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Venezia è sempre Venezia



Paola Casella


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Che Venezia sia sempre Venezia, lo ripete anche una celebre critica come Irene Bignardi de la Repubblica (vedi articoli collegati), che frequenta da anni la Mostra del Cinema ma ancora non si è stancata di partecipare alla kermesse più quotata d'Italia (e la seconda più quotata d'Europa, dopo Cannes). Sono d'accordo con lei: per quanto ci si senta veterani (personalmente sono alla quinta frequentazione), per quanto si assuma un atteggiamento disincantato, quando si arriva al Lido dopo aver attraversato la laguna (in vaporetto, taxi, miniyacht, a seconda del prestigio e del portafoglio), dopo aver superato gli ombrelloni di paglia e le cabine alla Morte a Venezia del Des Baines, di fronte alla passerella del Casinò, al kitch dell'Hotel Excelsior, ai manifesti pubblicitari dei film, si prova un momento di genuina emozione.

Per gli addetti ai lavori - cineasti, organizzatori, giornalisti - ma soprattutto per gli studenti di cinema e per gli spettatori che il cinema lo amano e basta, il Lido si trasforma ogni fine estate in una specie di Disneyland che, come Brigadoon, compare solo per una manciata di giorni nella cornice di per sé più fantasmagorica del mondo, con le sue nebbie e le sue scenografie permanenti, a metà fra il fondale teatrale e le architetture impossibili di Escher.


Il popolo che frequenta la mostra si divide in categorie ben definite, distinguibili anche fra la folla delle calli veneziane (i molti che non riescono a trovare alloggio al Lido durante il Festival sono costretti a fare ogni giorno i pendolari): ci sono i giornalisti affermati - assorti, concentrati sui numerosi appuntamenti quotidiani, ben attenti a non farsi avvicinare da questuanti di ogni tipo - e i giornalisti in carriera - ossessivi, insistenti, perennemente appiccicati agli addetti stampa. Ci sono gli inviati (spesso "interamente a loro spese") delle riviste specializzate - burberi, malconci, ostentatamente snob. I cronisti delle riviste Web sono quasi tutti giovanissimi, molti alla loro prima presenza al Lido, e il loro accredito stampa, identificato con un generico "media", li rende una categoria a parte, o una nuova razza della quale non si conosce la capacità di sopravvivenza sul pianeta occupazione.

Poi ci sono i cosiddetti rappresentanti della "industry", cioè i professionisti del settore cinematografico, che passano dalla frenesia totale all'abulia più assoluta, a seconda se siano o meno coinvolti nella proiezione-conferenza-evento del momento, e le PR che in questa occasione assaporano tutto il gusto del potere (e qui si vede la differenza fra monarchie illuminate e tirannie). Poi gli accademici, professori dall'aria annoiata o entusiastici paladini della settima arte, e dunque gli studenti di cinema, immediatamente riconoscibili perché di un film appena visto discutono l'inquadratura, delimitando lo spazio con le mani, alla Steven Spielberg. Infine gli amanti del cinema di ogni provenienza, spesso giovani universitari, ma anche matrone ingioiellate o trentenni con il pizzo e un lavoro poco creativo che solo nel buio di una sala cinematografica, preferibilmente d'essai, osano immaginarsi un'esistenza parallela.

I partecipanti arrivano da tutto il mondo, come se seguissero il richiamo di un invisibile pifferaio magico, ed è emozionante, mentre si sta in coda (alla Mostra si sta in coda per tutto), ascoltare toni di elettrizzata aspettativa per l'ultimo Woody Allen o il nuovo Altman in tutte le lingue del globo. Ancora più emozionante è assistere, nell'arco della stessa giornata, alla proiezioni di film cinesi, russi, nordamericani, sudamericani, francesi, turchi, indiani, slavi.

Come per miracolo, le Langhe anni Quaranta di Fenoglio coesistono nella stessa dimensione spaziotemporale con la provincia cinese anni Ottanta di Platform, quella contemporanea francese di Chabrol e quella inglese anni Trenta di Frears. Un gruppo di donne iraniane (Il cerchio) combatte per la propria dignità mentre un immigrato tunisino cerca un futuro sotto la metropolitana di Parigi (La faute a Voltàire, vedi articoli collegati), Harrison Ford si imbatte nei fantasmi della sua crisi coniugale e O fantasma sconvolge pubblico e critica, a metà fra la risata e l'orrore.


Dopo le prime giornate di proiezioni a catena (e il gioco, a Venezia, è quello di collezionarne un numero sempre crescente, a costo di smettere di mangiare e dormire) le singole trame si amalgamano fino a formare una marmellata sensoriale che ha un gusto variegato con alcune note dominanti, più o meno le stesse che influenzeranno il voto finale della giuria: quest'anno erano la commozione di Before Night Falls, il film di Julian Schnabel su un esule cubano, il raccapriccio per l'odissea odontoiatrica di Denti di Gabriele Salvatores, la complicità nei confronti dell'autore di Platform, interminabile film cinese (più di tre ore di piani sequenza, immaginatevi la goduria degli studenti di cinema), che pure ha portato gli spettatori alla scoperta della Cina pre-Tienanmen, il senso di colpa di fronte allo sciovinismo di un'intera nazione, tollerato dal resto del mondo, e rappresentato con quieta obbiettività nel Cerchio, la delusione per l'invecchiato (cinematograficamente parlando) Altman, la meraviglia davanti al (cinematograficamente) inossidabile Manoel de Oliveira.

Le polemiche, quest'anno, sono state poche: persino la scelta, da parte di Guido Chiesa, di non dare troppo spazio alle divisioni politiche all'interno della Resistenza ne Il partigiano Johnny (vedi articoli collegati) è stata più estetica che etica, e in ogni caso il pubblico della Mostra (al contrario della stampa, vedi il velenoso Giornale) non cercava la rissa. Lo standard di qualità dei film, soprattutto quelli in concorso, non è stato altissimo, ma la varietà si è rivelata notevole, uno smorgasbord sufficiente a stuzzicare l'appetito, quando non a soddisfarlo. Nessun sapore ha prevalso sugli altri, e questo ha reso il pasto più gradevole, anche se le singole portate sono risultate poco memorabili.

Il cinema italiano ha fatto un figura dignitosa: i film in concorso sono apparsi più artigianali che ispirati, segno comunque che un cantiere (se non ancora un'industria vera e propria) si è finalmente rimesso in funzione. Il cinema americano ha dimostrato di sapersi muovere agilmente su piani paralleli - da un lato le megaproduzioni hollywoodiane come Space Cowboys, The Cell e U-571, dall'altro film più intellettualmente (ed esteticamente) stimolanti come il già citato Before Night Falls o Memento, a dire il vero un esperanto cinematografico, essendo il regista inglese (Christopher Nolan), il protagonista australiano (Guy Pearce) e la primadonna americana (Carrie-Ann Moss, reduce da Matrix). L'Estremo Oriente è stato presentissimo (dieci film in tutto); Francia e Inghilterra ci hanno risparmiato il consueto patriottismo festivaliero; Spagna e Germania hanno fatto capolino (fuori concorso) con Fernando Trueba e a Tom Tykwer.

Poche le superstar, dopo l'esordio Sharon Stone-Clint Eastwood: alcune defezioni sapevano di strategico (Johnny Depp, presente in due film con tre ruoli, ha forse ritenuto di "esserci" già troppo), altre di capriccio (Claudia Schiffer), altre di perfezionismo maniacale (Martin Scorsese, che ancora non ha messo la parola fine al suo documentario sul cinema italiano). Ma anche questo va bene: la 57esima edizione della Mostra, alle passerelle dei divi, ha preferito performance estemporanee come quella di Schnabel in pareo che bacia il protagonista del suo film, Javier Bardem, in linea con il messaggio di tolleranza (soprattutto verso gli omosessuali) di Before Night Falls (poi farà il giro del mondo la notizia della stretta di mano fra Bill Clinton e Fidel Castro); e se la rockstar Bon Jovi, uno dei protagonisti di U-571, è apparsa spaesata e fuori luogo in questo festival così poco glamour, il suo collega Bill Paxton, caratterista di mestiere, improvvisava brillantemente in conferenza stampa segnalando una difficoltà di traduzione simultanea con la citazione (da uno dei suoi precedenti film, Apollo 13): "Houston, abbiamo un problema".

Proprio da una Mostra così, più per addetti ai lavori che per cacciatori di autografi, emerge la passione vera per il cinema. Gli organizzatori hanno lavorato con concretezza e attenzione, i partecipanti hanno affrontato code interminabili, acquazzoni e disguidi con notevole aplomb. E anche dietro le espressioni più studiatamente blasèe è apparso ogni tanto quel guizzo di interesse, simile allo sguardo attizzato del giocatore d'azzardo (eravamo al Casinò, dopotutto), davanti alla gemma appena scoperta, alla scena da inserire nell'antologia universale del cinema (e nel proprio immaginario personale).

Ma il Festival, perché così lo chiamano loro, appartiene ai cinefili non professionisti, quelli che si entusiasmano (o si disgustano) senza ritegno, quelli che ingollano un panino in coda pur di non perdersi un cortometraggio estone, quelli che assistono sotto la minaccia della pioggia a un dibattito morettiano sull'Impegno nel cinema. Il cinema oscuro e innovativo, quello che senza aiuti e lanci promozionali riesce a raccontarci le sue storie dagli angoli più sperduti del pianeta (o dalle coscienze più sommerse), ha bisogno di un pubblico curioso, attento, appassionato, e quel pubblico a Venezia non è mancato.

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