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Sarà perché, alla vigilia delle Olimpiadi, l’agonismo è di moda,
fatto sta che, in questa edizione della Mostra del cinema di Venezia,
la sezione dei film in concorso ha attirato quasi tutte le attenzioni
degli addetti ai lavori, con l’immancabile corollario di voci sui
favoriti per i premi, sui film che la giuria potrebbe aver apprezzato
o detestato.
In realtà, fuori concorso c’è stato un discreto numero di film
belli e interessanti, che tra l’altro rappresentano, per i cinefili,
la vera ragion d’essere del festival. Prendiamo ad esempio Thomas
est amoreux, del belga Pierre Paul Renders, che racconta la storia
di un ragazzo agorafobico, chiuso in casa da quasi un anno, con
l'unico vincolo con l’esterno tramite un computer, davanti al quale
passa tutte le proprie giornate. Non sapremo mai quale sia il volto di
Thomas, poiché le immagini fino alla fine coincideranno sempre e
soltanto con lo schermo del suo monitor. Ma questo limite diventa la
forza del film, visto che grazie al computer Thomas comunica con tutto
un mondo, curioso ed eterogeneo, popolato da cyberprostitute, ragazze
sole, grigi burocrati, psicologi che provano a guarirlo dalle sue
fobie. I film di Renders parla più di solitudine che di informatica,
descrivendo le varie strategie adottate dalla gente per comunicare col
prossimo, per rompere una barriera interiore che risulta ben più
solida di quella rappresentata dallo schermo di un monitor.
Nello svedese Tilsammans, ambientato durante gli anni Settanta,
l’antidoto alla solitudine consiste invece in una comune, regolata
secondo gli schemi, le utopie e le idiosincrasie (niente carne, niente
tv, niente Coca-Cola) dell’epoca. Ben presto gli affari di cuore, il
gioco delle passioni e delle gelosie incrociate che fa a pugni con i
precetti dell’amore libero, scompaginano la vita del gruppo. Alla
fine però, dopo infiniti chiarimenti e confessioni, la comune uscirà
dai problemi più forte e matura di prima, e persino con qualche
membro in più, reclutato tra i vicini di casa, borghesi infine
sedotti dagli ideali della vita collettiva. Già autore di un film
uscito sui nostri schermi, Fucking Amal, il giovane Lukas
Moodysson orchestra i ritmi della commedia con grande abilità,
disegnando un divertente e divertito ritratto delle contraddizioni di
un periodo nel quale era tutt’altro che facile conciliare ideologia
e quotidianità.
Ambientato ai giorni nostri è invece Moskva, splendida opera
prima del russo Alexander Zeldovic. Invece di essere, come tanti film
russi contemporanei, incentrato sul proletariato e le sue difficoltà
economiche, Moskva ha per protagonisti i nuovi ricchi, uomini
che hanno fatto i soldi con la borsa nera, circondati da prostitute d’alto
bordo e loschi affaristi. Si respirano, nel film di Zeldovic,
atmosfere cechoviane: discorsi fasulli che trasudano noia, fallimenti
personali che i soldi non bastano a guarire, ambizioni lasciate per
strada, il sesso, la vodka e i ricordi di gioventù come riempitivi di
giornate che non passano mai. Il tutto calato in ambienti raffinati ed
eleganti, sofisticato scenario di uno sfacelo morale assoluto, che
nell’epilogo finirà per diventare insostenibile. Quello di Zeldovic
è un affresco di straordinaria intensità sulla disperata agonia
della Russia odierna, sopraffatta da uno stato di prostrazione morale
che non dà scampo nemmeno a coloro che, di malaffare in malaffare, si
sono infine sottratti alle urgenze della miseria.
Di soldi si parla anche in Prime Gig, film d’esordio dell’americano
Gregory Mosher. Il protagonista è un ragazzo che si guadagna da
vivere rifilando per telefono viaggi inesistenti a gente incauta e
credulona. Quando l’impresa fallisce, viene reclutato da un
truffatore di alta classe, che lo coinvolge in un imbroglio più
complesso ma meglio remunerato. Pieno di soldi, capace addirittura di
soffiare la donna al capo, egli solo alla fine scoprirà di essere
stato a sua volta raggirato, ridotto a mero ingranaggio di un gioco
che credeva di gestire. Interpretato da attori di buona scuola - Ed
Harris, Julia Ormond e, nella parte del protagonista, Vince Vaughn, l’assassino
psicopatico nel recente remake di Psycho - Prime Gig è un film
abbastanza prevedibile negli esiti, ma che riesce ugualmente a
raccontare le angosce di una società asservita al dio denaro, nonché
a tutti i simboli del benessere che sono ad esso legati.
Ma intorno alla sezione competitiva non ruotano solo autori emergenti
e giovani registi: fuori concorso vengono proposti anche film
realizzati da cineasti di grande fama e prestigio, che proprio per
questo preferiscono sottrarsi all’azzardo della gara per i Leoni. E’
il caso ad esempio di Takeshi Kitano, già vincitore a Venezia due
anni fa, che ha presentato il suo ultimo film, Brother. Il
cineasta giapponese torna nuovamente al genere prediletto, il gangster
movie, ambientato questa volta negli Stati Uniti, terra di esilio per
un membro della yakuza la cui famiglia è uscita sconfitta da una
guerra fra bande. Nel raccontare la rapida ascesa del gangster (da lui
stesso interpretato), che rapidamente trasforma un gruppo di tre
sbandati in un’impresa malavitosa di prim’ordine, Kitano riprende
i ritmi lenti e i toni ironici che gli sono congeniali, lavorando come
al solito sull’estrema stilizzazione della violenza, e sulla natura
grottesca e quasi infantile dei killer, che tra una sparatoria e un’esecuzione
si divertono con giochetti da bambini. Come sempre nel suo cinema,
brutalità e ironia si susseguono e si sovrappongono senza soluzione
di continuità, in una miscela che fa di Brother un film unico,
assolutamente originale, pur nella sua appartenenza a un genere
recentemente molto frequentato, soprattutto in ambito hollywoodiano.
Fuori concorso è anche uno dei migliori film visti a Venezia, Merci
pour le chocolat di Claude Chabrol, nel quale il regista francese
scava, come spesso gli accade, dentro ai vizi e alle zone d'ombra
della borghesia. Questa volta l'obiettivo è puntato su un delitto
(una ricca industriale ha ucciso un'amica, moglie di un celebre
pianista, e ne ha preso il posto accanto al musicista), e su una serie
di verità nascoste che a poco a poco affiorano alla superficie. Quasi
un soggetto hitchcockiano, insomma, che però viene qui prosciugato
d'ogni intensità drammatica e componente spettacolare, per tramutarsi
in un gelido apologo sull' imperturbabilità del male, sbriciolato
dentro ai meccanismi di inappuntabile cortesia delle classi più
agiate, quasi neutralizzato dalla buona educazione, dall'abitudine a
trattenere sentimenti e passioni, a basare l'esistenza su menzogne
invisibili e calcolate. Un film di gran classe, che Chabrol gira con
stile algido, e il distacco di chi traccia un inesorabile teorema
sugli abissi che si nascondono dietro l'ipocrisia borghese, appena al
di là delle buone maniere.
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