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Se l’anima è morta ridateci la politica

a cura di Andrea Salerno e Silvio Trevisani



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Questo articolo è apparso sul numero 60 di Reset, attualmente in edicola e in libreria

Il varo del governo Amato è stato accompagnato da: risse tra i Verdi, litigi sul referendum, distinguo Mastella-Boselli sulla leadership della coalizione, litigata a mezzo stampa tra Palazzo Chigi e Sergio Cofferati, riunione in cui si ipotizza di trovare un altro nome che sostituisca il vecchio, maltrattato Ulivo. Quanta voglia di «ni», «mi», «ma», di inutili sforzi a cercare la differenza nel cortile del centrosinistra.

Purtroppo, non è una questione di immagine (che pure ne viene danneggiata), ma di sostanza che in questo caso si chiama «identità». Non esiste più, a leggere i giornali e a guardare la tv, un'identità della sinistra. Non esiste più neanche a leggere le cronache parlamentari, le riunioni dell'Ulivo 3 o 4, i dispacci di Palazzo Chigi. È vero, una perdita ha un valore se interessa a qualcuno. A chi interessa se l'identità della sinistra non c'è più? A chi interessa se quando ci si mette a parlare di scuola, giustizia, diritti umani, valori, si media tutto con le esigenze di una "partitocrazia senza partiti". Se sull'altare di "questi" bisogni si sacrifica anche l'operato "riformista" di Rosy Bindi e Luigi Berlinguer?

Certo, ha ragione Massimo D'Alema (lo ha detto al "Costanzo show"): non è facile declinare la sinistra in Italia. Lega e Polo assieme sono maggioranza. Questo non era e non è un paese normale; c'è tanto "passato" su tutte le questioni all'ordine del giorno, ci sono tanti conflitti di interesse che ogni discussione corre sempre il rischio di apparire o essere contro qualcuno, per qualcuno, anziché avanzata nel giusto nome dell'interesse generale.

Nel primo capitolo de Il secolo breve, Eric J. Hobsbawm fissava sulla carta un concetto che non fa male tenere a mente. Gli ultimi vent'anni del Novecento, oltre all'innovazione tecnologica, andranno studiati e ricordati per una grande trasformazione sociale: "la disintegrazione dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali, da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni, vale a dire tra il passato e il presente". Per Hobsbawm "alla fine del secolo è stato possibile per la prima volta capire come sarà un mondo nel quale il passato, incluso il passato nel presente, ha perso il suo ruolo, in cui le vecchie mappe e carte che hanno guidato gli esseri umani, singolarmente e collettivamente, nel loro viaggio attraverso la vita non raffigurano più il paesaggio nel quale ci muoviamo, né il mare sul quale stiamo navigando. Un mondo in cui non sappiamo dove il nostro viaggio ci condurrà e neppure dove dovrebbe condurci".

E' in questo contesto che si deve muovere la sinistra di oggi. In un contesto in cui, scordata l'identità, bisogna ricominciare a definire una rotta.

C’è uno sforzo tutto culturale e politico da fare. Che va fatto magari ignorando i sondaggi quotidiani. Ridanno identità. Qualcuno si alzerà per dire: "ma così si perde". Sarà, ma non c'è mai la controprova. E, comunque, in un sistema bipolare non bisognerebbe aver paura della sconfitta, almeno non tanta da non agire secondo il proprio programma (di più se votato dagli elettori).

Per questo "Reset" si è rivolto ad alcuni intellettuali, tutti soci fondatori della rivista, per porre loro una domanda: quali sono i tre imperativi per la sinistra, il centrosinistra, se vuole tentare di vincere, o comunque giocarsi alla pari, le elezioni politiche del 2001, e per costruire, o ricostruire, una coalizione capace di scegliere democraticamente un leader e definire un progetto che possa avere futuro.

Vittorio Foa

Giuliano Amato dovrebbe non solo governare i dissensi che ci sono, e non solo gestire il governo in questi mesi, che e’ cosa ovviamente molto importante. Quello che spero e’ che riesca a fare politica, dando un’immagine di cambiamento al paese e qualificando la sua azione di leader politico, anche e soprattutto per il futuro del centro-sinistra, su alcuni temi cruciali. Credo che il primo e piu’ importante sia quello di una politica dell’immigrazione, che sia diversa e alternativa a quella della destra, ma che abbia la stessa chiarezza e determinazione: abbiamo bisogno di forza lavoro, vogliamo immigrati per farli lavorare, dobbiamo dare la cittadinanza, come incentivo, a coloro che se la meritano dopo un certo numero di anni; e insieme dobbiamo agire efficacemente a garanzia della sicurezza pubblica. Il secondo tema e’ quello del governo europeo: il centrosinistra deve assumere una posizione netta a favore dell’allargamento dell’Unione europea e della introduzione del principio di maggioranza nell’organo esecutivo. No all’Europa delle regioni ricche, secondo la versione Haider-Stoiber, si’ alla versione Prodi. Il terzo punto e’ quello che l’economia italiana deve superare uno squilibrio che le impedisce di crescere con maggiore forza: ci sono grandi settori dell’economia italiana con retribuzioni superiori alla produttivita’ (nelle professioni e nel pubblico impiego) ed altri settori ad alta porduttivita’ e basso reddito. Il sindacato non deve ostacolare la rimozione di questi squilibri. Non possiamo consentire che tutto il settore dei lavori a tempo determinato diventi stabilmente la massa di manovra del centrodestra.

Michele Salvati

Il problema di fondo, l’anno prossimo, sarà quello di convincere gli italiani che il Centrosinistra (nonostante i bisticci interni che hanno condotto a quattro diversi governi e tre diversi Presidenti del Consiglio) ha assicurato al paese cinque anni di buon governo e, se vittorioso, gliene assicurerà altri cinque ancora migliori. Questo costringe il messaggio elettorale in forme molto semplici: "noi" siamo meglio di "loro", stando attenti a far sempre prevalere la propaganda positiva (noi siamo bene) su quella negativa (loro sono male), che di solito è assai meno efficace. I tre punti seguono di necessità, dati i vincoli della situazione.

Primo: governo e programma. Senza venir meno ai nostri impegni europei, tutta l’azione del governo dovrebbe concentrarsi sull’esigenza di presentare, alla scadenza elettorale, un bilancio semplice e positivo. Sulla stabilizzazione fiscale e finanziaria siamo a posto. Forse lo saremo anche sulla crescita economica e l’aumento dell’occupazione. Abbiamo difficoltà su molte questioni di riforma strutturale, da flessibilità e previdenza, a sicurezza e immigrazione, alla scuola, al fisco. Qui poco si potrà fare per via di nuova legislazione, perché il parlamento sarà semi-paralizzato dall’ostruzionismo; ma molto si può fare per via amministrativa. Alla fine bisognerà presentare un bilancio, inevitabilmente caratterizzato da molti bicchieri mezzi vuoti e mezzi pieni. Il programma, semplicissimo, dovrà concentrarsi su questi, sottolineando il mezzo pieno, riconoscendo e giustificando il mezzo vuoto ed impegnandosi a riempirlo nella prossima legislatura. Come ai tempi dell’Ulivo, il programma dovrà essere un programma di coalizione, con tutti i partiti che, al di là di modeste sottolineature destinate ai loro "popoli", martellano le stesse cose.

Secondo: coalizione e partiti. La foto con i 17, o quanti erano, piccoli indiani che si affollano intorno al Presidente della Repubblica in occasione delle ultime consultazioni deve appartenere ad un passato che non tornerà più. Facciano, i partiti e i partitini, quel che vogliono: una grande federazione, un partito grosso e una federazione di centro, ma smettano di sgomitare e polemizzare per garantirsi visibilità individuale e si presentino con un numero di portavoce fissi non superiore alla quadrimurti di Berlusconi, Fini, Casini ...e Bossi e con un candidato premier identificato il più rapidamente possibile.

Terzo: un bagno di popolo. Bisogna tornare subito tra i cittadini. Per far questo è necessario anticipare il più possibile la scelta dei candidati nei singoli collegi, scatenarli da subito in campagna elettorale, e far ruotare intorno a loro le poche risorse organizzative esistenti sul territorio. La quadrimurti è scatenata in una campagna elettorale permanente e ha un capo sommamente visibile. Se il centrosinistra pensa che l’avere il governo sia un contrappeso sufficiente a questa presenza sul territorio, si sbaglia di grosso: il governo, in condizioni difficili e con riforme che inevitabilmente ledono molti interessi, con tanti bicchieri mezzi vuoti e mezzi pieni, è in generale una risorsa e uno svantaggio, e in concreto, oggi, forse più il secondo che la prima.

Ripeto: obiettivi semplici, condizioni minime per evitare un massacro, se non una sconfitta. E si tratta anche delle condizioni che, in caso di sconfitta, possono consentire che il centrosinistra non esploda in recriminazioni incrociate e costruisca, sulla base di un’analisi seria dei propri errori, un’identità più attraente per l’elettorato. Degli errori avremo tempo di parlare; per ora, la consegna è di non farci del male.

Giulio Ferroni

Ho la sensazione che le cose che proporrò, allo stato attuale appaiano del tutto impossibili, equivalgano a un’ingenua utopia. Temo però che imperativi più modesti e meno categorici non sarebbero in grado di salvarci.

Per questo penso che primo: occorra liberarsi del notabilato e delle lobbies, dei vip politico- culturali che hanno continuato a sentire le istituzioni e l’amministrazione come patrimonio di un gruppo di "intendenti" sorretto da legami di interna solidarietà, che si sono curati di occupare terreno, riducendo la politica a burocrazia, anche al di là di loro eventuali buone intenzioni. Ciò comporterebbe un affrancamento dal "politichese", dalle formule e dalle alchimie istituzionali, e forse anche dalle sirene di una falsa modernità, dalla astratta aspirazione ad essere dalla parte del giusto trend del mondo.

Secondo: bisogna sapersi confrontare con il malessere quotidiano, con le aspirazioni dei gruppi umani più diversi, senza sovrapporre a tutto ciò schemi ideologici e sociologici precostituiti, senza proiettare su situazioni nuove e spesso inquietanti le semplici e rassicuranti prospettive della sinistra d’antan: saper interrogare le più varie e contrastanti richieste degli elettori senza rinunciare a prospettare la possibilità di un mondo un po’ diverso da quello che hanno davanti, di una vita forse insoddisfacente.

E infine occorre trovare un leader che non appaia un professionista della politica, ma sappia "comunicare" in modo semplice e disinvolto, che sia simpatico e cordiale, e la cui sapienza tecnica sia carica di passione: che sappia far capire che la sinistra si cura di ciò che è davvero essenziale nella vita di tutti.

Eugenio Somaini

Partiamo da una situazione quasi disperata. Se (come tutto sommato si deve auspicare) passa il referendum elettorale e se andiamo alle elezioni nelle condizioni attuali la destra potrebbe ottenere una maggioranza schiacciante che le consentirebbe di fare ciò che vuole, a cominciare da riforme istituzionali imprevedibili e pericolose e che potrebbero metterci per molto tempo fuori gioco.
I partiti di centrosinistra hanno dimostrato di essere una fedele espressione dei peggiori difetti del sistema: personalismi, miopia, carrierismo, tatticismo, anarchia… Non possiamo fermarci alla condanna moralistica ma individuare le condizioni ambientali che favoriscono questo fenomeno. Non vi è dubbio che il vero incubatore istituzionale di questo modo di fare politica non è tanto il sistema elettorale (dalla cui modifica sarebbe ingenuo aspettarsi granché), ma l’attuale sistema parlamentare che consente ad un pugno di persone, quando vi siano maggioranze risicate, di minacciare di fare cadere un governo o di condizionare la formazione di un altro, incoraggiando la costituzione di minipartiti o addirittura di partiti "usa e getta".

La nostra tradizione ci ha portati finora a privilegiare i partiti rispetto ai programmi ed ancor più rispetto alle persone e a guardare con sospetto (anche giustificato) a forme di leaderismo. Dobbiamo rovesciare questa impostazione e sfruttare questi mesi per lanciare un leader ed un programma, tenendo in ombra i partiti; in questo siamo favoriti dal fatto che ci troviamo ad avere come capo del governo quello che ritengo il migliore dei leader possibili. La svolta che, volenti o nolenti (o più propriamente vincenti o perdenti), dovremo fare pone certamente dei problemi di sanzione e controllo democratico ed esige contrappesi. La scelta, anche se sostanzialmente (e fortunatamente) obbligata deve scaturire da un processo democratico che difficilmente potrà assumere la forma di un compiuto sistema di primarie, che dovrà essere attivato in tempi non troppo distanti (diciamo nel corso dell’autunno), dando tempo ad eventuali alternative di manifestarsi ed al candidato naturale di dare prova di sé e di annunciare il suo programma.

La coalizione che si formerà intorno al candidato dovrà stringere un patto che rinnega tutta la nostra storia più recente: a) niente ribaltoni; b) se il nostro governo cadrà andremo alle elezioni; c) se cadrà il governo dei nostri avversari e ci verrà offerta l’occasione di formare un governo diverso andremo alle elezioni ugualmente; d) non cambieremo leader neanche nell’ambito della coalizione prima di nuove elezioni, salvo nel caso in cui esso sia costretto ad abbandonare per ragioni di natura non politica. Verrà poi (forse) il momento di costituzionalizzare questi principi (o di trovarne di nuovi e migliori), per intanto dobbiamo autoimporci questi, sfidando il ridicolo di promettere di non fare più quello che abbiamo appena fatto.

L’incapacità di comunicare dei nostri leader più recenti ha avuta qualcosa di addirittura sorprendente. Per cui dovremo affidare l’organizzazione tecnica e materiale delle nostre campagne elettorali a persone competenti. Anziché mettere il sale sulla coda dei nostri avversari (legge sulla par condicio) perché non cercare tra di noi qualcuno che abbia sale in zucca (in questo campo) e sia capace tra l’altro di raccogliere i soldi per mettere in piedi una campagna elettorale decente e visibile. Non si tratta di cifre proibitive (con la metà di quello che ha speso la lista Bonino prima delle elezioni europee si sarebbe potuto già fare qualcosa di buono); se i nostri avversari fanno gli spot dobbiamo, finché non troviamo qualcosa di sicuramente più efficace, farli anche noi (anche se sono legittime le riserve su questo tipo di comunicazione) e non spaventarci se Berlusconi ne fa dieci, perché con due possiamo ottenere più o meno lo stesso risultato (dopo un po’ i suoi farebbero da sfondo ai nostri e servirebbero a metterli in risalto).

Giorgio De Michelis

La sinistra deve prendere posizione in modo più chiaro. Innanzitutto nei confronti della globalizzazione. Deve sapere che non è un processo con esito determinato e che ci sono essenzialmente due tendenze: uniformità su scala planetaria e rilocalizzazione. Si tratta di due opzioni diverse e la sinistra deve sapere quale sceglie e perché. Questo è un punto decisivo per qualificare i programmi economici e sociali, per valorizzare le strategie, per non affidarsi alla politica del giorno per giorno

Riguardo al nuovo stato sociale che abbiamo in mente: si dice rinnovarlo, ma non distruggerlo. Ma in quale senso: aumentandone l’efficienza, riducendo gli sprechi; riattivando risorse comunitarie e sviluppando il terzo settore nell’ambito dello stato sociale più che nelle politiche sociali viste separatamente? La sinistra sa come dovrebbe funzionare?

Non è pensabile entrare in una fase nuova della vita della repubblica italiana senza mutare radicalmente la propria modalità di essere, senza mettere in discussione i partiti ma anche le troppo comode alleanze di partiti. Non è pensabile che si possano fondare nuovi soggetti politici, e dare loro una nuova organizzazione, senza un’analisi, anche sofferta, dei propri valori, senza ripensare la propria storia: la stessa Tangentopoli non può essere risolta con una semplice suddivisione in buoni e cattivi.
Non è pensabile rifondare la sinistra, se la sinistra non reinventa anche il posto della destra. La sinistra sembra godere del fatto che la destra non ha una politica. Ma questo porta alla mancanza di una distinzione chiara. La sinistra non riesce a spiegare su quale direzione intende attuare il cambiamento e se non inventa un proprio modello - dal quale specularmente verrà fuori anche la dislocazione della destra - sarà soltanto un po’ più ragionevole, meno aggressiva nei confronti delle classi deboli e molto più noiosa della destra.

Leo Nahon

Sarò schematico: innanzitutto dobbiamo mantenere alta l'attenzione agli sviluppi nuovi dell'economia e dei nuovi ceti sociali senza perdere di vista la tutela dei ceti più svantaggiati. Un paese è tanto più civile quanto più si sa occupare dei suoi membri deboli. Senza dimenticare l’imperativo che riguarda il ritrovare la categoria del disagio sia soggettivo sia di interi gruppi sociali come categoria politica da cui partire e su cui lavorare: la politica deve tornare a essere speranza per le persone infelici. Infine: "... ma la questione essenziale, la questione veramente essenziale, cari compagni, è la questione della primavera." (Majakowski)

Mauro Mancia

Il problema centrale è quello dell’identità. Dopo la caduta del muro di Berlino dell’89 e la frammentazione della Dc, la sinistra italiana ha scelto due strade parallele che difficilmente potranno mai incontrarsi: la strada di Rifondazione che ha contenuto coloro che credono ancora nel comunismo e non accettano di elaborare il lutto per il suo fallimento, e quella di un’operazione riformista che ha incluso i piccoli partiti che sono nati dalla frammentazione della Dc. Quest’inquinamento da parte dei piccoli partiti decisamente centristi ha messo in crisi l’identità della sinistra italiana. Tra Scilla di Rifondazione e Cariddi del centro, la sinistra si è perduta e pertanto ha perduto la possibilità di mantenere un contatto stretto con la realtà italiana.

Le riforme portate avanti dal governo D’Alema sono state significative e fondamentali per la nostra società ma anche queste non hanno tenuto conto del contesto sociale e della realtà attuale della nostra nazione. La riforma Bindi doveva essere preparata con la creazione di strutture ospedaliere, almeno in ospedali di prima categoria, per l’attività intramoenia (Vedi la organizzazione di alcuni reparti dell’Ospedale S. Matteo di Pavia ottimamente funzionanti) e doveva anche avere una adeguata copertura finanziaria. Il premio di un milione a un primario ospedaliero appare come una misera elemosina.

E ancora: la riforma Zecchino ha trovato molti consensi ma, come sempre, è stata fatta sulla testa dei professori universitari. Accanto a proposte interessanti, la riforma prevede di mettere ad esaurimento i posti di ricercatore senza annunciare provvedimenti adeguati ai fini del reclutamento di giovani ricercatori e senza prevedere per questi ultimi un adeguato aumento retributivo, che permetta di vivere degnamente. Lo scarso interesse per la cultura: Berlinguer ha fatto una riforma della scuola media superiore che può anche essere considerata buona, ma non si è preoccupato di incentivare anche economicamente l’interesse dei professori a questo nuovo metodo di insegnamento.

Ultimo punto, ma non per importanza, l’incapacità della sinistra di un confronto duro e chiaro con il sindacato. Non credo sia di facile soluzione, ma penso anche che un minimo di flessibilità possa facilitare l’impiego dei giovani.

Senza dimenticare che l’incarico a Giuliano Amato costituisce un ulteriore motivo di preoccupazione. Per il suo passato craxiano, viene visto con sospetto da alcuni componenti del centrosinistra e quindi non è una buona medicina per ricostruire una solida identità. La mia impressione è che proporre Amato come futuro premier alle prossime elezioni del 2001 possa rivelarsi catastrofico nonostante le riconosciute doti di uomo politico e di economista di Amato stesso .

Guido Martinotti

Tutti i grandi movimenti politici necessitano di una loro descrizione del mondo che deve apparire convincente e plausibile. In passato la sinistra ha fornito molte spiegazioni plausibili della realtà, si trattava di buoni ragionamenti che sostanzialmente giocavano su alcuni elementi di grande forza: la società attuale è iniqua e per di più non funziona. E questo era lì da vedere. Il problema è che il mondo non si lascia più spiegare così.

Del resto in tutti i paesi i partiti della sinistra hanno cercato di riadattare le loro spiegazioni a un mondo profondamente cambiato. Così è avvenuto anche per i dirigenti del Pci, che hanno cambiato il nome del partito pagando costi molto elevati, inclusa una scissione. Allora dove ha sbagliato la leadership comunista? Nel non aver assicurato al proprio elettorato un traghettamento sufficientemente chiaro. La fortunata, si fa per dire, combinazione che ci fosse lì pronta e orfana la giacchetta del riformismo socialista, ha fornito un comodo strapuntino, e un viaggio che è andato fino all'ingresso nell'Internazionale Socialista, senza ulteriori spiegazioni. Ma le spiegazioni erano necessarie. Al tardo maccarthismo di Berlusconi contro comunisti ("che non ci sono più"), gli ex-comunisti hanno risposto con la classica mossa italiana di girare il collo per dire "a chi si rivolge"?

Invece occorreva rispondere direttamente alla sfida, andare in piazza e dire: eccoci qui, abbiamo fatto molti errori (e dirli) ma in questo paese abbiamo anche insegnato la dignità e la democrazia a milioni di persone, abbiamo amministrato bene migliaia di comuni e difeso la repubblica in un paio di importanti occasioni. I comunisti siamo noi, e allora? Invece questo compito è stato lasciato al comunista da operetta Bertinotti.

E' dunque mancata una vera catarsi nella ridefinizione pubblica dei comunisti: via via che si sono dissolti nel liberismo, e non si sapeva più chi fossero, è stato sempre più facile agitare lo spettro del comunismo.

Poi vi sono stati inspiegabili errori di conduzione in vari settori, che hanno largamente controbilanciato gli innegabili successi in campo economico, fiscale e internazionale. Il welfare, la scuola, la sanità e i problemi delle inquietudini sociali legati all'immigrazione, alla sicurezza. Si tratta in ogni caso di temi difficili per i quali un governo di riformista è destinato a scontentare grandi masse di elettori. Ma proprio per questo occorre prendere i problemi di petto e spiegare le politiche impopolari, convincere gli elettori. Spiegazione che non si può fare con le parole, ma con i fatti della passione, del convincimento, della perseveranza. Non con la "Pubblicità Progresso".

La società multirazziale è bella, ma è difficile, farla passare per un idillio con lo sciroppo della solidarietà non è un risposta politica alla destra che su queste inquietudini gioca pesantemente. E poi la società multietnica non si costruisce sulla solidarietà, ma sulla civiltà. E la civiltà costa, richiede convincimento, educazione e autodisciplina, è un prodotto degli uomini, non un regalo del Signore.

Per tutto il resto l'impressione è che la eccessiva dipendenza dai sondaggi ( chi ha fatto quelli per il governo deve essere licenziato in tronco) abbia ingenerato una visione statica dell'elettorato.

Per cui io direi: innanzitutto smetterla di litigare. Secondo: pensare mattina, giorno e sera ( e possibilmente anche di notte, nei sogni) ai propri elettori, ai loro bisogni, cercando di vederli, parlargli senza i sondaggisti di mezzo. Terzo: farsi venire una, una sola idea, di progetto che sia ragionevole, plausibile e spiegabile e comprensibile a tutti. E, per converso, criticare duramente, sistematicamente, con ragionevolezza, ma anche al caso con lo sberleffo, tutte le semplificazioni di Berlusconi. Non fargliene passare una.

Giovanna Zincone

Il primo obiettivo che mi darei è di avere obiettivi. Credo sia sfuggito agli elettori il piano di azione del governo D'Alema, che pure ha fatto anche buone cose. Si vuole arrivare a immaginare risposte pubbliche capaci di affrontare le grandi trasformazioni in corso? (mi riferisco ovviamente non solo alla nuova economia, ma anche a quella parte di nuova economia rappresentata dalle nuove migrazioni, ai problemi posti dalla compatibilità tra sviluppo e vivibilità del pianeta e tutto ciò che già sappiamo). Se è così spieghiamo chiaramente quali sono i problemi, quali le strategie per affrontarli, quali le nostre priorità. Cerchiamo di far capire che alcuni di questi problemi si affrontano solo a livello internazionale e che bisogna avere chiaro chi stia perseguendo i nostri stessi obiettivi, quindi anche una strategia di alleanze. Una sinistra moderata e riformatrice non si costruisce facendo una media tra posizioni liberiste e posizione paleocomuniste, ma convincendo le ali "estreme" della preferibilità di una tale scelta.

Il secondo obiettivo è organizzare un buon gioco di squadra. La caduta del governo Prodi è stata interpretata (a torto o a ragione) come l'esito di una faida interna, una faida ancora aperta. Il secondo obiettivo è collegato al primo. L'assenza di un progetto comune spiega il carattere raccogliticcio e volatile della maggioranza, spiega l'ingigantimento delle ambizioni e delle idiosincrasie personali. Il terzo obiettivo è collegato al primo e al secondo e riguarda la comunicazione. Il messaggio dovrebbe essere più o meno questo: 1) la nuova sinistra affronta i problemi di oggi con diagnosi approfondite, con strumenti idonei ed originali, lo fa con coerenza e capacità, perché dotata di un personale competente e perché sa lavorare in squadra, 2) la nuova sinistra è orgogliosa delle proprie radice democratiche e liberali, quindi orienta le propri soluzioni tenendo presenti i principi di tutela dei deboli (a livello interno e internazionale), di tolleranza e pluralismo.

Federico Coen

Premetto che non ci sono ricette miracolose, e probabilmente nessuna potrà essere messa a frutto in tempo utile per vincere le elezioni politiche del 2001. Ciò che si può fare utilmente è identificare almeno le differenti aree sociali ed elettorali la cui domanda politica è rimasta insoddisfatta o poco soddisfatta da parte dei partiti della sinistra e del centrosinistra come alleanza di governo. Schematicamente osserverei che c’è una domanda politica proveniente da un elettorato formato dai cosiddetti ceti medi produttivi, soprattutto al Nord, che chiede al tempo stesso meno Stato e più Stato. Meno Stato vuol dire un sistema fiscale meno oneroso e meno sofisticato, vuol dire meno burocrazia e meno leggi; più Stato vuol dire più sicurezza, giustizia più rigorosa e tempestiva, servizi pubblici più moderni. Rispondere a questa domanda richiede che si dichiari guerra alle tante corporazioni che rappresentano l’altra faccia dei ceti medi (burocrati, medici, avvocati, baroni delle cattedre e anche una parte notevole del cosiddetto ceto politico). Questa guerra non è stata ancora dichiarata.

E ancora: c’è una domanda politica largamente insoddisfatta che viene dall’area dell’esclusione, che non è solo disoccupazione, è anche mala occupazione e difetto di formazione scolastica e postscolastica. Se è importante dare delle risposte in chiave di sviluppo economico, è altrettanto importante la riforma del Welfare, che in Italia è anomalo rispetto al resto d’Europa, anche perché la politica del cosiddetto Workfare, che ha dato buoni frutti in diversi paesi, è resa impraticabile dalla mancanza del sussidio di disoccupazione per i giovani in cerca di lavoro, che esiste in quasi tutta l’Europa, e dalla presenza di un sistema di collocamento del tutto deficitario.

Infine (ma direi prima di tutto) una domanda proveniente da quell’elettorato soprattutto giovanile che chiede alla politica di rendersi interprete di un sistema di valori su cui valga la pena di impegnarsi, per formare o per consolidare la propria identità, che sempre meno è offerta da un lavoro sempre più alienato e precario.
Un partito di sinistra che voglia crescere andando oltre la politica che si consuma nelle stanze del potere, dovrebbe impegnarsi a mobilitare giovani e meno giovani soprattutto nel volontariato, nella politica internazionale di solidarietà attiva con il Terzo Mondo, nella difesa dell’ambiente: nuove frontiere che restano largamente sguarnite e non tutelate dalla politica, e lasciate ad altri soggetti, a cominciare dalle Chiese. Anche questo è un serbatoio di voti, ma è anche e prima di tutto una via da seguire per rivalutare il ruolo della politica, e in particolare quello della sinistra.

Federico Stame.

Secondo me le priorità sono due. In primo luogo il centrosinistra deve tornare ad essere una coalizione, cioè un soggetto politico che non sia la semplice sommatoria delle sue litigiose componenti interne. C'è stata una drammatica caduta d'immagine dopo la crisi del governo Prodi, perché non si è fatto nulla per superare le divisioni tradizionali tra le diverse forze. Si è perduto il plusvalore garantito nel 1996 dal progetto dell'Ulivo, e cercare di recuperarlo mi sembra la prima urgenza.

Quanto all'aspetto programmatico, non direi affatto che il centrosinistra abbia governato male in questi anni. Purtroppo però si trova spiazzato sul piano sociale, di fronte all'emergere di ceti che non si sentono rappresentati dal sindacato confederale e non si riconoscono nei valori tradizionali dello schieramento progressista. Purtroppo la destra mi sembra molto più attrezzata per rispondere alle nuove domande politiche determinate dalle profonde trasformazioni in corso da alcuni anni. Non perché Berlusconi sia più bravo, ma perché è in sintonia con gli umori assai poco tranquillizzanti dell'opinione pubblica. Per fare concorrenza al Polo su quel terreno, temo che la sinistra dovrebbe stravolgere in maniera sostanziale la sua fisionomia storica. Non si può certo inseguire la Lega sul tema dell'immigrazione ed è difficile anche ridurre in modo incisivo il carico fiscale, a meno che non si registri una forte crescita economica.

Carlo Castellano

Mi sembra che la crisi della sinistra sia innanzitutto la crisi del partito DS. Certo, è tutto lo schieramento di centro-sinistra che - nella sua polverizzazione e nella sua litigiosità - esprime un profondo senso di incertezza sul disegno politico e soprattutto sulle linee strategiche. Ma è soprattutto il principale partito della sinistra, i DS, ad essere in difficoltà. Perché oggi i DS, insieme alla CGIL, rischiano di essere identificati solo come forze tese verso il mantenimento degli equilibri esistenti: l’espressione di un mondo che è diventato minoritario nella società italiana. In particolare, i DS sembrano avere una enorme difficoltà ad essere interlocutori nella nuova "cultura del lavoro". Sotto questo profilo c’è una grande rottura rispetto al passato, in cui era proprio la "cultura del lavoro" il motore - per la sinistra - del processo di aggregazione sociale, culturale e politico.

Certo, quanto avviene oggi è solo la punta dell’iceberg di una realtà che si è venuta configurando negli ultimi tempi. A me sembra che la deriva, nella caduta del disegno strategico per la sinistra, vada fatta risalire a vent’anni fa, quando il Paese era lacerato dal terrorismo, espressione di un pezzo della sinistra (certamente minoritario ma ben radicato), incapace di uscire dal mito della "rivoluzione". Allora non si è riusciti a costruire il grande partito del riformismo europeo anche perché i messaggi erano equivoci ed ambivalenti: "il PCI, partito di lotta e di governo".

E oggi - fuori dai settori e dalle aree tradizionali - il partito DS, erede del PCI, non riesce ad aprire varchi nuovi perché manca di un disegno riformista, conseguente ad una profonda e maturata cultura. Quello che oggi si realizza nell’azione di Governo è, in altre parole, in continuità con il pensiero del socialismo craxiano, seppur nella parte più positiva della sua azione politica. Né potrebbe essere diversamente. In particolare, quello che si avverte nei DS è soprattutto l’incapacità di rappresentare le parti più dinamiche del mondo del lavoro, soprattutto quello giovanile. Perché il "lavoro dipendente nella grande organizzazione" - come ricorda Giuseppe De Rita - "è oggi in minoranza (meno di dieci milioni di persone) rispetto al lavoro indipendente oppure svolto nelle piccole organizzazioni". Il mondo del lavoro è completamente diverso da quello del passato, in cui la sinistra - ed in particolare il PCI - manifestava una sua effettiva egemonia. La crisi della sinistra è quindi oggi crisi di rappresentanza dei settori nuovi e più dinamici del mondo del lavoro e del mondo giovanile.

E allora, che cosa fare?

Secondo me la sinistra può e deve avere un futuro nel nostro Paese. Ma è necessario realizzare una discontinuità rispetto al passato: riappropriarsi della cultura del lavoro e comprendere che questa è oggi in profonda commistione con la cultura dell’impresa. La solidarietà è il carattere distintivo della sinistra ma questa è possibile solo se c’è reale sviluppo.


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