Forum/Un luogo di libertà
Valerio Magrelli, Franco Marcoaldi,
Valentino Zeichen con Paolo Mauri
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Martedì 16 gennaio presso la redazione di Caffè Europa si
sono riuniti tre poeti - Valerio Magrelli, Franco Marcoaldi e
Valentino Zeichen - che, grazie anche all'intervento del critico
letterario Paolo Mauri, responsabile delle pagine culturali de la
Repubblica, in veste di moderatore, hanno discusso di poesia. La
conversazione si è svolta in modo immaginifico e non lineare,
procedendo per associazioni di idee, per rapidi crescendo di interesse
e altrettanto repentini cambi di rotta, quando l'interesse per
l'argomento trattato sembrava venir meno.
Non sono mancate le divagazioni - le derive, in linguaggio
internettiano - tutte però mirate a fornire interpretazioni originali
e stimolanti. Una conversazione a quattro errabonda ma ricca di
suggestioni anche linguistiche - come si conviene a un gruppo di poeti
- e di spunti di riflessione che lo spirito critico dei lettori di Caffé
Europa è invitata ad approfondire.

Lo spunto iniziale è stato fornito da questa frase di Alda
Merini, che conclude l'intervista all'autrice condotta da Tina Cosmai
per Caffè Europa (vedi Articoli collegati):
"Io non vedo un futuro per la poesia, credo che nel nuovo
millennio scomparirà. D’altronde l’uomo le ha preferito la
tecnica. La poesia invece nasce dalla fatica di vivere il quotidiano.
Magrelli: La tecnica è nata per devastare la vita umana - ma
forse dico così perché mi si è appena rotto il computer. La poesia
però, al contrario di quanto dice la Merini, ha il valore terapeutico
di una benda o di un panno caldo messo sopra le ustioni. Probabilmente
quindi il bisogno di poesia è destinato ad accentuarsi.
Mauri: Non sarà che la Merini esprime quella paura che c’è
sempre dell’idea che le cose scompaiano?
Marcoaldi: Provo a rovesciare il ragionamento e a spiegare
perché secondo me questo potrebbe essere un ottimo momento nper la
poesia, anche se poi non lo è affatto nel nostro paese. Dal punto di
vista della scrittura letteraria si potrebbe sostenere a ragione che
la poesia è più contemporanea di quanto non sia il romanzo, che
racconta un tipo di esperienza definitivamente esaurita, strutturata,
organica, lenta. La poesia invece racconta un tipo d’esperienza
fratta, rapsodica, baluginante, molto più vicina a noi. Non a caso un
po’ a ragione e molto a torto viene apparentata anche con altre
forme di comunicazione del nostro tempo.
Subito il pensiero va alla pubblicità, e qui ovviamente cominciano le
differenze perché se la comunanza (fra pubblicità e poesia, ndr) è
legata all’economia della parola, perché entrambe sono forme di
espressione economiche, che procedono per sottrazione e non per
accumulazione, la pubblicità deve però fornire un linguaggio
spendibile, quando invece la poesia è totalmente gratuita. La
pubblicità deve ricostruire i luoghi comuni del linguaggio
contemporaneo, mentre il dovere della poesia dovrebbe essere al
contrario quello di smontare i luoghi comuni, magari riutilizzandoli
dopo averli smontati.
Se si passa dai ragionamenti general-generici su ‘la poesia è morta’
e si vanno a vedere le singole realtà, osserviamo ad esempio che
nella realtà anglosassone la vitalità e la presenza della poesia
sono incommensurabili rispetto alla realtà italiana. Da ventanni
nelle metropolitane di Londra ci sono poesie che le persone che
passano leggono quotidianamente. A Roma praticamente non c’è
metropolitana, dunque il problema è risolto automaticamente, ma
comunque a nessuno verrebbe in mente di fare un’operazione del
genere.
A me non piace l'autocompiacimento, in chi fa, pubblica e critica
poesia, nel ritenerla una cosa sotterranea, criptica, per pochi. Ma
perché, dove sta scritto? (L'elitarismo, ndr) non è un segno di
qualità. Io amo tantissimo un poeta che si chiama Philip Larkin le
cui ultime tirature, come ha scritto Walcott, erano da concerto rock,
eppure Larkin è un fior di poeta, quindi uno potrebbe anche chiedersi
perché in Italia invece ci sia questa dimensione marginalissima della
poesia che, ripeto, comporta anche un certo compiacimento.
Mauri: In Italia non ci sarà la poesia in metropolitana ma c’è
un quotidiano che ogni giorno pubblica una poesia all’inizio della
pagina culturale. In fondo anche un quotidiano è una metropolitana,
circola in città, cammina, ed è un modo per far uscire la poesia
dall'underground. E' facile cadere nei luoghi comuni, come quello a
cui accennava la Merini quando esprime la paura che la poesia sia
morta. In Italia le grandi tirature sono state quelle di Montale dopo
il Nobel, prima no. Il Meridiano che raccoglie le poesie di Ungaretti
ha venduto 15 - 20 mila copie nel corso di molti decenni, e Ungaretti
non è certo un nome sconosciuto, quindi è rimasto in catalogo presso
un noto editore, ed è stato proposto in una collana come i Meridiani
che magari serve persino come regalo di Natale.
Zeichen: Il nuovo millennio si apre con alcuni eventi politici
e di costume importantissimi, per esempio lo stato ecologico del
mondo, l’uranio, l’effetto serra. Improvvisamente sono tornate
alla ribalta delle tematiche assolutamente drammatiche per il futuro e
penso che queste tematiche possano divenire materiale per le giovani
generazioni poetiche. Quindi bisogna passare da una poesia soggettiva
a una poesia tematica, in qualche modo vi è la possibilità di
ritornare all’impegno, a una poesia che affronti questi argomenti e
problemi.
Quello che diceva Marcoaldi a proposito della poesia come brevità,
celerità, formato rispetto al romanzo, può spingere i poeti ad
affrontare questi argomenti. Pensavamo che la poesia impegnata e
politica fosse archiviata, per via di una serie di eventi che avevano
normalizzato il pianeta, viceversa spuntano queste nuove opportunità
anche per le nuove generazioni. Personalmente mi sono già cimentato
in questo tipo di interventi in passato - la poesia ecologica, ad
esempio - Valerio Magrelli anche. Adesso bisognerà vedere se i
giovani vorranno gettarsi su questi argomenti, che sono prede ghiotte.
Mauri: Voi tutti siete poeti del secolo scorso e avete
pubblicato in un secolo, anzi addirittura un millennio, che si è
chiuso. Dico questo perché effettivamente poi in qualche modo le date
agiscono sulla nostra fantasia, costringono a ripensare in termini di
novità alcune cose. Probabilmente tu te lo ricorderai perché parlavo
anche di te in un discorso sui poeti che si ritirano a vita privata,
attraversano il secolo ed escono dall’impegno proprio dei poeti del
secolo precedente, che si sono confrontati con il pubblico, con la
storia, che hanno parlato alla gente di questioni ritenute da loro
urgenti ed essenziali, importanti, vitali, sul piano pubblico, come
Manzoni, Leopardi, Foscolo. Oltre a impegnarsi nelle cose che
interessavano loro direttamente, questi autori filosofavano o
arringavano attraverso la poesia.
Poi a un certo punto i poeti si sono ritirati a vita privata, fuggendo
lontano da D’Annunzio in modo da evitare un’eccessiva esposizione
al pubblico. Gli ultimi poeti chiamati a corte sono stati i poeti
italiani durante il fascismo, quelli che hanno cantato la guerra d’Africa,
la cui memoria si è stemperata anche se fra loro c’erano alcuni
nomi non di secondo piano all’epoca. Ma la grande poesia
novecentesca ha per lo più cercato di tenere lontano il momento
pubblico, casomai di cantarne il riflesso: “il mio cuore è il paese
più straziato’ dice Ungaretti a proposito della grande guerra.
Sento questo ritorno a un interesse generale come un cambiamento che
in qualche modo è nell’aria. Forse anche l’idea di scrivere
poesia su un fatto pubblico, come può essere un giornale - mi
riferisco al libro recente di Valerio Magrelli, Didascalie per la
lettura di un giornale - è anche un modo per occuparsi di
questioni da condividere coi lettori, non limitandosi a comunicare
solo un’intima biografia di vita.
Marcoaldi: E' una questione delicata perché l’autobiografismo
non è necessariamente intimismo. Kazimierz Brandys, uno scrittore che
ha pagato le sue scelte politiche, quando sosteneva, parlando del
romanzo, che il Novecento è inevitabilmente autobiografico intendiva
dire che essendo saltate tutte le filosofie della storia lo scrittore
era costretto a ripartire da sé, il che non significa un cedimento ai
propri problemi personali e un’indifferenza nei confronti della
vicenda pubblica, ma che si può partire dalla propria biografia per
parlare di questioni che riguardino anche il prossimo.
Per quanto riguarda la questione della lingua, bisogna trovare un
equilibrio, una lingua che sia allo stesso tempo innovativa e in grado
di preservare quel tanto di tradizione e condivisione linguistica che
consenta al poeta di arrivare al suo pubblico, perché chiunque fa
arte deve comunicare e condividere. Dunque autobiografismo non
significa solo chiamarsi fuori dalla storia.
Mauri: Bisogna prendere questi discorsi con attenzione e non
estremizzarli mai perché è evidente che anche un richiamo ad
esperienze condivisibili con altri o a un pubblico oggi ha un suono
diverso da quello che poteva avere nell’800 o in certi momenti di
chiamata all’impegno.
Marcoaldi: Più che all'impegno, alla responsabilità
Mauri: Sì, impegno è parola usuratissima. Ma in ogni caso
bisogna riflettere sull’indirizzo che un poeta vuole dare alla
propria poesia senza che questo comporti l’idea piatta che una
proposta che nasce dall’ autobiografia sia necessariamente
minoritaria: abbiamo troppi esempi davanti per poter pensare che si
possa fare una distinzione così netta.
Magrelli: In realtà io ho sempre difficoltà a riflettere
prendendo la distanza dal fatto concreto e testuale, che poi resta l’epifania
dei nostri discorsi. Zanzotto parla di un senso che viene sempre più
eroso, quasi cariato. Ecco, in qualche modo forse mai come adesso la
poesia è diventata necessaria, in questo mondo minacciato da un
non-senso diffuso ad ogni livello. In Didascalie per la lettura di
un giornale, il giornale è stato il pretesto per raccontare
queste modificazioni neanche più antropologiche, addirittura
chimiche: ci avevo messo delle poesie sull'incrocio tra fragole e
lucciole, e l’altro ieri ho visto in televisione che è stato
inserito il gene delle lucciole nelle scimmie.
Ecco, io credo che tutto questo sia materia per il poeta: il mondo non
è più quello di ieri e sta diventando qualcosa che nessuno immagina.
In camera mia non ho il manifesto di Che Guevara o di un calciatore ma
quello di Fukuyama, l’idiota del secolo trascorso, è lui la mia
stella cometa, potrebbe essere un personaggio di Flaubert, (il terzo
da aggiungere a) Bouvard e Pecuchet. In quest’orizzonte di
metamorfosi incessante, per approssimazione il più possibile vicino a
quello raccontato da Ovidio - perché siamo all’inverosimile, basti
pensare alla questione della radioattività, a queste bombe che
contaminano i loro oggetti, al vento che passa sulla carcassa dei
carroarmati sparpagliando le sue particelle come polline - dove ci
sono scenari che nessun romanzo di fantascienza avrebbe mai
immaginato, credo che (come poeti, ndr) ci sia molto da fare, è tutta
materia prima da elaborare.
Credo che tutto questo esista perché qualcuno ne scriva - siamo
veramente di fronte a una storia di una ricchezza senza paragoni.
Dunque siamo chiamati a vigilare sul senso, un senso che deve passare
attraverso la lingua, ed è per questo che la poesia non muore come
genere in quanto rappresenta un atteggiamento di riflessione sul
legame linguistico.
Zeichen: Il problema che sollevava Marcoaldi era quello dell’approccio
linguistico. E questo è un problema non indifferente, nel senso che
il poeta si può ritrovare di fronte a una geografia linguistica non
facilmente leggibile, ad esempio se si trova di fronte agli eventi
citati da Magrelli sui residuati bellici, che sono diventati in
qualche modo parlanti, i veri protagonisti del dopoguerra. Che tipo di
linguaggio un poeta anche giovane deve usare per avvicinarsi a questi
materiali?
E’ un problema questo perché presuppone una conoscenza della
geo-politica, della scienza, della tecnica, che non sono
necessariamente soggettive ma che nella loro drammaticità fanno
scattare il sentimento soggettivo, che poi riassume in una sorta di
“universalità” la condizione di sofferenza degli uomini soggetti
a questo tipo di offesa. Il poeta deve riuscire a raccogliere e dare
un senso a questi eventi assolutamente insensati. Ma come trovare una
struttura combinatoria di termini per poter illuminare e far sì che
le coscienze riconoscano questa condizione tragica e drammatica
attraverso la poesia - perché stiamo parlando di morte, di qualcosa
assolutamente letale?
Occorre uno scatto conoscitivo drammatico, sensibile per far
affrontare alla poesia questi argomenti. Il problema che ci poniamo
è: come sarà il nuovo? Quali sono i presupposti per arrivare al
nuovo? Penso ad esempio a un poeta del secolo scorso, Majakovski, che
si è giocato tutto e che per vicissitudini storiche ha perso quasi
tutto. Oggi che (i sistemi totalitari ai quali Majakovski si
contrapponeva, ndr) non esistono più, la sua poesia perde di senso.
Sono i rischi di un investimento in determinati argomenti.
Mauri: Io sono un fanatico dell’oralità, di quando la poesia
viene letta in pubblico: non credete che creare occasioni senza troppa
officialità in cui si leggano poesie sia un modo per parteciparle
senza aspettare che il lettore vada a comprare il libro, lo annoti e
ne faccia un tipo di consumo come quello del romanzo? La comunicazione
orale sembra nata per il momento di socialità della poesia, e a me
piacerebbe che ci si ritrovasse la sera a leggere poeti di oggi e di
ieri.
Marcoaldi: Recuperare la voce, il canto.
Magrelli: A me è capitato di fare viaggi nella provincia
italiana profonda per leggere poesia e i risultati erano indipendenti
dal pubblico - a volte si era in 4 o 5 in libreria o al bar - ma vedo
un pericolo in questa scelta ed è quello rappresentato dai poeti
americani che in qualche modo tirano la poesia dalla parte della
performance. Se ricordate, a Castelporziano la poesia veniva insidiata
e occupata quasi in maniera virale dall’elemento della comunicazione
teatrale. Anche i rapper sono dotati di grandissima comunicatività.
Ma tutto questo esula dalla specificità della comunicazione poetica,
che può essere anche orale, ma al modo di Toti Scialoja, di un’attenzione
in cui la sillaba richiama sempre all’interno del testo, è sempre
un appello al senso. Io avverto almeno la possibilità di una deriva
pericolosa per il cuore dell’esperienza poetica.
Marcoaldi: Aggiungiamo anche che in Italia spesso i peggiori
nemici della lettura della poesia sono gli attori, perché confondono
il poeta col poetico, e quindi immediatamente occorre enfasi,
retorica, senso del sublime. Il sospiro e la teatralità hanno la
meglio e il testo poetico viene massacrato.
Zeichen: Non sempre però: Benigni, ad esempio, nel leggere
Dante aveva un approccio felicissimo, mi stupii per come riusciva a
scardinarlo, a capirlo a metterne in evidenza alcune parti. Gli faceva
persino acquisire senso ulteriore. Non recitava Dante, faceva solo
finta di recitarlo.
Marcoaldi: Questo tipo di restituzione pubblica, che poi è la
più comune, allontana moltissimo dalla poesia, perché fa sì che il
cittadino qualunque identifichi immediatamente la poesia come il regno
della retorica e dell'enfasi. E tantopiù lo paga chi scrive poesia e
cerca disperatamente di sottrarsi a questo cliché.
Mauri: Forse questo succede perché i poeti non sorvegliano gli
attori. Sarebbe comunque interessante reintrodurre un godimento orale
della poesia. I rischi sono naturalmente quelli che ha indicato
Magrelli, cioé che un'occasione del genere venga sfruttata per
trasformarla in...
Marcoaldi: ... un "happening". C'è anche un elemento
di ulteriore gravità: quello di instillare ancora di più nel libero
sentire della poesia l'idea totalmente errata che fare poesia sia un
momento di massimo afflato. Tant'è vero che non c'è camorrista o
assassino che non scriva le sue belle poesie sull'amore infinito, sui
fiori, le piante e il cuore che pulsa.
Zeichen: Vorrei aggiungere che gli attori di una certa
notorietà si rifiutano di leggere poeti contemporanei, vogliono
sempre andare sul sicuro. E questa mi sembra una bassezza. Ci sono,
nella produzione di tutti noi, poesie non chiare - o forse di oscura
profondità - ma ci sono anche poesie aperte, lineari, che rientrano
nella comunicazione della lingua. Una poesia di D'Annunzio può
risultare incomprensibile, mentre una poesia di un contemporaneo,
proprio perché ha un linguaggio "basso", in qualche modo
rigenerato con la specifica finalità della comunicazione, può
maggiormente "arrivare". Ricordo infatti che Magrelli
qualche tempo fa lanciò l'idea di tradurre Leopardi -- un'idea
ovviamente scandalosa, paradossale.
Magrelli: Certo, perché si otterrebbe la comunicazione ma si
perderebbe l'espressione.
Mauri: Il problema, insisto, è quello di non lasciare soli gli
attori o i registi a gestire la poesia: devono esserci poeti in grado
di gestirsela in proprio, perché è bellissimo sentire i poeti
leggere se stessi, sanno esattamente qual è il timbro e il tono
(giusto per il loro testo poetico, ndr).
Zeichen: Una via per così dire confidenziale di incontrarsi in
determinati posti e leggere poesie potrebbe comunque rappresentare uno
scambio vitale.
Mauri: Antonio Albanese, quando recitava in Giù al Nord,
concludeva i suoi spettacoli leggendo poesie di Scialoja. Questo per
dire che la poesia può anche recarsi in luoghi strani. Pensiamo a
Benigni e ad Albanese, ma anche a Marco Paolini. Bisogna trovare le
occasioni per agevolare la circolazione della poesia, così difficile
su carta, e difficilissima anche attraverso mezzi moderni come
Internet, dove il rapporto con l'utente è quello delle Pagine gialle:
se io non vado a cercare una certa cosa non la troverò mai, perché
è difficile che sia questa cosa a raggiungermi. Bisognerebbe mettere
in mostra la poesia come si fa con le opere d'arte: non si va a
cercare l'opera di un pittore visitando il suo studio, quello è un
privilegio consentito solo ai suoi amici.
Magrelli: Io ricordo però delle trasmissioni di RaiTre che da
sole giustificano la Mediaset di Berlusconi: certe letali lezioni
accademiche (sulla poesia, ndr), delle più noiose, di un'ora e un
quarto ciascuna...Sono errori che lasciano morti e feriti sul campo,
che allontanano per sempre intere generazioni dalla poesia.
Mauri: Invece ricorderò sempre quel siparietto di Carmelo
Bene, Quattro modi per morire in versi, perché lì fu
tolta una velatura: lo schermo risultava sfavillante, con la testa di
Carmelo Bene che leggeva in primo piano Majakovski. Aveva la violenza
di uno spot pubblicitario, e una durata giusta per i limiti di
attenzione che ha uno spettatore. La radio e la televisione da questo
punto di vista hanno però sempre fatto le cose in modo molto casuale:
ci sono stati casi, o momenti, in cui si leggeva o si presentava della
poesia, ma senza avvertire la necessità di calibrare la cosa.
Zeichen: Le letture di poesia sono importanti anche per la
taratura dei versi. La poesia si sente nella voce, e incontrando la
voce passa da uno stato mortale, di feretro, che è quello dei
caratteri di stampa, alla vita, per poi ritornare alla morte. Riuscire
a far sentire la voce, il suono, la propagazione, fa sì che anche il
poeta possa prendere le contromisure per cambiare rotta, sostituire
termini, rendere la poesia più agile.
Magrelli: Il rapporto principale della poesia è quello con la
voce. La poesia è canto, ritmo, musica, e ovviamente deve trovare la
sua espressione vocale, mantenere il suo carattere vibratorio.
Marcoaldi: Io però avverto molto spesso la presenza di uno
scippo da parte del lettore di poesia inteso come performer, di un suo
appropriarsi indebitamente del testo poetico.
Mauri: Siamo abituati alle contaminazioni, ma in molti casi lo
scivolamento è verso il più facile, anche perchè è immediatamente
più redditizio. Credo che si possa introdurre un altro concetto, che
è quello della durata. I testi poetici sono gli "oggetti
letterari" che durano di più, e che si propongono per durare,
per attraversare epoche diverse, a prescindere dal fatto che
appartengano o meno allo spirito del tempo. Forse la poesia dovrebbe
rimotivarsi cercando di ascoltare ciò che sta succedendo intorno a
noi, ma se pensiamo alla poesia in generale, trovo che possa vantare
una durata maggiore rispetto a tanti oggetti in prosa.
Zeichen: La corrispondenza del manufatto artistico e della sua
mole è molto importante perché il tempo dell'apprensione si va
sempre più velocizzando.. Non abbiamo il tempo di leggere dieci
romanzi di scrittori irlandesi, ma possiamo leggerci dieci poeti. La
fortuna della poesia sta proprio nelle sue misure. La misura canonica
del sonetto ad esempio può attraversare benissimo i secoli, o anche i
millenni, perché ha la possibilità di arrivare velocemente a tutti.
Viceversa un romanzo non arriva perché non può più arrivare per
ragioni anche solo puramente temporali. E' questo il dato implicito di
durata che ha la poesia, durata intesa come permanenza nella
velocità.
Magrelli: Il panorama italiano della poesia è caratterizzato
dall'apertura alle recitazioni più diverse. La circolazione del
dialetto, ad esempio. Il dialetto è entrato a pieno titolo
all'interno della produzione poetica nazionale: esistono intere
collane dedicate alla poesia in vernacolo. C'è il confronto con la
tradizione anche sul piano della metrica. A lato, ci sono gli sviluppi
della poesia non lineare, della poesia visiva, le contaminazioni con
la musica, con forme di scansione verbale come il rap.
Da una parte c'è un'offerta ricchissima, dall'altra non bisogna
perdere di vista che per chi scrive la questione si pone in termini
completamente diversi.. Il poeta è innazitutto un posseduto, in senso
linguistico: non decide in che lingua deve scrivere. Scrive perché è
lacerato, abitato dai sogni, perché, come diceva Beckett, non sa fare
altro, non può fare altro, non sa dire diversamente. Io non
dimenticherei mai, lo dico in forma precauzionale, l'elemento
esclusivamente idiosincratico che informa la nascita di uno stile,
altrimenti si finisce per slittare in una visione della letteratura
che a me fa paura, una visione strumentale.
Cosa deve fare la poesia? Può dirlo solo una persona fortemente
disturbata che suggerirà una via che solo lui, nutrito di turbe e di
ossessioni, potrà indicare. Tutto parte da una versione un po'
modificata della mania. Ci deve essere un elemento fortemente maniaco
nella scrittura. Non è una questione di progettualità, ma viceversa
di autoconduzione.
Marcoaldi: Aggiungo come corollario a quanto ha detto Magrelli
che il vantaggio della poesia è che la totale discrasia tra la poesia
e il mercato librario, almeno quello italiano, consente la massima
libertà. La poesia è un luogo di libertà, rispetto alla presupposta
committenza - che del resto non esiste - e allo stesso tempo di grande
necessità interiore. E' un luogo che ti libera dalle richieste
esterne ma ti costringe dall'interno, perché uno scrive quando è
obbligato a farlo per le ragioni più diverse, che sono appunto quelle
che indicava Magrelli, ma anche, se vogliamo allargare il quadro al di
la della mente patologica, qualche momento di gioia legato a un
istante, a momenti di assoluta epifania.
Mauri: Per questo la letteratura vera dovrebbe togliersi
l'ipoteca del mercato.
Marcoaldi: Noi non abbiamo il problema della committenza
perché da noi l'editore non si aspetta niente. Sotto questo aspetto
la poesia ha un oggettivo vantaggio.
Magrelli: In questo fa di necessità virtù.
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