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Budda disse: “Chi non si accorge del pericolo merita di morire”

Michele Salvati



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Questo articolo è apparso sul numero 60 di Reset, attualmente in edicola e in libreria

I discepoli si recarono dal Gotamo Budda: "Maestro, c’è una casa che brucia. Gli abitanti si rifiutano però di fuggire e di mettersi in salvo. C’è chi accampa come motivo il brutto tempo che fa fuori; chi invece teme di non riuscire a portare con sé le cose preziose che ha ammassato. Che cosa dobbiamo fare?". Rispose il Budda: "Chi non si accorge del pericolo, merita di morire".

Non credo che Iginio Ariemma avesse in mente questo apologo - raccontato da Bertolt Brecht nei Dialoghi dei Profughi, se ricordo bene - quando scelse come titolo della sua storia del Pci-Pds-Ds dal 1989 ad oggi: La casa brucia: i democratici di sinistra dal Pci ai giorni nostri" (Marsilio). La storia che Ariemma racconta è quella dell’uscita dalla vecchia casa, dopotutto: un’uscita lenta, fortunosa, riluttante, perché la sensazione che fuori il tempo fosse brutto e che molte cose preziose si sarebbero perdute era fortissima in tutti gli abitanti. Ma il grosso riuscì a mettersi in salvo e costruire, accanto alla vecchia casa semidistrutta (e presto ripopolata dai più nostalgici), una casetta più piccola ma più adatta al mutamento di clima. Il libro di Ariemma è un racconto documentato, intelligente, onesto di queste vicende; un racconto distaccato e imparziale quanto lo consentono, per chi vi ha partecipato appassionatamente, vicende di questa natura. Un libro nel quale mi sono riconosciuto, anche se la mia è una storia diversa da quella di Ariemma: non quella di uno degli abitanti della vecchia casa, ma di chi, venendo da un’altra esperienza, ha partecipato alla costruzione della nuova.

Nella seconda parte degli anni ’80, persa ogni speranza che il partito socialista potesse diventare il promotore di un processo di unificazione della sinistra italiana, convinto che la crisi del comunismo fosse ineluttabile (anche se non così improvvisa e traumatica come di fatto fu), con pochi amici della sinistra diffusa scrutavo con impazienza i sintomi di disgelo nel grande iceberg del Pci, dopo l’inevitabile fallimento del compromesso storico e l’infelice reazione che ad esso fece seguito: il diciottesimo congresso, la nuova dirigenza occhettiana, li vedevamo in questa luce e qualche motivo di speranza sembrava fondato. Nell’estate dell’’89, pochi mesi prima del crollo del Muro, Salvatore Veca ed io scrivemmo per Rinascita un saggio dal titolo significativo: Se non ora, quando?: in esso, persuasi che il nome fosse gran parte della cosa, suggerivamo una radicale trasformazione ideologica e programmatica del partito e un nuovo nome, Partito democratico di sinistra, quasi uguale a quello adottato nel congresso di Rimini più di un anno e mezzo dopo, a seguito del dibattito lacerante e appassionante sulla "Cosa". Subito dopo, dopo la Bolognina, per me seguì l’impegno nel dibattito sulla Cosa e poi, dopo Rimini, l’iscrizione al Pds, il lavoro nello staff di Occhetto e l’infelice programma, L’Italia verso il 2000, di cui Ariemma riferisce generosamente.

Ho ricordato questi fatti di scarso interesse generale solo per far capire meglio il punto di vista da cui mi pongo nella lettura di La casa brucia. Come ho già detto, anche da questo punto di vista, il libro tiene: esso consente di comprendere perché il disegno della svolta andò incontro a tante resistenze e il modo in cui le responsabilità sono distribuite all’interno del gruppo di comando è esemplare per correttezza ed equilibrio in una materia così calda: in attesa di memorie, meno equilibrate ma più rivelatrici, dei reali protagonisti, il racconto di Ariemma è quanto di meglio possiamo avere. I suoi limiti, dal punto di visto che ho appena illustrato, sono quelli che derivano dalla circoscrizione del tema che l’autore si è proposto e dal metodo di racconto che egli ha seguito. Un metodo che insieme è la forza e la debolezza del libro. La forza perché il racconto si tiene stretto ai fatti, alle vicende interne al partito e agli eventi politici esterni cui il partito risponde. La debolezza perché, in questo modo di raccontare, è difficile affrontare questioni più generali e dunque prendere partito in modo più deciso su chi aveva ragione e chi aveva torto, su chi si illudeva perché aveva categorie confuse e poco solide, e su chi non osava ciò che era possibile perché stava con gli occhi rivolti all’indietro.

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Insomma, era proprio inevitabile sfociare, oggi, in una coalizione di centro-sinistra così frammentata, rissosa e soprattutto così debole su quel fianco cruciale che guarda verso il centro dell’elettorato? Era destino che il partito di governo emerso dalla scissione del vecchio Pci, a più di dieci anni dalla svolta, stenti a raggiungere il 20% dei consensi? Com’è possibile che il grosso di questo partito, certamente non più comunista, sia talora così ostile alle scelte di un governo che pur sostiene (in misura maggiore ai tempi di Prodi, ma non poco anche nei confronti di D’Alema)? In via generale: coll’avvento del bipolarismo non poteva esserci una maggiore capacità innovativa all’interno dello schieramento di Centro-sinistra? E ha fatto, il partito, tutto quello che poteva fare per promuoverla? Queste, a mio modo di vedere, sono le domande che bisogna porsi per andare oltre il racconto ed il commento equilibrato, episodio per episodio; dunque, per arrivare a un giudizio.

Sono le domande giuste? Credo di sì, se si accettano le premesse di fatto e gli obiettivi politici che ad esse sono sottesi. Che il contesto istituzionale in cui si deve operare è quello di una democrazia governante, ed in particolare di una organizzazione bipolare e inevitabilmente (piaccia o meno) personalizzata del confronto politico. Che il contesto economico-sociale è quello della globalizzazione e, per il nostro angolo di mondo, della moneta unica Europea, con i vincoli e le occasioni ad esse collegati. E che gli obiettivi politici che ne discendono, per la sinistra, sono sostanzialmente due: (a) l’elaborazione e l’attuazione di un programma-messaggio moderno e realistico, condiviso nella coalizione, capace di suscitare il consenso necessario a prevalere in un confronto bipolare; (b) la costruzione di una élite politica e di governo (vogliamo dire una classe dirigente?) inevitabilmente pluripartitica per il futuro prevedibile, e però coesa, stabile, stretta intorno al programma e al primo ministro che lo impersona di fronte all’elettorato. Se si condividono questi obiettivi, allora disponiamo delle categorie per dare un giudizio: sono da giudicare positivamente le azioni (e i dirigenti politici) che promuovono gli obiettivi indicati; da giudicare negativamente chi li contrasta, o chi vi antepone altri obiettivi meno importanti. Anche se le categorie sono solide e condivise, non si tratta di un giudizio facile, perché la valutazione delle circostanze di contorno complica notevolmente le cose anche a chi ha ben chiara la direzione di marcia. Il senno di poi, tuttavia, ci aiuta molto nella valutazione del passato.

Veniamo al programma. Anche se, inevitabilmente, il programma di governo è un programma di coalizione ed in particolare un programma del primo ministro, un problema di programma-identità si pone con forza per tutti i soggetti politici coalizzati. Si poneva con la massima forza soprattutto per l’ex-Pci, sia per il suo passato ideologico, sia per le cattive abitudini contratte nella sua storia di opposizione forzata. Dire che si è tardato troppo le fare i conti con un passato ingombrante è dire un eufemismo: si è dovuti arrivare al Lingotto per sentire parole definitive sul comunismo; e neppure al Lingotto ci si è confrontati con chiarezza sulle alternative che si pongono per un partito di "sinistra di governo" in questa fase storica (i modelli socialdemocratici sono così diversi che riferirsi alla socialdemocrazia in generale non aiuta molto). Se il partito dev’essere, come tanti rimpiangono, quel grande educatore collettivo che è stato in passato, si può tranquillamente dire che è del tutto mancato un impegno coerente di… rieducazione. Personalmente non credo che il partito possa tornare ad avere quella funzione, o averla nella stessa misura del passato. Ritengo però che un grado elevato di condivisione ideologica, in quel che rimane del partito, per le scelte che i suoi dirigenti devono fare in quanto uomini/donne di governo (specie se il partito esprime il primo ministro) continua ad essere importantissimo, sia per il partito, sia per il governo.

Si poteva fare di più, di meglio e soprattutto prima di quanto (quando) si è fatto? Ho constatato di persona le difficoltà di una ..campagna di rieducazione, specie nella delicatissima fase dei primi anni ‘90, sino alla segreteria di D’Alema. Ma D’Alema disponeva di risorse assai superiori a quelle di Occhetto, le idee le aveva ben chiare (chi non ricorda lo scontro con Cofferati al Congresso del febbraio 1997 ?), Prodi e Veltroni remavano allora nella stessa sua direzione e la sua segreteria è durata quanto bastava: perché il segretario del partito non si è impegnato di più in un compito la cui importanza può misurare pienamente ora, come capo del governo? Sarà pur vero che ogni primo ministro si costruisce un proprio "partito del premier", ma non è un piccolo vantaggio avere alle spalle un partito che, almeno nella sua maggioranza, condivide fino in fondo le scelte del governo.

Programma e forme politiche, idee e persone, contenuti e contenitori, possono essere distinti solo per facilitare l’analisi, perché nella realtà essi sono strettamente intrecciati. Nel partito il problema dei "contenitori" si è posto soprattutto attraverso il conflitto tra ulivisti e partitisti, tra i sostenitori di legami sempre più forti tra i partiti della coalizione, sino a fare di questa il reale soggetto politico del bipolarismo, e i sostenitori della priorità e dell’autonomia dei partiti, con la prospettiva di fare del Pds (poi Ds) l’esponente italiano della socialdemocrazia europea. La storia di questo conflitto è una storia di tensioni personali, di incomprensioni e di errori di entrambe le parti. Credo che gli errori più gravidi di conseguenze siano stati quelli commessi dai partitisti, quantomeno se siamo d’accordo che il futuro prevedibile (e desiderabile) del nostro sistema politico sia quello di una democrazia dell’alternanza. Per evitare accuse di partigianeria, e perché ciò è sufficiente ad illustrare in qual modo gli obiettivi indicati prima operino come criteri di giudizio su fatti e persone, mi limito ad un’autocritica, ad indicare due gravi errori commessi dagli ulivisti: un errore di insufficiente realismo ed uno di insensibilità programmatica.

Il primo è evidente: tra la nobile esigenza di fondere le tradizioni riformistiche del paese e la prosaica necessità di tenere insieme i partiti e i ceti politici che ne erano portatori, gli ulivisti non sono riusciti ad identificare un obiettivo intermedio, importante e realistico: quel processo di lenta costruzione di un ceto politico riformistico, pluripartico ma coeso intorno ad un programma e ad un leader, stabilmente impegnato nel polo di sinistra, che era il massimo obbiettivo raggiungibile nelle circostanze date. Perché poi -e vengo al secondo errore- alla dichiarata esigenza di fondere le tradizioni riformistiche non corrispondeva di fatto alcun lavoro serio sui contenuti programmatici, né su quelli del Pds-Ds e della tradizione socialista in generale, né, a maggior ragione, su quelli della coalizione di governo. Se veramente si voleva la fusione (o "contaminazione", come si diceva, era un lavoro necessario e non facile. Anzitutto si doveva cominciare a casa propria, sul programma del proprio partito, e qui gli ulivisti presentavano al proprio interno la stessa varietà e confusione di posizioni programmatiche del partito nel suo insieme, né manifestavano una particolare urgenza di chiarimento. E poi perché le diverse tradizioni riformistiche presentano, nel nostro paese, non pochi aspetti di contrasto in tema di politiche economico-sociali, di politiche della famiglia e della scuola, di politiche istituzionali, di politiche della giustizia e dell’ordine pubblico, di politica estera, aspetti che sono regolarmente emersi come conflitti aperti tra partiti della maggioranza durante l’esperienza di questi quattro anni di governo. Scarsamente realisti e unicamente preoccupati di problemi "politichesi", di contenitori, di leggi elettorali e di modifiche istituzionali, così gli ulivisti sono stati rappresentati e criticati: questo giudizio è complessivamente ingeneroso, ma coglie un aspetto importante della realtà.

Raccontare una storia alla luce di obiettivi desiderabili, di ciò che poteva essere e non è stato, e di conseguenza dare giudizi forti, non è per niente facile: innanzitutto perché, anche se gli obiettivi e i vincoli che ho indicato più sopra mi sembrano ampiamente condivisi, certamente non lo sono da tutti; e poi, e soprattutto, perché è assai difficile dare valutazioni controfattuali, su ciò che poteva essere e non è stato, e sulle conseguenze finali di un diverso andamento storico. Anche se D’Alema avesse seriamente promosso un programma di…rieducazione del partito; se veramente si fosse comportato come il primo degli ulivisti, come ama dire; se avesse tentato di sostenere Prodi con tutte le sue forze e, in caso di fallimento, fosse riuscito a convincere gli alleati e il Presidente della Repubblica a indire elezioni anticipate, e questi "se" sono moltiplicabili a piacere, chi può dire se oggi saremmo in una condizione migliore di quella in cui siamo? Io ne sono "soggettivamente" convinto, ma mi riuscirebbe difficile convincere molti altri. Per cui ringrazio Ariemma del suo racconto -che i "se" li fa sorgere, ma non è costruito su di essi- e solo mi dispiace (al di là di singoli giudizi che non condivido) che egli non abbia potuto-voluto dedicare alle vicende degli ultimi anni la stessa ampiezza di racconto e di analisi che ha dedicato ai primi: tra l’89 e il 94 passano cinque anni e 164 pagine di testo, ricchissime di flash-back; tra il 94 e il 99 ne passano altrettanti, e non meno densi e problematici, ma le pagine sono meno di 40. Ovviamente è quest’ultima la parte più debole del libro.


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