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Tina Cosmai
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Ferruccio Sansa, Se ci fossimo parlati, De Ferrari Editore, 188
pp., lire28.000
Definire la felicità, almeno in forma non accademica, strutturale,
ma dando voce alle emozioni pare sia complicato, difficile,
inesauribile. Come se il sentimento della felicità fosse una
chimera, una sensazione che si riconosce nel contrario, cioè nella
non felicità.
Eppure la felicità esiste, esiste la parola, esiste il concetto,
esiste il sentimento. Ed esiste da quando l’uomo ha cominciato a
riflettere su di sé, sulla propria coscienza dell’esserci nel
mondo. Il concetto di felicità è umano e mondano e non è da
confondersi con la beatitudine, la quale è l’ideale di una
soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo con il mondo e
perciò ristretta alla sfera contemplativa e religiosa.
La felicità è una questione totalmente umana, che investe i
rapporti, il linguaggio, le modalità d’esistenza. Parlare di
felicità, vivere la felicità, spesso è difficile; ed è su questa
difficoltà che Ferruccio Sansa, autore della raccolta di racconti
dal titolo Se ci fossimo parlati, pone la sua riflessione.
Cosa vuol dire essere felici e cosa non esserlo.
Sansa in questi racconti evidenzia quel vuoto esistenziale che nasce
dall’impossibilità di riconoscere il sentimento della felicità
nella propria vita.
I suoi personaggi non sanno vivere la felicità, la schivano come
impauriti o increduli o peggio, rassegnati di fronte al pensiero
della non felicità.
Eppure attraverso questo vuoto, quest’assenza di sentimento
eudemonico, l’autore ci trasmette il valore della felicità, come
quell’emozione che alimenta la vita, che dà all’esistenza il
senso d’essere vissuta. C’è tutto un linguaggio sulla felicità
in questi racconti.
“Descrivere la felicità, niente è più difficile (…) e poi…
e poi la sofferenza ti sembra particolare, unica in un certo senso,
la felicità no, si somiglia sempre, è uguale a quella degli altri.
E’ semplice, elementare, banale, se si vuole”.
Così scrive Sansa nel primo racconto, intitolato appunto Parole,
parole che uno scrittore di dizionari pronuncia a se stesso nell’ossessione
di voler definire tutto, in particolar modo la felicità. Ma egli
stesso non si ritrova nella sua definizione, che riconosce banale,
quando si trova ad affrontare un ladro, un albanese che si è
introdotto in casa sua per rubare.
L’uomo si trova di fronte a una realtà umana profondamente
diversa, priva di schemi esistenziali abitudinari e logoranti come
quelli che affollano la sua vita. E’ costretto a difendere questa
vita in un modo che non conosceva, con la forza del sentimento e del
corpo. In quel momento egli vive la felicità, l’armonia di
sentire se stessi, la voce della propria coscienza che ha smesso di
punirsi in forme d’esistenza passive e mortificanti.
Così ne Il Trasloco, una donna oramai arresa a una vita in
cui la felicità è solo un ricordo, un frammento dell’esistenza
perduto nel tempo, scalfito dall’abitudine allo star sola, senza
amore. Ebbene, attraverso l’osservazione e l’ascolto delle
consuetudini, spesso abbandonate per eccessi di vitalità dei suoi
vicini di casa, riscopre il desiderio di amare, di apprezzare la
propria esistenza di donna.
“Se suonava il campanello potevo aprirgli la porta già con la
felicità sulla faccia. (…) Ma la felicità passata, finita, non
può essere capita. Nemmeno da chi l’ha provata. E’ impossibile
salvarla nel ricordo, al massimo puoi conservare gli elementi che la
componevano, ma ciò che li riuniva in un unico stato d’animo va
perso”.
I personaggi di Sansa vivono in un’attesa continua che qualcosa
cambi, che qualche crepa si apra nella loro esistenza amorfa per
lasciar entrare la luce della felicità. Vi è quindi una condizione
di speranza che allaccia le storie tra di loro e che in qualche modo
colma il vuoto della felicità. Ma è una speranza che è quasi un
indugio, una sosta perenne.
La felicità intravista o vissuta nel passato, non è mai sostenuta
dalla volontà di essere felici, piuttosto dall’impossibilità, di
poterla vivere. Una rassegnazione che conduce alla non definizione
della felicità. La coscienza dei personaggi di Sansa è confusa nel
definire la felicità, la descrive per frammenti, fugaci momenti di
consapevolezza che sembra quasi non abbiano diritto di esistere a
lungo. Ma da questa frammentazione emerge il vero senso della
felicità, che sta nel vivere in armonia con il proprio io, con i
propri conflitti, con la propria infelicità; che sta nel vissuto
quotidiano carico di significato e di presenza di se stessi; che sta
nel riconoscimento della bellezza nella diversità che la vita ci
propone di giorno in giorno. Se ci fossimo parlati per
mettere fine a quella distanza tra noi e il mondo, tra noi e gli
altri che è causa di infelicità.
Così, in questi racconti emerge proprio la felicità che affiora da
quel vuoto che a tratti e con vigore vuole essere colmato attraverso
il linguaggio, la parola non vana di una coscienza consapevole.
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