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Il meglio dei "fuori concorso"



Leonardo Gandini


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Sarà perché, alla vigilia delle Olimpiadi, l’agonismo è di moda, fatto sta che, in questa edizione della Mostra del cinema di Venezia, la sezione dei film in concorso ha attirato quasi tutte le attenzioni degli addetti ai lavori, con l’immancabile corollario di voci sui favoriti per i premi, sui film che la giuria potrebbe aver apprezzato o detestato.


In realtà, fuori concorso c’è stato un discreto numero di film belli e interessanti, che tra l’altro rappresentano, per i cinefili, la vera ragion d’essere del festival. Prendiamo ad esempio Thomas est amoreux, del belga Pierre Paul Renders, che racconta la storia di un ragazzo agorafobico, chiuso in casa da quasi un anno, con l'unico vincolo con l’esterno tramite un computer, davanti al quale passa tutte le proprie giornate. Non sapremo mai quale sia il volto di Thomas, poiché le immagini fino alla fine coincideranno sempre e soltanto con lo schermo del suo monitor. Ma questo limite diventa la forza del film, visto che grazie al computer Thomas comunica con tutto un mondo, curioso ed eterogeneo, popolato da cyberprostitute, ragazze sole, grigi burocrati, psicologi che provano a guarirlo dalle sue fobie. I film di Renders parla più di solitudine che di informatica, descrivendo le varie strategie adottate dalla gente per comunicare col prossimo, per rompere una barriera interiore che risulta ben più solida di quella rappresentata dallo schermo di un monitor.

Nello svedese Tilsammans, ambientato durante gli anni Settanta, l’antidoto alla solitudine consiste invece in una comune, regolata secondo gli schemi, le utopie e le idiosincrasie (niente carne, niente tv, niente Coca-Cola) dell’epoca. Ben presto gli affari di cuore, il gioco delle passioni e delle gelosie incrociate che fa a pugni con i precetti dell’amore libero, scompaginano la vita del gruppo. Alla fine però, dopo infiniti chiarimenti e confessioni, la comune uscirà dai problemi più forte e matura di prima, e persino con qualche membro in più, reclutato tra i vicini di casa, borghesi infine sedotti dagli ideali della vita collettiva. Già autore di un film uscito sui nostri schermi, Fucking Amal, il giovane Lukas Moodysson orchestra i ritmi della commedia con grande abilità, disegnando un divertente e divertito ritratto delle contraddizioni di un periodo nel quale era tutt’altro che facile conciliare ideologia e quotidianità.

Ambientato ai giorni nostri è invece Moskva, splendida opera prima del russo Alexander Zeldovic. Invece di essere, come tanti film russi contemporanei, incentrato sul proletariato e le sue difficoltà economiche, Moskva ha per protagonisti i nuovi ricchi, uomini che hanno fatto i soldi con la borsa nera, circondati da prostitute d’alto bordo e loschi affaristi. Si respirano, nel film di Zeldovic, atmosfere cechoviane: discorsi fasulli che trasudano noia, fallimenti personali che i soldi non bastano a guarire, ambizioni lasciate per strada, il sesso, la vodka e i ricordi di gioventù come riempitivi di giornate che non passano mai. Il tutto calato in ambienti raffinati ed eleganti, sofisticato scenario di uno sfacelo morale assoluto, che nell’epilogo finirà per diventare insostenibile. Quello di Zeldovic è un affresco di straordinaria intensità sulla disperata agonia della Russia odierna, sopraffatta da uno stato di prostrazione morale che non dà scampo nemmeno a coloro che, di malaffare in malaffare, si sono infine sottratti alle urgenze della miseria.

Di soldi si parla anche in Prime Gig, film d’esordio dell’americano Gregory Mosher. Il protagonista è un ragazzo che si guadagna da vivere rifilando per telefono viaggi inesistenti a gente incauta e credulona. Quando l’impresa fallisce, viene reclutato da un truffatore di alta classe, che lo coinvolge in un imbroglio più complesso ma meglio remunerato. Pieno di soldi, capace addirittura di soffiare la donna al capo, egli solo alla fine scoprirà di essere stato a sua volta raggirato, ridotto a mero ingranaggio di un gioco che credeva di gestire. Interpretato da attori di buona scuola - Ed Harris, Julia Ormond e, nella parte del protagonista, Vince Vaughn, l’assassino psicopatico nel recente remake di Psycho - Prime Gig è un film abbastanza prevedibile negli esiti, ma che riesce ugualmente a raccontare le angosce di una società asservita al dio denaro, nonché a tutti i simboli del benessere che sono ad esso legati.


Ma intorno alla sezione competitiva non ruotano solo autori emergenti e giovani registi: fuori concorso vengono proposti anche film realizzati da cineasti di grande fama e prestigio, che proprio per questo preferiscono sottrarsi all’azzardo della gara per i Leoni. E’ il caso ad esempio di Takeshi Kitano, già vincitore a Venezia due anni fa, che ha presentato il suo ultimo film, Brother. Il cineasta giapponese torna nuovamente al genere prediletto, il gangster movie, ambientato questa volta negli Stati Uniti, terra di esilio per un membro della yakuza la cui famiglia è uscita sconfitta da una guerra fra bande. Nel raccontare la rapida ascesa del gangster (da lui stesso interpretato), che rapidamente trasforma un gruppo di tre sbandati in un’impresa malavitosa di prim’ordine, Kitano riprende i ritmi lenti e i toni ironici che gli sono congeniali, lavorando come al solito sull’estrema stilizzazione della violenza, e sulla natura grottesca e quasi infantile dei killer, che tra una sparatoria e un’esecuzione si divertono con giochetti da bambini. Come sempre nel suo cinema, brutalità e ironia si susseguono e si sovrappongono senza soluzione di continuità, in una miscela che fa di Brother un film unico, assolutamente originale, pur nella sua appartenenza a un genere recentemente molto frequentato, soprattutto in ambito hollywoodiano.

Fuori concorso è anche uno dei migliori film visti a Venezia, Merci pour le chocolat di Claude Chabrol, nel quale il regista francese scava, come spesso gli accade, dentro ai vizi e alle zone d'ombra della borghesia. Questa volta l'obiettivo è puntato su un delitto (una ricca industriale ha ucciso un'amica, moglie di un celebre pianista, e ne ha preso il posto accanto al musicista), e su una serie di verità nascoste che a poco a poco affiorano alla superficie. Quasi un soggetto hitchcockiano, insomma, che però viene qui prosciugato d'ogni intensità drammatica e componente spettacolare, per tramutarsi in un gelido apologo sull' imperturbabilità del male, sbriciolato dentro ai meccanismi di inappuntabile cortesia delle classi più agiate, quasi neutralizzato dalla buona educazione, dall'abitudine a trattenere sentimenti e passioni, a basare l'esistenza su menzogne invisibili e calcolate. Un film di gran classe, che Chabrol gira con stile algido, e il distacco di chi traccia un inesorabile teorema sugli abissi che si nascondono dietro l'ipocrisia borghese, appena al di là delle buone maniere.

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