Lasciar essere le cose
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Salvatore Natoli, La felicità di questa vita, Mondadori, pp.185,
lire 14.000
In cosa consiste la felicità e come ottenerla? Interrogativo da far
tremar le vene e i polsi se si conviene, -come afferma Salvatore
Natoli nel breviario ad essa dedicato-, che gli esseri umani “non
sanno il perché della felicità”. Essendo essa aleatoria,
gratuita e soprattutto poco duratura. Eppure a tutti noi (o quasi)
è capitato di essere felici, di provare sia pure per un tempo breve
un sentimento di sovrabbondanza e gioia totali. Non a caso l’etimologia
della parola - che vede il vocabolo felicità derivare dalla radice
indoeuropea fe - sottolinea lo stato di pienezza che
caratterizza tale condizione esistenziale. Si pensi ai termini
latini felix, ferax e fecunda, che in
riferimento alla terra ne sottolineano il carattere generativo,
fruttifero e, appunto, fecondo. Nel sentirsi felici infatti si
avverte quasi un troppo pieno di benessere, un qualcosa
difficile da descrivere e che ci colma e insieme irradia oltre noi
stessi.

Ma -avverte Natoli- se è vero che nella
beatitudine l’uomo prova una sorta d’illimitata espansione, è
altrettanto vero che tale sentirsi colmi in modo sovrabbondante è
strettamente legato alla mancanza, al vuoto che detta felicità
precede (e spesso segue), senza il quale non si darebbe
avvento/accrescimento di pienezza.
In parole povere, potremmo mai distinguere la felicità dal suo
contrario, se essa fosse permanente, immutabile e statica? Questa
constatazione, però, se da un lato denunzia il carattere transeunte
e la brevità dell’ora felix, dall’altro rimarca il dato
paradossale che per sentirsi/dirsi felici (non nella mera condizione
di vivere senza dolore o malattia) bisogna sperimentare prima la
mancanza o misurarsi con essa, in quanto nell’attimo felice “gli
uomini attingono l’eterno”, che -dice bene Natoli- non
appartiene alla nostra dimensione all’insegna della finitudine.
Ancora. Esiste un bene in grado di renderci felici; che ci
appaga più d’ogni altra cosa e senza il quale siamo votati all’infelicità?
Pare saggio rispondere di no, che altrimenti detto supposto sarebbe
per noi fonte di dipendenza perché, privati di esso, non ci
resterebbe che soffrire.
Insomma, gran guaio la felicità: non c’è conseguimento,
benessere materiale, amore, soldi che la garantiscano e inoltre dura
poco, perché se durasse sempre sarebbe una noia assai poco
appetibile. Battute a parte, sembra proprio che per raggiungere una
condizione di vita serena (se non felice) occorra guardarsi in primo
luogo da narcisismo, fantasie d’onnipotenza e ipertrofia dell’io;
magari imparando la difficile arte della moderazione, del distacco e
della rinuncia rispetto a quanto non è possibile avere.
Per essere felici è necessario “lasciar essere le cose” scrive
con una felice immagine Natoli riverberando la concezione
taoista dell’accettazione, che non significa pura rinuncia
passiva, ma piuttosto un dire sì alla vita assecondando
spontaneità e naturalità, attraverso un disporsi aperto nei
confronti dell’esistere. Senza “opporre resistenze preventive
nei confronti di uomini e cose” perché “è dall’inatteso che
può giungere il dono”. In questa prospettiva, allora, la
felicità più che un fortunato accidente si delinea quale arte e
perizia sottile del vivere, come ritenevano i greci, per i quali la
somma virtù era saper gestire al meglio soprattutto le difficoltà
e le contraddizioni della nostra parabola esistenziale.
Così, ribadendo l’ineludibile rapporto felicità/negatività, non
è possibile chiudere senza un accenno al dolore e alla problematica
cruciale della sofferenza, che Natoli affronta con grande lucidità
e misura nel sottolineare come uno dei più deleteri fraintendimenti
sia sempre stato “non voler riconoscere l’inevitabilità del
soffrire”. Lezione dura ma avveduta, in quanto dalla perdita e dal
venir meno nessun dio ci può affrancare (in questo mondo e in
questa vita, almeno). Del resto, non temprati dall’amaro sale di
precarietà e patimento, che insipido sapore avrebbero mai i nostri
giorni felici?
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