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La “personalizzazione”? Una tendenza inarrestabile

Luciano Cavalli



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Questo articolo è apparso sul numero 60 di Reset, attualmente in edicola e in libreria

La prima difficoltà con l’argomento è d’ordine definitorio.Si scrive molto di personalizzazione della politica, tuttavia le definizioni, e perfino le pure e semplici descrizioni, sono scarse e vaghe. Spesso non se ne dà alcuna; ma dal contesto è chiaro che, sotto quell’etichetta, ci si riferisce a fenomeni che converrebbe considerare distintamente. In special modo conviene distinguere fra "personalizzazione della politica" e "personalizzazione della leadership politica" (o "del potere" come ancor oggi alcuni preferiscono scrivere). E’ anche opportuno ricordare che questi sviluppi sono stati oggetto di rilevazione e studio soprattutto nelle democrazie a lungo incentrate nei partiti di massa quali soggetti collettivi della politica, come l’Italia.

L’indebolimento dei partiti è accompagnato da una tendenza che è possibile raffigurare in termini idealtipici (rifacendosi mentalmente anche a democrazie che sembrano averci preceduto su questa strada), e a cui si può ragionevolmente dare il nome di "personalizzazione della politica". Questo fenomeno concerne specificamente il rapporto fra elettori, da un lato, parlamento e assemblee locali, dall’altro. E può essere considerato tanto dal punto di vista dell’elettore come da quello dell’eletto, perché, in effetti, per entrambi la persona, anziché il soggetto collettivo partito, diventa il principale riferimento. Il cittadino elettore compie scelte di voto personali, sottraendosi ai condizionamenti di partito (spesso mediati da comunità d’appartenenza, per esempio nel quartiere), vota in base a fiducia personale nel candidato, e poi cerca di mantenere un rapporto personale con l’eletto, nel quadro di una visione pragmatica (non ideologica) della politica.

L’uomo politico, d’altra parte, è l’imprenditore di se stesso dalla candidatura all’elezione, vince come persona, gestisce autonomamente la propria condotta di "rappresentante", avendo come vero riferimento non il partito ma la sua persona (valori, interessi) e, quindi, il suo elettorato. La tendenza, ripeto, è raffigurata in termini idealtipici, nella realtà effettuale incontreremo percorsi non puri. Tuttavia si moltiplicano i fenomeni ad essa riconducibili. Inoltre questa "personalizzazione" non sembra davvero "senza radici", come alcuni politici ritengono; al contrario, è fondamentalmente determinata da mutamenti nella società che, com’è regola, s’impongono alla politica. Come noto, perché molto se ne è scritto, questi mutamenti hanno eroso le condizioni di vario ordine che (come, ad esempio, la struttura di classe) erano alla base del partito di massa, e del suo "regime", prima che intervenissero traumatici eventi politici a distruggere il fondamento fideisti di alcuni partiti - come la caduta del Muro -, o ad abbattere la credibilità stessa dell’istituzione partito - come Tangentopoli. È qui rilevante che tutto ciò ha liberato molti cittadini da vincoli collettivi, e in particolare da motivanti "appartenenze".

Il nuovo, prammatico individualismo corrisponde bene alla personalizzazione della politica, e la nutre. E la favoriscono potentemente gli sviluppi tecnici e culturali nel campo delle comunicazioni, della tv specialmente. Dunque una ricca convergenza di fattori sospinge il trend della "personalizzazione della politica", e lo rende, rebus sic stantibus, inarrestabile. Sembrerebbe quasi inutile parlarne, non fosse che eminenti personalità dello Stato in ufficiali esternazioni dimenticano il cambiamento della società e i grandi eventi occorsi, per rintracciare invece le cause della personalizzazione nei suoi effetti (per giunta secondari): ad esempio, nella perversa abitudine dei segretari dei partiti di "parlare in prima persona ", quasi, appunto, essi impersonassero il partito. E sembrano credere in facili correzioni (inversioni?) di rotta.

Il principio monocratico

La "personalizzazione della leadership politica"rientra, in senso lato,nella "personalizzazione della politica", ma investe anche, e principalmente, la dimensione del potere di governo. Il concetto -sempre in termini idealtipici - implica due cose. Primo, che detto potere nelle istituzioni pubbliche si concentri per regola o di fatto nel leader preposto al loro governo. Secondo, che il leader sia preposto al governo in base alla fiducia popolare . Potere monocratico e fiducia popolare sono dunque i due volti della "personalizzazione della leadership". Ciò ci rende anche avvertiti che essa si contrappone in modo diretto non al soggetto collettivo partito, come nel caso precedentemente discusso , ma ad ogni forma di governo incentrata in organi collegiali: tanto nelle istituzioni pubbliche quanto nel partito stesso, che diventa il "partito del leader".

Per un aspetto importante, la "personalizzazione della leadership" rappresenta dunque sulla scena politica un momento di prevalenza del principio monocratico nella plurisecolare competizione con il principio collegiale: soprattutto nel rapporto fra il leader di governo e il parlamento, da un lato, e in quello fra il leader e i restanti membri del governo, dall’altro . Prevalenza prevista e spiegata dal più alto pensiero sociologico( e quindi anche politologico ) fin dall’inizio del secolo scorso, con considerazioni relative sia alle pressanti complesse esigenze della società moderna, sia alla corrispondente necessità di governare con lungimiranza e coerenza e tempestività e responsabilità . "Governo del leader assistito da consiglieri", appariva - già in Weber - come la formula del futuro, in luogo del governo collegiale ormai superato dalla modernità e destinato a sparire.

Qui meritano rilievo tre punti. Il primo: che il principio monocratico in democrazia ha ricevuto congruo spazio dove l’ambiente culturale era più propizio, ad esempio per il prevalere di orientamenti individualistici e prammatici, e dove le circostanze storiche ne favorivano l’affermazione. Gli Usa sono un buon esempio, e su questo non c’è forse da insistere . Il secondo :che esso può diventare un principio strutturale nell’organizzazione dello stato democratico, come appunto è accaduto negli Usa: dallo stato federale ai singoli stati della federazione e alle municipalità. Il terzo: che la democrazia, per esser tale, non può fare a meno dell’opposto principio (collegiale). I due riferimenti idealtipici servono , forse in primo luogo, a misurare gli equilibri in paesi e tempi diversi: e suggeriscono la conclusione che oggi il principio monocratico tenda a prevalere sull’altro. E, a questo proposito, bisogna anche dire che il trend sembra da tempo in atto.

Già nei primi anni venti Bryce concludeva la sua grande ricerca comparata sulle democrazie rilevando la tendenza ad affidare il governo ad uno solo, o assistito da pochi. Sembrava che ciò assicurasse quei vantaggi di cui sopra si è detto, specialmente importanti in tempi critici. Dopo la seconda guerra, Calamandrei ed altri facevano notare che le democrazie che avevano resistito ai fascismi, e li avevano vinti, erano incentrate in ruoli monocratici di leadership istituzionale ( e per questo raccomandava agli italiani di darsi una repubblica presidenziale). Il trend ha operato, in modo discontinuo e disuguale, anche nei decenni successivi . In alcuni casi, sono riuscite determinanti condizioni particolari di crisi (così gli obblighi della guerra fredda e dell’egemonia mondiale hanno da decenni provocato la preminenza del presidente Usa sul congresso). Ma in generale la mole crescente degli impegni, l’esigenza di un agire coerente l’urgenza di decisioni efficaci - insomma la necessità d’un governo che governi - hanno condotto quasi tutti i paesi occidentali al rafforzamento dell’esecutivo e della posizione del suo capo particolarmente, sia pure con elaborazioni diverse della costituzione, dei regolamenti, delle leggi elettorali.

De Gaulle, che ha compiuto la più radicale riforma in questo senso, con la V repubblica unicipite in lui presidente incentrata, riassumeva il senso storico dell’operazione affermando che il nuovo regime era alfine adeguato alle richieste "que la vie rude et rapide du monde moderne impose à un grand Etat"; un mondo ostico e pericoloso in cui la Francia sotto il "regime dei partiti" semplicemente "ne pourrait survivre". Credo che esprimesse in sintesi la convinzione profonda di coloro che, oggi, vogliono una "repubblica unicipite", con un presidente o premier eletto dal popolo e con incisivi poteri di governo. Tuttavia quelle parole accentrate sui vantaggi strutturali del regime lasciano in ombra la "componente soggettiva" della personalizzazione della leadership, di cui pure il generale era acutamente conscio - e su cui proprio studiosi del suo potere hanno insistito. La scelta diretta in base a fiducia personale di chi governerà rappresenta per i cittadini una riappropriazione della politica che la delega ai partiti aveva loro sottratto; pertanto conferisce legittimità al leader eletto, da un lato, e, dall’altro, ridetermina la identificazione del cittadino con la cosa pubblica. Qui, di nuovo, ha contato il progresso tecnologico delle comunicazioni e della tv specialmente: ha reso possibile quel rapporto diretto, personale con il leader nazionale - sopra la testa degli "intermediari", come diceva Ostrogorski - che esalta l’elemento soggettivo della personalizzazione.

Il partito del leader

Il trend in atto e la scelta consapevole di coerenti riformatori sembrano dunque mirare ad un equilibrio democratico caratterizzato da una posizione più forte del leader di governo, sulla base del rapporto con il popolo che lo elegge e su di lui esercita il decisivo controllo politico nelle elezioni generali. Si parla specificamente della posizione del leader rispetto al suo partito (come partito di maggioranza in un sistema bipartitico), al parlamento, al governo, all’opinione pubblica, per poter governare inimpedito in conformità agli impegni assunti con l’elettorato e ai dettami della sua coscienza politica. È da rilevare qui che anche il paese più restio, per l’ovvia resistenza dei molti partiti e dei loro parlamentari, l’Italia, con leggi sulla presidenza del consiglio e il governo, revisione dei regolamenti parlamentari e innovative pratiche di comunicazione pubblica sviluppate dal presidente del consiglio (di tutto ciò tratta anche Calise nell’ultimo capitolo del suo libro) abbia mirato a rafforzare l’esecutivo e soprattutto il suo capo al crocevia dei rapporti politici principali: con il parlamento, il governo, l’opinione pubblica. Mentre, per oggettive difficoltà, resta da costruire il "partito del leader". Ma è significativo che, in occasione dell’ultima crisi di governo, i principali giornali (" Il Corriere della Sera, La Repubblica" ) scrivessero di sforzi intensi per costruirlo - forse tardivi o immaturi a quel punto.

Un governo forte

Naturalmente la personalizzazione della leadership pone interrogativi di varia natura .Qui sarà soltanto possibile accennarne alcuni forse più pertinenti al caso italiano ,con qualche elemento per una risposta positiva. Il primo mi sembra anche centrale. E’ opportuno che questa tendenza abbia successo, dando luogo - in Italia - a quella che, per comodità, chiamerò ormai la "repubblica unicipite"? Credo vi siano alcuni elementi per una risposta affermativa . Innanzitutto, nei cinquant’anni trascorsi si sono accumulati problemi (si veda, come esempio, il campo decisivo della formazione e della ricerca) che attardano la marcia del Paese: non riusciamo a tenere il passo degli altri. Nessuno potrebbe negare le responsabilità, in opere ed omissioni, dei governi, dei parlamenti, e dei partiti che li hanno espressi. Che la soluzione debba partire da una riforma politico-costituzionale e implichi un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo e del suo capo in particolare è generalmente ammesso, anche se non pochi (leader dei partiti minori in primo luogo)vorrebbero che la medicina fosse quanto più blanda gli riesce.

L’altro e concomitante argomento è offerto dalla mondializzazione con i suoi nuovi problemi: da quello della competitività a quello delle immigrazioni di massa, peraltro connessi strettamente . L’Italia è parte dell’Europa: però, se non riuscisse a fare bene la propria parte, pagherebbe salato di suo, in termini di benessere, ma con conseguenze assai estese. La sfida della mondializzazione richiederà una riorganizzazione onnilaterale del sistema-paese; e poi quella guida coerente e decisa, in base a una visione d’assieme, cui si accennava poco sopra. La risposta alla mondializzazione implicherà anche un mutamento di clima culturale interno , con un ritorno forte ai valori della lotta (competitività) e dell’eccellenza. Ebbene, i dati dell’esperienza (non solo italiani) fanno ritenere che, in un’impresa di quella mole e complessità, la repubblica unicipite avrebbe maggiori chances di successo rispetto a questa repubblica parlamentare e multipartitica. Perché non darsi tempestivamente lo strumento migliore, fondato sulla personalizzazione?

Per i democratici più timorosi aggiungo un’osservazione: al di là dei costi già previsti, l’incapacità politica di far fronte significherebbe da ultimo la vittoria del Mercato e del pensiero unico che predica il mercato, non la democrazia, come "condizione sociale naturale". Il secondo interrogativo è anche il più discusso. Non c’è il rischio che uno stato democratico fondato sulla personalizzazione (della leadership) diventi autoritario, o comunque non democratico per qualche aspetto? L’esempio degli Usa e, ora, anche della V repubblica francese viene addotto per dimostrare il contrario; e, sotto un certo profilo, anche il caso inglese. La tenuta democratica complessiva di quei paesi sembra innegabile. Vero é però che l’esempio vale fino a un certo punto. Là si è sviluppato un equilibrio istituzionale rassicurante e, soprattutto, una forte cultura democratica. Oggi, ad esempio, sembra impensabile che un premier inglese possa violare certe regole. Ma bisogna ammettere che il passaggio dalla nostra repubblica dei partiti alla "repubblica unicipite" sarebbe in qualche misura problematico.

Credo si debba qui riprendere una riflessione già più volte formulata. Per la sicurezza democratica è fondamentale che, nella "repubblica unicipite", il ruolo del leader di vertice sia istituzionalizzato, con forza e chiarezza: nella forma della repubblica presidenziale o del premierato elettivo. Il pericolo sta nelle soluzioni a mezza via (tipo la semplice indicazione del premier, o anche il cancellierato in presenza d’un multipartitismo come il nostro): per cui il leader riceve dalle leggi parte delle attribuzioni necessarie, e in parte se le deve procurare da sé, magari pressato dalla situazione e dall’opinione pubblica che urgentemente reclamano effettivo governo. In quell’ambigua situazione, quasi si impone il ricorso agli strumenti surrettizi della corruzione, dell’intimidazione, dei compromessi, che ledono la democrazia. E tanto peggio se il paese non ha una forte tradizione o, comunque, una cultura democratica.

La fiducia dell’elettorato

Da ultimo occorre chiedersi quale modello di relazione fra leader ed elettorato possa attuarsi con il crescendo della personalizzazione e la sua probabile istituzionalizzazione, tenendo conto di esperienze altrui e di intenti già noti. Molti dati sembrano indicare una diffusa depoliticizzazione dell’elettorato italiano. La caduta della partecipazione al voto ne è forse la manifestazione più concreta . Ma polls e ricerche mostrano anche una fiducia assai bassa nelle istituzioni, nei partiti e nel parlamento in specie . Inoltre il cittadino che non ha ancora abbandonato il suo ruolo politico, tende a rifiutare i programmi generali d’antan (che d’altronde avevano un significato eminentemente rituale ), per rifugiarsi o in valori extra-politici (come l’ambiente) o negli interessi che lo toccano personalmente. Anche per questo i partiti gli appaiono come strumenti politici inadeguati e inadattabili (considerando sia le strategie di voto pigliatutto sia le strategie parlamentari sciolte dall’impegno elettorale ). Perciò due diffusi pronostici sembrano doversi attuare. Primo: il rafforzamento della personalizzazione di vertice, come unico rifugio possibile della fiducia. Secondo: lo sviluppo di associazioni, lobbies e movimenti (single-issue movements) per la difesa di ben precisati interessi.

Anche gli sviluppi nel campo delle comunicazioni potranno facilitare considerevolmente questi sviluppi, a partire dalla formazione di gruppi autoselezionati d’interesse. Se la spinta della personalizzazione avrà prodotto un adeguamento del sistema politico, il candidato presidente o premier, per essere eletto, dovrà farsi riferimento privilegiato di interessi compatibili e di organizzazioni (lobbies, movimenti, o che altro) che già li rappresentano, ma elevando quella pluralità di interessi ad una sintesi superiore, che costituisca un progetto nazionale. Deve cioè creare un’area politico-culturale, definita in ultima analisi da valori che trascendono gli interessi. Quanto ai (residui dei) principali partiti, contribuirebbero certamente ad innervare l’area politico-culturale. Ma il candidato presidente o premier ne è l’autore, e il garante. E' il portatore della fiducia collettiva.

Naturalmente questo schema richiama anche il meglio dell’esperienza americana . Ma è da dire che sembra pure aver ispirato qualche progetto politico in Italia, a testimonianza di una realtà in movimento. Il superamento dei partiti con "perdita graduale di sovranità" ipotizzato dai Democratici ,per esempio, avrebbe luogo a favore di un’entità nuova mal precisata, che però sembra identificarsi con l’area politico-culturale di cui parlavo. Al centro di quella trasformazione starebbe il leader nazionale portatore attivo del progetto, e soprattutto della fiducia del seguito. La sua posizione di vertice, infatti, sarebbe legittimata da un sistema di primarie ( di "riconoscimento"), come premessa dell’elezione diretta a capo del governo in forme non ancora definite. Infine, il processo di selezione verso i vertici monocratici sembra specialmente "su misura" nella società di massa, anche per il coessenziale bipartitismo.

Questo è vero soprattutto al livello nazionale. Con decine di partiti che presentano frotte di candidati al parlamento italiano, il comune elettore, che non ha tempo e modo per indagini approfondite, vota in pratica per degli sconosciuti; e gli effetti si vedono. Dovendo invece scegliere fra appena due (o forse tre) candidati alla presidenza della repubblica o alla premiership , come accade in una "repubblica unicipite", tutto cambia . Per mesi l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica si concentra sui due antagonisti , considerati sotto ogni aspetto; e la campagna stessa si organizza inevitabilmente in una serie di prove atte a vagliare il possesso delle qualità di leadership che la carica richiede. E' vero che team di consiglieri lavorano per costruire una immagine pubblica del candidato sulla misura del suo elettorato, e che il pericolo d’inganno sussiste .Ma è anche vero che - come anch’io ho cercato altrove di mostrare - le risorse della società moderna, dalle università ai media , consentono di rendere molto puntuali e stringenti gli scrutini dei candidati alle cariche monocratiche di vertice . Scrutini seri per le cariche pubbliche non potranno mai aversi nel sistema politico che ci è più familiare, per quanto lo si possa correggere.


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