Borges, dall’avanguardia al
classicismo
Sergio Garufi
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Borges, dall’avanguardia al
classicismo
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A più di un decennio dalla sua morte, Jorge Luis Borges offre, all’analisi
pacata del lettore e del critico, intere e compiute la sua lunga
vicenda umana e la sua formidabile parabola creativa. Placatosi il
clamore degli ultimi vent’anni della sua vita - quando lo si
definiva “il più grande scrittore del mondo” (Lamberti Sorrentino),
o ci si indignava per ogni mancata assegnazione del premio Nobel -
risulta ora meno improbo provare a stendere un consuntivo del
contributo che lo scrittore argentino ha dato alla letteratura del
Novecento.
Claudio Magris ed Ernesto Sabato furono tra i primi a segnalare la
produzione poetica come centro del sistema letterario borgesiano, in
anni in cui questa veniva dai più considerata marginale o secondaria.
Difatti, l’attenzione dei critici si era sempre soffermata più sui
racconti fantastici degli anni ’40 (Finzioni e L’Aleph),
e sui brevi saggi del decennio successivo (Altre Inquisizioni),
considerati unanimemente i suoi autentici capolavori, che non sulla
poesia. Questo fuorviante pregiudizio fu originato, con ogni
probabilità, dalle pubbliche e ripetute ammende che lo stesso Borges
fece riguardo i propri esordi poetici, e che lo portarono per molti
anni ad abbandonare la lirica per dedicarsi quasi esclusivamente alla
narrativa.

In realtà, in quelle prime tre raccolte di versi giovanili presto
ripudiate (Fervore di Buenos Aires, Luna di fronte e Quaderno
San Martin), composte negli anni ’20 durante una intensa
stagione creativa vissuta nelsegno della militanza appassionata al
movimento ultraista, molti sono gli elementi che ritroveremo nella
produzione poetica successiva. A dispetto dell’opinione critica
corrente, secondo la quale Borges, una volta riconosciuto l’errore,
intraprese un percorso inverso (dall’avanguardia al classicismo),
senza far tesoro delle esperienze precedenti, a un’analisi più
attenta si riscontra invece una sostanziale continuità fra gli inizi
sperimentali e la lirica della maturità.
Il marcato espressionismo degli inizi non riesce ad ostacolare l’emergere
di una vena intimista, che rimarrà negli anni la sua voce più
autentica. I versi giovanili evocano interminabili e solitarie
passeggiate notturne per i quartieri periferici della città, vista
come una vasta e popolosa disseminazione di tranquilli gusci
familiari, ascoltati attraversando piazze, giardini, case con patio.
da Le strade (da Fervore di Buenos Aires, Poesia '23-'76,
Rizzoli, traduzione Livio Bacchi Wilcock)
Le strade di Buenos Aires
sono già le mie viscere.
Non le avide strade
scomode di folla e di trambusto,
ma le strade svogliate del quartiere,
quasi invisibili per l’abitudine,
intenerite da penombra e da tramonto
e quelle più fuori
prive di alberi pietosi
dove austere casette si avventurano appena,
oppresse da immortali distanze,
a perdersi nella profonda visione
di cielo e di pianura.
Il giovane Borges, sin dalla prima raccolta, si esprime con tono
solenne, col gusto di un classico. E’ evidente la divergenza fra un
programma polemico di rottura col passato e una pratica letteraria
già orientata, nei contenuti e nelle forme, verso scelte classiche.
La forma metrica più adoperata è quella del verso libero e del
sonetto. La passione per Walt Whitman lo spinge a far grande uso dell’enumerazione
caotica, il cui “merito maggiore è il delicato accordo verbale, le
simpatie e differenze della parola”. Questo modello stilistico gli
serve per suggerire al lettore un caos apparente, mentre nell’intimo
tutto deve sembrare un concerto che esprime ordine e misura. Il tema
della metafora, in questi primi versi, è centrale e insistito. Il
compito del poeta, come aveva sentenziato il manifesto dell’ultraismo,
consiste proprio nell’invenzione di metafore originali.

Lungo un arco di venticinque anni la produzione poetica borgesiana
subisce un forte rallentamento, al punto da sembrare una vera e
propria interruzione. Carme presunto, del ’43, è in verità
più l’occasione per purgare e rimaneggiare ampiamente le prime
raccolte che non per presentare nuovi componimenti. Il distacco dal
movimento ultraista è definitivo, e così la rinnegata fede nella
possibilità di inventare nuove metafore (“il più lusingato
equivoco è nel supporre che il compito del poeta consista nell’invenzione
di metafore originali”). La metafora, comunque, resta un suo
abituale motivo di riflessione, seppure resti convinto che “è un
errore credere che le metafore possano essere inventate. Quelle vere
sono sempre esistite”. Al verso libero e al sonetto subentrano forme
espressive che l’avanguardia aveva rigettato, come l’endecasillabo
e la rima.
Ma è nello studio delle varianti apportate a quei primi tre libri che
si palesa con maggiore chiarezza la progressiva mutazione dei gusti
del poeta. In un pregevole saggio di Tommaso Scarano sull’argomento,
si evidenzia come le correzioni mirino a rendere più precisa, più
piana e scorrevole l’espressione, mitigando gli eccessi barocchi e
limando alcune asperità e sentimentalismi.
L’Artefice, del ’60, si può forse considerare l’opera
della maturità poetica di Borges, insuperato per ricchezza e forza d’impatto
dalle raccolte di versi che seguiranno. Il discorso poetico si nutre
qui di retorica classica, abbondando nell’uso di ipallage di
virgiliana memoria, nella volontà di raggiungere un ideale classico
di compostezza formale. Borges trasferisce inoltre lo schema della
biografia compendiosa, probabilmente mutuato da Dante e già adoperato
nella prosa dall’argentino, che consiste nel rappresentare una
singola scena in cui si compendia e riassume tutta la vita del
personaggio descritto. Le poche metafore ricorrenti sono quelle di
sempre: il tempo come un fiume che passa e resta, la morte sorella del
sogno, la vita come le stagioni, lo specchio che ci rivela la nostra
vera identità.
Da Arte poetica (L'artefice, 1960, Poesia '23-'76,
Rizzoli, traduzione Livio Bacchi Wilcock)
Guardare il fiume fatto di tempo e acqua
e ricordare che il tempo è un altro fiume,
sapere che ci perdiamo come il fiume
e che i visi passano come l’acqua.
Sentire che la veglia è un altro sonno
che sogna di non sognare e che la morte
che teme la nostra carne è quella morte
di ogni notte, che si chiama sonno.
Vedere nel giorno o nell’anno un simbolo
dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,
convertire l’oltraggio degli anni
in una musica, un rumore e un simbolo.
Vedere nella morte il sonno, nel tramonto
un triste oro, tale è la poesia
che è immortale e povera. La poesia
ritorna, come l’aurora e il tramonto.
In Arte poetica si nota la singolarità metrica delle quartine
a rima incrociata identica, come il simbolo dello specchio e del
fiume, “che è lo stesso ed è un altro”. In questo caso Borges
ricorre a un repertorio di simboli e temi cari al barocco (lo
specchio, il sogno), ma ne rigetta la forma magniloquente, l’espressione
pomposa.
In L’altro lo stesso, La rosa profonda e La moneta
di ferro, cioè le tre raccolte che seguiranno, la forma metrica
più usata è il sonetto. La tendenza è ora quella di ispirarsi
prevalentemente alla letteratura, in una sorta di “poesia
intellettuale” che trae spunto da temi e personaggi letterari e
mitologici, vissuti però dal poeta come una forma di intimità da
condividere. Anche il motivo del vagabondare notturno per le strade
della sua città, già presente nelle poesie giovanili, diventa
pretesto per una meditazione sulla morte, mettendo subito a fuoco il
nodo metafisico, l’interrogazione senza risposta.
da Limiti (L'altro lo stesso, 1964, Poesia '23-'76,
Rizzoli, traduzione Livio Bacchi Wilcock)
Di queste strade che scavano il tramonto,
una ci sarà (non so quale) che ho percorso
già per l’ultima volta, indifferente
e, senza indovinarlo, sottomesso
a Colui che prefigge onnipotenti norme
e una segreta e rigida misura
alle ombre, ai sogni e alle forme
che intessono e che stessono questa vita.
Se per tutto c’è termine e punto fermo
e ultima volta e mai più e oblio,
chi ci dirà a chi, in questa casa,
senza saperlo abbiamo detto addio?
In La cifra, dell’81, anche il sentimento dell’epica
diventa elegiaco, per il rimpianto di un destino precluso. Si affaccia
poi, pudicamente, la gioia d’amore - per l’incontro con Maria
Kodama, la donna che sposerà di lì a pochi anni e che gli starà
vicino fino alla fine, e alla quale rivolgerà una dedica commossa -
paradossalmente assieme a meditazioni sulla morte, attesa quasi con
impazienza.
Nell’85 viene pubblicata la sua ultima raccolta poetica, dal titolo I
congiurati. Nelle ultime composizioni la lingua di Borges si fa
più misurata, degna della più severa tradizione ispanica. I
sentimenti espressi sono gli stessi di sessant’anni prima, ma il
lessico si è completamente depurato, il linguaggio è ora più nitido
e armonioso con l’uso del tradizionale endecasillabo. Il poeta
ottantenne continua a cantare la sua terra con lo stesso impeto e lo
stesso fervore dei vent’anni, ma con l’abilità consumata di chi
ha una lunga esperienza letteraria e un’alta coscienza del fatto
estetico.
Il vecchio sogno della conquista della semplicità espressiva viene
finalmente raggiunto da Borges riconoscendo, fra il giovane poeta
avanguardista e il maturo scrittore di impostazione classica, la
sostanziale identità. Nelle parole dello stesso Borges: “il ragazzo
che li scrisse era già essenzialmente il signore che ora li corregge,
tutti e due scettici sulle scuole letterarie, tutti e due devoti di
Schopenhauer, di Stevenson e di Whitman”.
Link utili:
Su Borges e la sua letteratura:
-The Jorge Luis
Borges Center for studies & documentation
-The
Garden of Jorge Luis Borges (ingl) (contiene testi, biografia,
saggi e articoli)
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