Luomo che non cera
Umberto Curi
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"Il lavaggio a secco è linvestimento
migliore per il futuro. E un procedimento chimico che consente di pulire
perfettamente abiti e biancheria, senza alcun bisogno di usare acqua. In questo modo si
ottengono risultati anche migliori di quelli del lavaggio tradizionale, senza altresì
correre il rischio che i panni si restringano". In questi termini (quasi
testualmente), nella prima parte del film L'uomo che non c'era, il noir scritto da
Ethan e diretto da Joel Coen, limbroglione capitato nel negozio di barbiere di Ed
Case, ad interromperne la monotona routine esistenziale, descrive con enfasi i vantaggi di
un business, per la cui realizzazione sarebbero sufficienti soltanto diecimila
dollari.
A suo modo, L'uomo che non c'era sembra uscito da una macchina per il lavaggio a
secco. Asciutto fino allascetismo, quanto allo stile. Scarno ed essenziale nella
descrizione della storia. Alleggerito perfino dei colori, mediante luso di un bianco
e nero tendente al monocromatismo del grigio. Deliberatamente privo di pathos,
nonostante tocchi alcuni fra i temi potenzialmente più carichi di emotività:
lamore e il tradimento, la morte e larte, la solidarietà e la giustizia.
E come se il richiamo al lavaggio a secco (ricorrente anche nella parte conclusiva
del fim) fosse stato scelto dallAutore come riferimento riflessivo alla propria
opera, per sottolineare che essa non intende suscitare il pianto, né l
"umida" compassione dello spettatore, privilegiando invece un approccio
"disidratato", capace di disseccare ogni possibile idropisia del racconto.

Ne risulta un film che, nel suo insieme, assomiglia alla maschera deliberatamente statica
e immutabile del protagonista, altra "icona" autoreferenziale dellopera:
unimmagine fredda e letteralmente im-passibile, apparentemente immune da ogni
sentimento, capace di non modificare la sua espressione perennemente assorta e distaccata
neppure una volta seduto sulla sedia elettrica. Un film che fa di questa opzione
stilistica il suo peculiare principio di individuazione, e che si distacca perciò
nettamente non soltanto dai canoni ai quali è prevalentemente ispirata la produzione
cinematografica corrente, ma anche (sebbene in misura minore) dalle precedenti opere dello
stesso Autore, nelle quali larida asciuttezza della narrazione è semplicemente
abbozzata.
Daltra parte, la scelta del registro espressivo ora descritto è del tutto coerente
con limpianto complessivo del film, e con il tema intorno al quale esso
esplicitamente "lavora". Come risulta, infatti, sia dalle riflessioni del
protagonista, rese mediante un uso efficace della voce fuori campo, sia dalle
considerazioni svolte da altri personaggi, primo fra tutti lavvocato proveniente da
Sacramento, il problema posto al centro dellopera potrebbe essere descritto nei
termini di unindagine sulle caratteristiche e i limiti della conoscenza umana, e
ancor più specificamente sul ruolo che la conoscenza in quanto tale può esercitare nella
vita delluomo e nel suo destino.
Qui i riferimenti di carattere teorico, o schiettamente filosofico, sono numerosi e
apertamente formulati. Anzitutto lesultanza dellavvocato, convinto di aver
ritrovato nelle parole di uno scienziato tedesco ("tale Fritz o Werner")
lintuizione che potrebbe risultare risolutiva per la causa giudiziaria in atto. Sia
pure ridotta al puro scheletro di un apparente paradosso - "quanto più si guarda un
oggetto, tanto meno lo si capisce" - lo straripante legale del film dimostra di aver
colto, se non il significato strettamente scientifico, almeno alcune implicazioni
fondamentali sul piano della teoria della conoscenza, scaturenti dal principio di
indeterminazione formulato da Heisenberg (quel "tale Werner", appunto, citato
due volte durante il colloquio in carcere).
Per quanto sommaria, imprecisa o perfino fuorviante possa risultare questa
interpretazione, rispetto alla valenza originaria di un principio, la cui validità era
stata dimostrata solo per quanto riguarda lambito delle particelle elementari (e,
dunque, non necessariamente estrapolabile a livello macroscopico), non vi è dubbio che la
teoria di Heisenberg "suona", almeno allorecchio dellavvocato, come
affermazione dellimpossibilità di spingere oltre un certo limite la conoscenza
della realtà "oggettiva". Anzi, seguendo il filo del ragionamento proposto nel
film, si può affermare che quel "tale Werner" avrebbe dimostrato che quanto
più ci sforziamo di comprendere qualcosa concentrando su di essa il nostro sguardo, tanto
meno ci mettiamo nelle condizioni idonee per poterla capire.
La formulazione originaria del principio (lincremento dellaccuratezza nella
misurazione della velocità di un elettrone implica una corrispondente diminuzione
dellaccuratezza nella misurazione della sua posizione) si "traduce" nel
film in quella che si potrebbe definire come una "paralisi gnoseologica": non
soltanto cercare di guardare a fondo un oggetto non ci aiuta a coglierne lessenza,
ma addirittura questo sforzo si converte in uno scacco della conoscenza in quanto tale. Il
compiuto nichilismo soggiacente al film trarrebbe, dunque, giustificazione e alimento
dalle enunciazioni della meccanica quantistica - dalle scoperte di un "tale
Werner".
Ma il rilevamento dei limiti invalicabili della conoscenza umana,
"scientificamente" fondato sugli esiti più innovativi delle ricerche in campo
subatomico, non riguarda soltanto lasse narrativo del film, poiché rappresenta
invece - ancora una volta - limmagine riflessa dellopera in quanto tale.
Lassunto espresso dallavvocato, insomma, non si applica soltanto alla vicenda
narrata nel film ,ma al film in quanto tale: in entrambi i casi, la pretesa di
"capire", di "afferrare lessenza", concentrando lo sguardo su
ciò che si è scelto come oggetto, è esposta ad un inesorabile fallimento. Con freddo
sarcasmo, i fratelli Coen sembrano ammonire lo spettatore a non pretendere di voler
procedere oltre un certo segno nella comprensione del film, visto che "quanto più si
guarda un oggetto, tanto meno lo si capisce".
Daltra parte, e anche a dispetto del monito implicito al quale ci si è ora
richiamati, la tematica in senso lato "gnoseologica", attinente cioè alle
modalità e ai limiti della conoscenza, e alle implicazioni con essa connesse, sul piano
morale ed esistenziale, si conferma in ogni caso di gran lunga dominante in questa algida,
quanto riuscita, opera cinematografica. Combinando luso esclusivo delle immagini in
chiave metaforica (come accade con il misterioso episodio della fallita evasione del
protagonista dalle tenebre della prigione), con alcune affermazioni da lui stesso
pronunciate ("sapere la verità non aiuta, anzi fa stare anche peggio"), è
possibile individuare una filigrana specificamente filosofica, che finisce per confluire,
rinforzandosi ulteriormente, con le convinzioni desunte dallinterpretazione della
meccanica quantistica.

Limmagine del carcere, anzitutto, è storicamente e
concettualmente legata a quella di una condizione umana "prigioniera"
dellignoranza, e dunque anche di tutto ciò che di negativo allignoranza si
accompagna. In Platone, ad esempio, le "tenebre" dellignoranza sono quelle
in cui versa lanima "incarcerata nel corpo"(Fedro), con
laggiunta che solo leros, solo la contemplazione della bellezza nelle
specie sensibili può avviare quel processo di affrancamento dai vincoli della
corporeità, che è premessa necessaria per "guarire dallignoranza"
(Simposio), riguadagnando quelloriginaria pienezza dellessere e del
conoscere, dalla quale siamo letteralmente de-caduti.
Ma ancora più nitido è il riferimento della scena della possibile evasione dal
carcere, descritta nel film, con la notissima immagine della caverna, della quale si
tratta nel libro settimo della Repubblica. In entrambi i casi, ciò a cui si
assiste è un percorso di liberazione, che prende le mosse dalla condizione di massima
segregazione, nella quale versa il prigioniero nel carcere-caverna, e poi si sviluppa
attraverso una serie di passaggi intermedi fino alluscita dalle tenebre, e al
possibile conseguimento di una completa libertà. Da notare, a questo riguardo, la
precisione compiaciuta, perfino pedante, con la quale limmagine platonica è allusa
nel film, come risulta palese dal particolare dellaccecamento, del quale è vittima
il prigioniero una volta uscito alla luce.
A ciò si aggiunga, inoltre, linsistenza con la quale vengono sottolineate,
soprattutto nella parte centrale e in quella conclusiva del film, talune asserzioni che
richiamano in maniera trasparente altrettanti topoi della teoria filosofica della
conoscenza, soprattutto nella tradizione del cosiddetto "pensiero negativo", in
Schopenhauer e Nietzsche. Per dirla in breve, il nucleo centrale di questa linea di
ricerca consiste nel ritenere che il sapere del tutto si coglie in negativo, proprio per
la sua assenza, mediante quella forma pregnante di "intuizione intellettuale"
che è depositata nella tragedia classica.
Questo dolore non è semplicemente il tramite attraverso il quale guadagnare
lequilibrio compiuto di una conoscenza pienamente acquisita, non è il prezzo
necessario, ma anche transitorio, per conseguire il sapere, ma persiste come aspetto
indissolubile del processo del conoscere in quanto tale. Si tratta del "dolore che
non ha eguali, il sentimento incessante della distruzione completa", quando la nostra
vita perde ogni importanza, quando il cuore si dice: "tu scomparirai e niente di
te resterà"( Hoelderlin, Hyperion).
La tragedia (il cui modello compositivo è puntualmente ricalcato ne L'uomo che non
c'era) è "la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile"; in
essa vengono raffigurati "il dolore senza nome, laffanno dellumanità, il
trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti
e degli innocenti" (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione).
"La schernevole signoria del caso", indicata dal filosofo tedesco quale
contrassegno peculiare di una condizione umana efficacemente rispecchiata nella tragedia,
potrebbe essere assunta quale filo conduttore di questa recente opera dei Coen. Quanto
accade nel racconto che è alla base del film corrisponde perfettamente al modulo classico
di una consecuzione dei casi perfettamente verosimile, nella quale subentra
allimprovviso, contro ogni aspettativa, sebbene in maniera consequenziale, un
evento che scompagina lordito apparentemente razionale delle vite descritte,
introducendovi i presupposti dello svolgimento tragico.
Insomma, pur ammettendo che essa sia in qualche modo possibile, pur ipotizzando che possa
essere falsificato lassunto di "tale Werner" circa lintrinseca
inconoscibilità del mondo, la conoscenza non riscatta, ma condanna. Non redime dalla
sofferenza, ma allopposto ad essa incatena. Non riscatta una volta per tutte dal
dolore, ma ce lo rende invece un compagno del quale non possiamo più liberarci. "Qui
auget scientiam, auget et dolorem"(Qoelet) - aumentare la conoscenza vuol
dire aumentare in pari misura il dolore.
A questa conclusione totalmente disincantata, compiutamente nichilistica, plumbea come i
grigi dominanti nelle sequenze del film che precedono la conclusione, i Coen legano la
sorte di tutti i diversi personaggi che sfilano nella loro opera, allinsegna di una
umanità vista senza alcuna compassione, frugata nelle sue squallide miserie, comunque
incapace di assurgere a una qualunque grandezza. Il logorroico titolare della barberia, la
moglie infedele ed egoista, lipocrita millantatore amante di lei, la moglie di
costui, avvitata nella sua follia, il miserabile imbroglione col parrucchino,
lavvocato insaziabilmente avido di cibo e denaro, il padre della giovane pianista
costantemente ebbro di whisky, appagato dalla consultazione di polverosi faldoni di
archivi giudiziari, la stessa fanciulla disinibita e spregiudicata, pronta a ricambiare
con una prestazione sessuale non richiesta la disinteressata sollecitudine del
protagonista nei suoi confronti. Un paesaggio umano desolato, privo di ogni possibilità
di riscatto, letteralmente confitto in una miseria senza speranza, incapace di qualunque
gesto capace di alludere ad una pur remota prospettiva di salvezza.
In questo quadro volutamente greve e deprimente, lunico squarcio di luce
vividissima, quasi abbagliante, con una netta prevalenza del bianco delle pareti rispetto
alle figure scure che su esse si stagliano con espressionistica plasticità, è la scena
finale dellesecuzione del protagonista. La luce, assente o ridotta al minimo in
tutta la durata del film irrompe qui prepotente, a sottolineare una conclusione amara
quanto rigorosamente coerente. Non è la luce della salvezza. Non è la luce della
liberazione. Nè tanto meno, è la luce di un inesistente "al di là", verso il
quale il prigioniero transiti, con l"aiuto" della sedia elettrica. E
una luce fredda, chirurgica, funebre. E una luce che accompagna la sentenza di
Hoelderlin: "tu scomparirai e niente di te resterà".
Il link:
Il sito ufficiale de L'uomo che non c'era
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