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Una visione morale d'assieme



Giovanni Giudici con Oreste Pivetta



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"Talvolta apro a caso, leggo due o tre poesie, non mi paiono orrende, ma non mi esalto". Così dice Giovanni Giudici, uno dei più importanti poeti italiani del dopoguerra (con Caproni, Luzi, Bertolucci, Zanzotto), davanti al volume I versi della vita (che capovolge il titolo di uno dei suoi primi e più importanti libri, La vita in versi), la raccolta completa, ma ovviamente non definitiva, delle sue poesie (con l'aggiunta di apparati critici, biografie, bibliografie, a cura di Carlo Zucco e di Carlo Di Alesio, e con un'introduzione di Carlo Ossola).

Duemila pagine, copertina blu, dorso decorato in oro, I versi della vita è l'ultima uscita dei Meridiani Mondadori, la più prestigiosa collana italiana di classici: Giudici è tornato alle Grazie, sul golfo di La Spezia (dove è nato nel 1924) nella casa dove per breve tempo visse bambino ("cambiavamo spesso, mio padre non pagava la pigione"), dopo una vita tra Roma, Ivrea (alla Olivetti di Adriano Olivetti), Torino e infine a Milano.


Caro Giudici, che cosa pensare davanti a questo lavoro, tante poesie, una vita davvero, ormai mezzo secolo, in versi?

"Una verifica estrema che continua a spaventarmi. Non avrei mai pensato di arrivare a duemila pagine. Mi è capitato, come è capitato ad altri miei colleghi".?

Le pagine probabilmente aumenteranno.

"Per la prima volta, dopo quasi un anno, sono tornato a scrivere. Una trentina di versi informi..."

Sarà per burla, ma non mi sembra che lei abbia un'idea molto alta, nobile della sua figura.

"Una volta a Budapest, per una conferenza, mi chiamarono maitre. Me ne compiacqui".

Sa un po' di cucina. Lei sembra invece non gradire il titolo proprio di poeta. Non diciamo vate, che è dannunziano...

"Ho scritto qualche poesia in giovanissima età, ma l'idea tardo infantile di divenire un poeta mi è sembrata presto ridicola. Adesso, dopo anni, mi sento di dire: faccio il poeta. Ma nel senso che io faccio questo, così come un altro può fare il pentathleta. Mi sembra tutto illusorio quando la volubilità nel mondo è tanta. Mi limito a pensare e a riconoscere d'essere entrato in un canone, non assoluto, ma attendibile, insieme con altri, da Pasolini che conosco poco, a Zanzotto al quale sono legato da fervido affetto...".

Diceva prima per le sue poesie di un compiacimento senza esaltazione...

"Ascoltai una volta William Faulkner, a Roma. Disse che ogni opera artistica risulta al proprio autore un fallimento, ma che ci sono fallimenti splendidi. Il fallimento dovrebbe rappresentare l'insoddisfazione di chi scrive. Mi ricordo nel pubblico, tra i vari astanti, Ignazio Silone, che era un uomo di valore al di là delle tante polemiche d'oggi su suoi rapporti con il fascismo. Gli chiese quale tipo di contratto di lavoro applicasse ai suoi braccianti. Buffo, no?"

Di quell'incontro pubblico lei scrisse un resoconto, perché il suo mestiere allora era quello di giornalista...

"Sì, dopo essere stato, finita la guerra, garzone alle cucine dei militari inglesi e impiegato d'ordine al ministero dell'interno, grazie alla raccomandazione del padre di un amico, divenni funzionario di polizia. Stavo nel partito socialista e per poco non mi fecero segretario della federazione giovanile. Ma la mia vita era funestata da un amore... Al ministero mi collocarono all'ufficio stampa, ma non facevo assolutamente nulla. Leggevo e scrivevo la mia tesi di laurea, su Anatole France, con i libri presi a prestito alla Biblioteca nazionale. Mi laureai e il professore mi propose un lettorato in Francia. Ma i soldi erano pochi e rinunciai. Invece, grazie a un compagno sottosegretario, presi un distacco dal ministero per fare politica e viaggiai un poco tra Milano, Roma e Torino.

"Alla scissione socialista trovai lavoro come praticante all'Umanità, dove capocronista era Mario La Stella, il padre di Oliviero, che sta adesso al Messaggero. Mario La Stella mi insegnò il mestiere e in primo luogo la precisione... Divenni persino capocronista, quando lui si trasferì ad un nuovo quotidiano che si chiamava L'Espresso. Ma l'Umanità, una crisi dopo l'altra, morì e mi ritrovai all'Usis, United States Information Service. Facevo il direttore di una rivista, Mondo occidentale. Dopo pochi anni, chiusi anche con l'Usis e, presentato da Riccardo Musatti, caporedattore dell'Italia socialista, un giornale più povero dell'Umanità, entrai all'Olivetti. Adriano Olivetti s'inventò un quotidiano, in occasione delle elezioni del 1958, La via del Piemonte. Mi propose di lavorare là e accettai. Molta improvvisazione e tanti raccomandati come me. Direttore era Geno Pampaloni che arrivava al giornale alle dieci di sera, così si lavorava fino alle tre del mattino. Mi ricordo Nello Ajello, Giulio Crosti e altri, tanta brava gente. Non c'era l'aggressività di oggi. Eravamo disturbati però da un cronista dell'Unità che si chiamava Novelli. Ci faceva dispetti con le notizie dal consiglio comunale".


Dopo Torino e Ivrea, finalmente Milano, ma sempre alla Olivetti. E intanto in quegli anni, dai Cinquanta in su, accanto al lavoro, le sue poesie, dalla Vita in versi al Ristorante dei morti, da Salutz a Eresie della sera: come si diventa poeti?

"Sosteneva Valery che gli dei ti danno il principio, poi bisogna continuare da soli".

E come ha continuato?

"Dopo i primi ambizioni balbettamenti, tutto è venuto un po' da sé. Come ammoniva Leopardi nello Zibaldone, leggi molta poesia, poi fai poesia. La mia inclinazione è stata quella di cercare la poesia attraverso temi forse non ritenuti poetici, come il quotidiano della vita. Perché il poetico è nemico della poesia, come il sentimentale è nemico dei sentimenti. E così via...".

E' un mestiere faticoso il suo?

"Saba raccontava di scrivere una poesia in dieci minuti. Alle volte insegui un verso per un anno".

Ha avuto maestri?

"Se penso agli ultimi, ricordo Giacomo Noventa, ricordo Montale, che era un monumento letterario, e Umberto Saba, che mi era anche una cara persona".

Poi Fortini...?

"L'ho conosciuto attraverso i Quaderni Piacentini e con Grazia Cherchi, quando ormai s'eran spenti quegli entusiasmi giovanili per cui tutti i socialismi sono buoni. Fortini mi ha indotto alle letture più serie e più profonde. Quello con lui fu un incontro prezioso. Con l'idea del catechismo che ho in testa, se uno mi dice di fare una cosa io la faccio. Così se Fortini mi diceva di leggere i Manoscritti economico-filosofici di Marx, io li leggevo. E mi piacevano pure".

E che cosa ha imparato??

"Che ci serve una concezione unitaria del mondo non come disegno dogmatico ma come aspirazione a una totalità: questo ancora ci lascia la speranza, perché una visione morale d'assieme dice che se tu fai questo ne consegue quest'altro. Obbliga alla coerenza e implica un progetto di trasformazione. E invece hanno voluta condannarla e abolirla come fosse metafisica. Vorrebbero distruggere la dimensione stessa della progettualità, per garantirsi uno status quo perenne...".

E la fede? Di recente ha scritto per un editore svizzero una prefazione al Vangelo di Matteo...

"Sono stato un fanciullo pio. Stavo ore a guardare il Santissimo Sacramento, aspettandomi che Gesù comparisse da un momento all'altro. Non mi è apparso. Pazienza. Baudelaire insegna che il cattolicesimo possiede il massimo di elasticità".

Però lei ha raccontato d'esser stato praticante anche molto più avanti negli anni...

"Sì, praticavo, dopo che una grave malattia aveva colpito mio figlio. Era successo che uno dei parrocchiani di S.Anselmo a Roma un giorno mi incontrasse e mi comunicasse d'aver saputo di mio figlio. Aggiungendo: abbiamo pregato per lui. Io risposi: va bene, grazie. E cominciai a frequentare S.Anselmo, dove si celebrava la messa gregoriana. Poi salii a Ivrea, ambiente laicizzante...".

In un recente articolo, lei ha ricordato la figura di Ernesto Buonaiuti, il sacerdote che venne scomunicato per il suo modernismo...

"Scomunicato vitando, cioé da evitare, il massimo della scomunica. Fu Ottiero Ottieri, mio compagno d'università, a presentarmelo. Era stato sospeso dall'insegnamento. La sua figura mi colpì: era un uomo di grandissima spiritualità. Ebbi anche l'onore di battere a macchina, sotto la sua dettatura, i suoi scritti".

Lei ha tradotto molto, ad esempio Robert Frost, Sylvia Plath, Pound, Coleridge, soprattutto Puskin....?

"Un po' per denaro, un po' per esercizio. Magari all'Olivetti, nei tempi morti del lavoro. Tradussi l'Onegin perché mi sarebbe piaciuto trovare un'opera così nella letteratura italiana".?

I poeti d'oggi, i giovani, li conosce?

"Mi è capitato di segnalarne più volte uno, Paolo Fabrizio Jacuzzi, anni fa per la sua prima opera, Magnificat, di recente per la sua seconda raccolta, Jacquerie...Ho scritto sul Corriere del 21 dicembre scorso) che i suoi versi suggeriscono la sensazione di una nuova stagione nella poesia italiana".

E la nuova stagione della politica?

"Non esiste più una forza politica che rappresenti gli interessi popolari, ammesso che si sappia che cosa siano gli interessi popolari. Siamo vittime della televisione, sospinti ai consumi perché consumare stimola la produzione. Questo è un paese trasfigurato. Persino durante il fascismo, nel conformismo di quegli anni, sopravviveva un partito d'opposizione organizzato e fortemente radicato nel paese".

Non le piace la televisione. E i giornali?

"Diciamo che cedo alla banalità positiva che s'esprime nella lettura dei giornali. E' un modo d'esserci. Come nelle partecipazioni a lutto, con gli elenchi dei nomi, in fila sotto quelli dei poveracci defunti, le parentele, le amicizie, le cariche, le presidenze... ".



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