Budda disse: Chi non si accorge del
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Questo articolo è apparso sul numero 60 di Reset, attualmente in edicola e in libreria
I discepoli si recarono dal Gotamo Budda: "Maestro, cè una casa che brucia.
Gli abitanti si rifiutano però di fuggire e di mettersi in salvo. Cè chi accampa
come motivo il brutto tempo che fa fuori; chi invece teme di non riuscire a portare con
sé le cose preziose che ha ammassato. Che cosa dobbiamo fare?". Rispose il Budda:
"Chi non si accorge del pericolo, merita di morire".
Non credo che Iginio Ariemma avesse in mente questo apologo - raccontato da Bertolt Brecht
nei Dialoghi dei Profughi, se ricordo bene - quando scelse come titolo della sua
storia del Pci-Pds-Ds dal 1989 ad oggi: La casa brucia: i democratici di sinistra dal Pci
ai giorni nostri" (Marsilio). La storia che Ariemma racconta è quella
delluscita dalla vecchia casa, dopotutto: unuscita lenta, fortunosa,
riluttante, perché la sensazione che fuori il tempo fosse brutto e che molte cose
preziose si sarebbero perdute era fortissima in tutti gli abitanti. Ma il grosso riuscì a
mettersi in salvo e costruire, accanto alla vecchia casa semidistrutta (e presto
ripopolata dai più nostalgici), una casetta più piccola ma più adatta al mutamento di
clima. Il libro di Ariemma è un racconto documentato, intelligente, onesto di queste
vicende; un racconto distaccato e imparziale quanto lo consentono, per chi vi ha
partecipato appassionatamente, vicende di questa natura. Un libro nel quale mi sono
riconosciuto, anche se la mia è una storia diversa da quella di Ariemma: non quella di
uno degli abitanti della vecchia casa, ma di chi, venendo da unaltra esperienza, ha
partecipato alla costruzione della nuova.
Nella seconda parte degli anni 80, persa ogni speranza che il partito socialista
potesse diventare il promotore di un processo di unificazione della sinistra italiana,
convinto che la crisi del comunismo fosse ineluttabile (anche se non così improvvisa e
traumatica come di fatto fu), con pochi amici della sinistra diffusa scrutavo con
impazienza i sintomi di disgelo nel grande iceberg del Pci, dopo linevitabile
fallimento del compromesso storico e linfelice reazione che ad esso fece seguito: il
diciottesimo congresso, la nuova dirigenza occhettiana, li vedevamo in questa luce e
qualche motivo di speranza sembrava fondato. Nellestate dell89, pochi
mesi prima del crollo del Muro, Salvatore Veca ed io scrivemmo per Rinascita un saggio dal
titolo significativo: Se non ora, quando?: in esso, persuasi che il nome fosse gran
parte della cosa, suggerivamo una radicale trasformazione ideologica e programmatica del
partito e un nuovo nome, Partito democratico di sinistra, quasi uguale a quello adottato
nel congresso di Rimini più di un anno e mezzo dopo, a seguito del dibattito lacerante e
appassionante sulla "Cosa". Subito dopo, dopo la Bolognina, per me seguì
limpegno nel dibattito sulla Cosa e poi, dopo Rimini, liscrizione al Pds, il
lavoro nello staff di Occhetto e linfelice programma, LItalia verso il 2000,
di cui Ariemma riferisce generosamente.
Ho ricordato questi fatti di scarso interesse generale solo per far capire meglio il punto
di vista da cui mi pongo nella lettura di La casa brucia. Come ho già detto, anche
da questo punto di vista, il libro tiene: esso consente di comprendere perché il disegno
della svolta andò incontro a tante resistenze e il modo in cui le responsabilità sono
distribuite allinterno del gruppo di comando è esemplare per correttezza ed
equilibrio in una materia così calda: in attesa di memorie, meno equilibrate ma più
rivelatrici, dei reali protagonisti, il racconto di Ariemma è quanto di meglio possiamo
avere. I suoi limiti, dal punto di visto che ho appena illustrato, sono quelli che
derivano dalla circoscrizione del tema che lautore si è proposto e dal metodo di
racconto che egli ha seguito. Un metodo che insieme è la forza e la debolezza del libro.
La forza perché il racconto si tiene stretto ai fatti, alle vicende interne al partito e
agli eventi politici esterni cui il partito risponde. La debolezza perché, in questo modo
di raccontare, è difficile affrontare questioni più generali e dunque prendere partito
in modo più deciso su chi aveva ragione e chi aveva torto, su chi si illudeva perché
aveva categorie confuse e poco solide, e su chi non osava ciò che era possibile perché
stava con gli occhi rivolti allindietro.
Insomma, era proprio inevitabile sfociare, oggi, in una coalizione di centro-sinistra
così frammentata, rissosa e soprattutto così debole su quel fianco cruciale che guarda
verso il centro dellelettorato? Era destino che il partito di governo emerso dalla
scissione del vecchio Pci, a più di dieci anni dalla svolta, stenti a raggiungere il 20%
dei consensi? Comè possibile che il grosso di questo partito, certamente non più
comunista, sia talora così ostile alle scelte di un governo che pur sostiene (in misura
maggiore ai tempi di Prodi, ma non poco anche nei confronti di DAlema)? In via
generale: collavvento del bipolarismo non poteva esserci una maggiore capacità
innovativa allinterno dello schieramento di Centro-sinistra? E ha fatto, il partito,
tutto quello che poteva fare per promuoverla? Queste, a mio modo di vedere, sono le
domande che bisogna porsi per andare oltre il racconto ed il commento equilibrato,
episodio per episodio; dunque, per arrivare a un giudizio.
Sono le domande giuste? Credo di sì, se si accettano le premesse di fatto e gli obiettivi
politici che ad esse sono sottesi. Che il contesto istituzionale in cui si deve operare è
quello di una democrazia governante, ed in particolare di una organizzazione bipolare e
inevitabilmente (piaccia o meno) personalizzata del confronto politico. Che il contesto
economico-sociale è quello della globalizzazione e, per il nostro angolo di mondo, della
moneta unica Europea, con i vincoli e le occasioni ad esse collegati. E che gli obiettivi
politici che ne discendono, per la sinistra, sono sostanzialmente due: (a)
lelaborazione e lattuazione di un programma-messaggio moderno e realistico,
condiviso nella coalizione, capace di suscitare il consenso necessario a prevalere in un
confronto bipolare; (b) la costruzione di una élite politica e di governo (vogliamo dire
una classe dirigente?) inevitabilmente pluripartitica per il futuro prevedibile, e però
coesa, stabile, stretta intorno al programma e al primo ministro che lo impersona di
fronte allelettorato. Se si condividono questi obiettivi, allora disponiamo delle
categorie per dare un giudizio: sono da giudicare positivamente le azioni (e i dirigenti
politici) che promuovono gli obiettivi indicati; da giudicare negativamente chi li
contrasta, o chi vi antepone altri obiettivi meno importanti. Anche se le categorie sono
solide e condivise, non si tratta di un giudizio facile, perché la valutazione delle
circostanze di contorno complica notevolmente le cose anche a chi ha ben chiara la
direzione di marcia. Il senno di poi, tuttavia, ci aiuta molto nella valutazione del
passato.
Veniamo al programma. Anche se, inevitabilmente, il programma di governo è un programma
di coalizione ed in particolare un programma del primo ministro, un problema di
programma-identità si pone con forza per tutti i soggetti politici coalizzati. Si poneva
con la massima forza soprattutto per lex-Pci, sia per il suo passato ideologico, sia
per le cattive abitudini contratte nella sua storia di opposizione forzata. Dire che si è
tardato troppo le fare i conti con un passato ingombrante è dire un eufemismo: si è
dovuti arrivare al Lingotto per sentire parole definitive sul comunismo; e neppure al
Lingotto ci si è confrontati con chiarezza sulle alternative che si pongono per un
partito di "sinistra di governo" in questa fase storica (i modelli
socialdemocratici sono così diversi che riferirsi alla socialdemocrazia in generale non
aiuta molto). Se il partito devessere, come tanti rimpiangono, quel grande educatore
collettivo che è stato in passato, si può tranquillamente dire che è del tutto mancato
un impegno coerente di
rieducazione. Personalmente non credo che il partito possa
tornare ad avere quella funzione, o averla nella stessa misura del passato. Ritengo però
che un grado elevato di condivisione ideologica, in quel che rimane del partito, per le
scelte che i suoi dirigenti devono fare in quanto uomini/donne di governo (specie se il
partito esprime il primo ministro) continua ad essere importantissimo, sia per il partito,
sia per il governo.
Si poteva fare di più, di meglio e soprattutto prima di quanto (quando) si è fatto? Ho
constatato di persona le difficoltà di una ..campagna di rieducazione, specie nella
delicatissima fase dei primi anni 90, sino alla segreteria di DAlema. Ma
DAlema disponeva di risorse assai superiori a quelle di Occhetto, le idee le aveva
ben chiare (chi non ricorda lo scontro con Cofferati al Congresso del febbraio 1997 ?),
Prodi e Veltroni remavano allora nella stessa sua direzione e la sua segreteria è durata
quanto bastava: perché il segretario del partito non si è impegnato di più in un
compito la cui importanza può misurare pienamente ora, come capo del governo? Sarà pur
vero che ogni primo ministro si costruisce un proprio "partito del premier", ma
non è un piccolo vantaggio avere alle spalle un partito che, almeno nella sua
maggioranza, condivide fino in fondo le scelte del governo.
Programma e forme politiche, idee e persone, contenuti e contenitori, possono essere
distinti solo per facilitare lanalisi, perché nella realtà essi sono strettamente
intrecciati. Nel partito il problema dei "contenitori" si è posto soprattutto
attraverso il conflitto tra ulivisti e partitisti, tra i sostenitori di legami sempre più
forti tra i partiti della coalizione, sino a fare di questa il reale soggetto politico del
bipolarismo, e i sostenitori della priorità e dellautonomia dei partiti, con la
prospettiva di fare del Pds (poi Ds) lesponente italiano della socialdemocrazia
europea. La storia di questo conflitto è una storia di tensioni personali, di
incomprensioni e di errori di entrambe le parti. Credo che gli errori più gravidi di
conseguenze siano stati quelli commessi dai partitisti, quantomeno se siamo daccordo
che il futuro prevedibile (e desiderabile) del nostro sistema politico sia quello di una
democrazia dellalternanza. Per evitare accuse di partigianeria, e perché ciò è
sufficiente ad illustrare in qual modo gli obiettivi indicati prima operino come criteri
di giudizio su fatti e persone, mi limito ad unautocritica, ad indicare due gravi
errori commessi dagli ulivisti: un errore di insufficiente realismo ed uno di
insensibilità programmatica.
Il primo è evidente: tra la nobile esigenza di fondere le tradizioni riformistiche del
paese e la prosaica necessità di tenere insieme i partiti e i ceti politici che ne erano
portatori, gli ulivisti non sono riusciti ad identificare un obiettivo intermedio,
importante e realistico: quel processo di lenta costruzione di un ceto politico
riformistico, pluripartico ma coeso intorno ad un programma e ad un leader, stabilmente
impegnato nel polo di sinistra, che era il massimo obbiettivo raggiungibile nelle
circostanze date. Perché poi -e vengo al secondo errore- alla dichiarata esigenza di
fondere le tradizioni riformistiche non corrispondeva di fatto alcun lavoro serio sui
contenuti programmatici, né su quelli del Pds-Ds e della tradizione socialista in
generale, né, a maggior ragione, su quelli della coalizione di governo. Se veramente si
voleva la fusione (o "contaminazione", come si diceva, era un lavoro necessario
e non facile. Anzitutto si doveva cominciare a casa propria, sul programma del proprio
partito, e qui gli ulivisti presentavano al proprio interno la stessa varietà e
confusione di posizioni programmatiche del partito nel suo insieme, né manifestavano una
particolare urgenza di chiarimento. E poi perché le diverse tradizioni riformistiche
presentano, nel nostro paese, non pochi aspetti di contrasto in tema di politiche
economico-sociali, di politiche della famiglia e della scuola, di politiche istituzionali,
di politiche della giustizia e dellordine pubblico, di politica estera, aspetti che
sono regolarmente emersi come conflitti aperti tra partiti della maggioranza durante
lesperienza di questi quattro anni di governo. Scarsamente realisti e unicamente
preoccupati di problemi "politichesi", di contenitori, di leggi elettorali e di
modifiche istituzionali, così gli ulivisti sono stati rappresentati e criticati: questo
giudizio è complessivamente ingeneroso, ma coglie un aspetto importante della realtà.
Raccontare una storia alla luce di obiettivi desiderabili, di ciò che poteva essere e non
è stato, e di conseguenza dare giudizi forti, non è per niente facile: innanzitutto
perché, anche se gli obiettivi e i vincoli che ho indicato più sopra mi sembrano
ampiamente condivisi, certamente non lo sono da tutti; e poi, e soprattutto, perché è
assai difficile dare valutazioni controfattuali, su ciò che poteva essere e non è stato,
e sulle conseguenze finali di un diverso andamento storico. Anche se DAlema avesse
seriamente promosso un programma di
rieducazione del partito; se veramente si fosse
comportato come il primo degli ulivisti, come ama dire; se avesse tentato di sostenere
Prodi con tutte le sue forze e, in caso di fallimento, fosse riuscito a convincere gli
alleati e il Presidente della Repubblica a indire elezioni anticipate, e questi
"se" sono moltiplicabili a piacere, chi può dire se oggi saremmo in una
condizione migliore di quella in cui siamo? Io ne sono "soggettivamente"
convinto, ma mi riuscirebbe difficile convincere molti altri. Per cui ringrazio Ariemma
del suo racconto -che i "se" li fa sorgere, ma non è costruito su di essi- e
solo mi dispiace (al di là di singoli giudizi che non condivido) che egli non abbia
potuto-voluto dedicare alle vicende degli ultimi anni la stessa ampiezza di racconto e di
analisi che ha dedicato ai primi: tra l89 e il 94 passano cinque anni e 164 pagine
di testo, ricchissime di flash-back; tra il 94 e il 99 ne passano altrettanti, e non meno
densi e problematici, ma le pagine sono meno di 40. Ovviamente è questultima la
parte più debole del libro.
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