivista
di estetica"; membro di comitati scientifici di varie riviste
italiane e straniere; socio corrispondente dell'Accademia delle
Scienze di Torino. Svolge un'intensa attività di editorialista per il
quotidiano torinese “La Stampa”, per “L’Espresso” e per “El
Pais”.
Nelle sue opere, Vattimo ha proposto una interpretazione
dell'ontologia ermeneutica contemporanea, che ne accentua il legame
positivo con il nichilismo, inteso come indebolimento delle categorie
ontologiche, tramandate dalla metafisica e criticate da Nietzsche e da
Heidegger. Un tale indebolimento dell'essere è la nozione-guida per
capire i tratti dell'esistenza dell'uomo nel mondo tardo-moderno e -
nelle forme della secolarizzazione, del passaggio a regimi politici
democratici, del pluralismo e della tolleranza - rappresenta anche il
filo conduttore di ogni possibile emancipazione.
Principali pubblicazioni:
Il concetto di fare in Aristotele, Giappichelli, Torino, 1961; Essere,
storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino
1963; Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino, 1967; Poesia
e ontologia, Mursia, Milano 1968; Schleiermacher, filosofo
dell'interpretazione, Mursia, Milano, 1968; Introduzione ad
Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971; Il soggetto e la maschera,
Bompiani, Milano, 1974; Le avventure della differenza,
Garzanti, Milano, 1980; Al di là del soggetto: Nietzsche,
Heidegger e l'ermeneutica, Feltrinelli, Milano, 1981; La fine
della modernità, Garzanti, Milano, 1985; Introduzione a
Nietzsche, Laterza, Roma-Bari,1985; La società trasparente,
Garzanti, Milano, 1989; Etica dell'interpretazione, Rosenberg
& Sellier,Torino, 1989; Filosofia al presente, Garzanti,
Milano, 1990; Oltre l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari,
1994; Credere di credere, Garzanti, Milano, l996. Ha curato:
(con p. a. rovatti) Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano,
1983; (con j. derrida) Diritto, giustizia e interpretazione:
annuario filosofico europeo, Laterza, Roma-Bari, 1998. Vattimo,
inoltre, cura un annuario filosofico a carattere monografico edito da
Laterza (Filosofia '86 e seguenti).
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