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Recensione/Il partigiano Johnny




Paola Casella



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Recensione/Il partigiano Johnny



Il partigiano Johnny, diretto da Guido Chiesa, scritto da Guido Chiesa e Antonio Leotti, con Stefano Dionisi, Fabrizio Gifuni, Chiara Muti, Barbara Lerici

E' possibile trasformare la Resistenza in metafora? E' questa la domanda che ci si pone dopo aver visto Il partigiano Johnny, trasposizione cinematografica dell'omonimo romanzo di Beppe Fenoglio. Perché, in modo assai più estremo e radicale di Fenoglio, Guido Chiesa, il regista e cosceneggiatore del film, mette in secondo piano la vicenda storica e politica per privilegiare la vicenda umana di Johnny, trasformandolo in un percorso di crescita, o forse solo di annullamento, che potrebbe avere luogo in qualsiasi guerra in qualsiasi parte del mondo.

Così anche l'attendibilità dei fatti, l'importanza della scelta di campo all'interno delle formazioni partigiane (Johnny si unisce dapprima ai Rossi, di matrice comunista, poi agli Azzurri, di matrice monarchica) passano in second'ordine, mentre grande risalto conserva l'ambientazione, accuratissima tanto per scenografie e costumi quanto per dettagli ambientali che chiunque (come me) sia cresciuto in quella parte d'Italia riconosce immediatamente (le file di pioppi, la scarnebbia, il profilo delle colline), perché più che la causa partigiana per Johnny (secondo Chiesa) ha importanza il fatto che la guerriglia si svolgeva dietro (e dentro) casa, per la difesa della propria casa.


Basta leggere questo passo di Partgiano Johnny per capire che Guido Chiesa ha voluto rispettare fino in fondo l'atmosfera (il "mood", si direbbe) che pervade il romanzo di Fenoglio, e per capire anche che quel mood è, per Chiesa, di gran lunga più importante della Grande storia:

"Johnny smaniò per la nostalgia. Si fissò a guardare dov'era la sua casa, giaceva sepolta sotto i rossigni contrafforti della cattedrale. Johnny compì il miracolo di enuclearla in elevazione, ecco la sua casa, col caro contenuto, librata in aria, nel vuoto contiguo ai contrafforti aerei della cattedrale."

Il partigiano Johnny è un eroe del Novecento perché è un individualista che crede nella grande famiglia umana (al punto da partire volontario per difenderne i valori universali) ma che non vi si riconosce. Il suo percorso all'interno della Resistenza è di progressivo isolamento: prima scompare il gruppo (quello Rosso come quello Azzurro), poi scompaiono le presenze femminili, poi i compagni. E' la parabola dei dieci piccoli indiani (... e poi non ne rimase nessuno), il Testamento di De André ("quando si muore, si muore soli").

Chiesa usa come metafora il viaggio (Johnny continua a spostarsi, nonostante non rimpianga altro che la casa) e come strumento di racconto l'immagine (i dialoghi, persino quelli tratti direttamente dal romanzo, risultano curiosamente declamatori e retorici, estrapolati dal contesto della prosa poetica di Fenoglio). Così del suo film si ricordano soprattutto i quadri lividi, i colori bluastri, la neve sporca, gli alberi neri : a loro volta metafore della solitudine non come circostanza, ma come condizione esistenziale. La vera scelta di campo del partigiano Johnny è quella di marciare solo verso il proprio destino individuale, senza compromettere nessuno dei suoi principi (un sistema sicuro per perdere qualunque contatto con gli altri esseri umani), senza cedere mai, nemmeno di un millimetro. E il film è la cronaca della sua agonia, raccontata quasi in tempo reale, attraverso inquadrature sempre più spoglie, rarefatte, essenziali.

Johnny è l'ultimo dei Mohicani ("Sei rimasto l'ultimo", dice infatti a se stesso, a metà fra lo sconsolato e l'orgoglioso), è un eroe alla Philip Marlowe, un Sam Spade delle Langhe, cui Stefano Dionisi presta la bella faccia malinconica, senza ahimé restituirgli fascino e spessore umano. Provate a pensare a come sarebbe stato diverso un partigiano Johnny con la faccia da ragazzino (dopotutto, Johnny ha solo vent'anni), per cui la Resistenza diventa un corso accelerato in cinismo e rassegnazione. Dionisi invece ha più di trent'anni, e si vede: il suo Johnny parte già adulto, nel senso di scettico e disincantato, e il resto è solo un processo di conferma.


Assai più candido è il suo compagno Ettore che, nell'interpretazione di Fabrizio Gifuni (l'attore preferito di Gianluca Maria Tavarelli), mostra quel calore e quella riconoscibilità umana che mancano a Johnny, eroe "freddo" perché incapace di lasciarsi toccare dagli altri. Persino la sua passione per la lingua inglese (fredda per definizione) distingue Johnny, nel senso che lo rende distaccato, che lo isola: non a caso una delle scene più riuscite è quella in cui Johnny marcia nella neve e di sottofondo parte "Over the rainbow" cantata da Judy Garland - l'America, Hollywood, il mago di Oz, evocati in contrasto alla realtà desolata (ma non priva di una sua poesia minimalista) delle Langhe in guerra. Al contrario, per tutto il resto della proiezione siamo ammorbati da una terribile musica di violino (detta anche "sviolinata") che nulla ha a che vedere col tono asciutto del film, anzi, sembra quasi metterlo in ridicolo.

Rimane la domanda dell'inizio: è possibile servirsi della Resistenza per trattarla alla stregua di una metafora (esaspero volutamente i toni della questione)? Forse no, o meglio, non ancora. Durante la proiezione per la stampa, alla Mostra del cinema di Venezia, qualcuno ha gridato "Vergogna!", e un altro ha commentato "Se bisogna parlare così della Resistenza, meglio non parlarne affatto". Erano voci non più giovani, di gente che la Resistenza forse l'aveva vista da vicino.

Chiesa racconta efficacemente lo smarrimento, il degrado, la fatica, la sporcizia - un Salvate il soldato Ryan nostrano, e quindi infinitamente meno glamour. Ma non sa andare fino in fondo nel costruire la sua parabola, limitandosi a disseminare il film di citazioni fenogliane e mezze frasi che sollevano interi temi di discussione e meriterebbero ben altro approfondimento: la questione della giustizia sommaria dispensata con arbitrio divino da un "esercito di dilettanti" e il fascino del potere di vita e di morte su chi si trova improvvisamente a esercitarlo, soprattutto se giovane; l'inutilità della guerra, soprattutto quella fratricida; il fanatismo delle ideologie.

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