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Il giudicare e l’idea di giustizia


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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

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Professor Ricoeur, la virtù della giustizia, grande ideale stabile e unitario di Platone, viene di fatto “smembrato” da Aristotele. È corretto affermare che la concezione aristotelica della virtù segni un passo indietro, qualcosa come un regresso, rispetto all’impostazione platonica?

In un certo senso, è proprio così. Di fatto, Platone aveva concepito la giustizia come una «virtù totale» che doveva preservare l'armonia dell'anima individuale nelle sue diverse attitudini, ma anche l'armonia della polis nelle sue varie componenti. La sua grande idea era effettivamente quella di stabilire una correlazione, cioè una similitudine o un'omologia tra le tre parti che costituiscono l'animo umano - la parte razionale, quella del sentimento e quella del desiderio - e le consorterie dei cittadini, distinti anch’essi in tre classi: magistrati, militari e lavoratori. Si trattava evidentemente di una grande idea, ma Aristotele, per venire alla nostra questione, ha tentato piuttosto di considerare la giustizia come una virtù tra le altre. Avremo forse modo di vedere, in questa nostra discussione, che tale decisione si ispirava indubbiamente a una certa saggezza pragmatica, cioè nella presa di coscienza del fatto che la giustizia non può coprire tutti gli aspetti della realtà come insieme delle relazioni, del «buon vivere sociale», che sarà di fatto un filo conduttore della nostra conversazione.

Ma la genialità di Aristotele, circa la sua teoria della giustizia, è consistita anche nel cogliere la «medietà» del giusto, il suo trovarsi lontano dagli estremi, basandosi in parte sull'esempio della teoria matematica delle proporzioni. A questa concezione della giustizia si collegata poi la distinzione fra una giustizia distributiva e una giustizia correttiva - quella che, più tardi, gli Scolastici medievali chiameranno «commutativa». Tuttavia, si tratta di concetti non del tutto perspicui. Ci vuol spiegare in particolare la distinzione menzionata fra una giustizia distributiva ed una commutativa?

Certamente. Riallacciandomi a quanto detto prima, Aristotele ha voluto delimitare un campo specifico, in cui la giustizia acquista un senso rilevante e incisivo,  che si occupa di tutti i casi in cui si può parlare di uguaglianza tra le parti - cioè di parità tra il delitto e la punizione, e così via. Si tratta dell’idea di una sorta di rapporto matematico, di simmetrica corrispondenza. Faccio notare - per inciso - che tutti i filosofi di cui parleremo hanno pensato di trovare nello status delle scienze matematiche del loro tempo uno strumento “didattico”, un termine di paragone per far comprendere ciò che essi intendevano per giustizia. Ciò è ben comprensibile, dal momento che dentro l'idea di giustizia c’è l'idea di misura. Occorre infatti un metro di valutazione tra i beni che si scambiano, o tra un danno arrecato e la relativa punizione, e questa idea di misura ha in sé qualcosa di matematico.

L'intenzione di Aristotele era quella di applicare la teoria delle proporzioni: egli non ha soltanto limitato la sfera di applicazione della giustizia al campo in cui si può parlare di «isotesi» o di equivalenza, ma lo ha smembrato in due per meglio precisare in quali ambiti si può parlare di giustizia e in quali no. Si trattava di due domini ben distinti: in primo luogo quello pubblico, in cui lo Stato - la polis - distribuisce i ruoli, le funzioni, gli onori ma anche gli oneri sotto forma di imposte o di tributi cui contribuire in un modo o nell’altro: qui sussiste una giustizia «distributiva», che deve cioè assegnare la giusta parte a ciascuno ed esigere da ciascuno il giusto contributo, non applicando un criterio di uguaglianza matematica, bensì di equivalenza proporzionale. Vale a dire che, se un magistrato ad esempio riceve una parte più grande nella distribuzione, tuttavia il rapporto tra i suoi introiti e i suoi meriti deve essere equivalente - fatte le debite proporzioni - al rapporto che passa tra la parte data a un cittadino di condizione inferiore e il suo specifico contributo. In qualche modo, dunque, si poteva mantenere l'idea di uguaglianza, sebbene vi fosse disuguaglianza delle ricompense, ma in un rapporto proporzionale: il primo sta al secondo come il terzo sta al quarto, secondo la nozione di «proporzione» allora scoperta dalla Scuola matematica. Questo principio diventava così basilare nell’ambito del «diritto pubblico».

In secondo luogo, però, doveva esservi un «diritto privato», per gli scambi, per le attività del vendere e del comprare, e Aristotele compie qui un accostamento che, per noi, risulta quasi una forzatura, tra la compravendita, che è privata e che egli chiama «giustizia negli atti volontari» (volontari dalle due parti) e, d'altro canto, la punizione. Può infatti apparire singolare l'aver messo sullo stesso piano la compravendita e la pena da infliggere... Ma l'idea era che la pena dovesse essere uguale al torto arrecato: esattamente come la parte che si cede (in un contratto), la quale dev’essere uguale alla parte che si riceve. E' dunque possibile una giustizia aritmetica, nella sfera privata, in cui le parti sono uguali. E invece, nella sfera pubblica, distributiva, le parti sono diseguali in quanto proporzionali. Tornando ora alla nostra prima osservazione, è interessante notare che la giustizia non solo agisce in un campo delimitato ma, probabilmente - come vedremo più oltre - non può dirsi nemmeno unitaria: vi sono infatti diversi principi di giustizia e, forse, non si può unificare completamente il campo giuridico in generale. In ogni modo, partendo dall’impostazione aristotelica - ripresa poi dagli Scolastici con la distinzione tra giustizia distributiva e commutativa - possiamo utilmente tener fermo, a livello orientativo, che il Diritto pubblico ha un carattere «distributivo», e che nel privato opera una giustizia «commutativa».

Spesso si confondono giustizia ed equità, o perlomeno non si distinguono chiaramente. Tuttavia non si tratta della stessa cosa, e Aristotele le distingue bene. Ci può spiegare le ragioni di questa distinzione tra «giustizia» ed «equità»?

Non mi addentrerò nelle discussioni tecniche e specialistiche di Aristotele circa il quesito «se si tratti di un altro tipo di giustizia», in qualche modo una “terza giustizia”. Per conto mio, sarei più favorevole a quelle interpretazioni secondo cui, in fondo, l'equità sarebbe una sorta di coronamento o di meta della giustizia, piuttosto che un'aggiunta o una qualità specifica. Ciò vuol dire che bisogna rendere la giustizia umana. E proprio qui dietro a me si vede questa magnifica raffigurazione del Giudizio di Salomone che bene si addice a illustrare il paradosso della giustizia astratta: tagliare il bambino a metà. Due persone reclamano lo stesso bambino: «Ebbene dividetelo in due metà, una per ciascuno…», è il giudizio di Salomone: ci si accorge qui dell'assurdità, e che la giustizia effettiva consiste invece nel dare il piccolo alla madre legittima, riconosciuta per la sua reazione emotiva: essa corre verso il bambino, non vuole che la sua salvezza, pronta a rinunciare al suo possesso. Ecco, credo che questo sia un esempio di equità. Poiché l'equità consiste appunto nel non seguire ciò che, a prima vista, sembra essere il giusto - dividere il bambino in due - e invece dare ascolto al sentimento, o a un profondo istinto. I latini dicevano anche «summum jus, summa injuria», intendendo con ciò che un eccesso di Diritto produce una nuova ingiustizia: “troppa giustizia” fa il paio con l'ingiustizia. Per questo, l'equitá riconduce la giustizia nelle norme umane, ci avverte che, dopo tutto, sono gli uomini che esercitano la giustizia, che anche i giudici sono uomini come noi e che, per conseguenza, hanno i sentimenti, e che si devono lasciar parlare i sentimenti per correggere ciò che vi è di astratto nella lettera delle Leggi le quali, se applicate meccanicamente, risulterebbero infine disumane.

Un problema ricorrente, nella storia della filosofia, è poi quello della distinzione tra Diritto e Morale. Kant stesso si e’ molto arrovellato su questo problema, che si ripercuote anche sul concetto di Giustizia. Che cos'è, per Kant, la Giustizia? Fa parte del Diritto o della Morale?

Questo è un problema che certo ritornerà nel nostro discorso, ma - credo - in senso inverso, con Hegel, che parla del Diritto astratto e della giustizia che deve andare verso la morale in quanto investe la sfera della persona umana, o quanto meno di ciò che più strettamente è marcato dalla coscienza. Kant, al contrario, affronta il problema dal versante opposto, avendo dato prima la sua risposta sulla Morale nella Critica della Ragion Pratica, definendo la morale rispetto al senso del Dovere, e il Dovere è, essenzialmente, che la massima di un agire possa essere universalizzata: questa è l'essenza stessa del Dovere. Tuttavia, posso avere due diversi atteggiamenti verso il dovere: considerarlo puramente una regola da osservare o invece onorarlo perché riconosco che, così facendo, rispetto l'altro. In questo caso, compio il dovere per una ragione interiore, ma se lo faccio semplicemente in ossequio a una norma esterna, vengo a trovarmi immediatamente nel campo giuridico: poiché il campo giuridico comincia proprio laddove obbediamo a delle leggi che ci sono inevitabilmente “esterne”. E questa esteriorità del campo giuridico rispetto alla morale è propriamente il problema di Kant, poiché, avendo orientato la sua opera preminentemente verso l'interiorità, trovava, nel Diritto, una sorta di «scandalo» (quello di fondarsi sulla coercizione, sulla “paura del gendarme” o sul timore del tribunale). Il Tribunale ci è esterno, mentre la coscienza è una sorta di tribunale interno. Il problema, per Kant, si pone dunque in questo passaggio dall'interiorità all'esteriorità delle Istituzioni, e le difficoltà che incontra sono comprensibili: come giustificare, infatti, il rapporto esterno con la legge, in una filosofia che si basa essenzialmente sull'interiorità della legge?

Interno/esterno, privato/pubblico: la giustizia, di solito, si riconduce a una sfera Pubblica. Ma la giustizia - per Kant - riguarda anche la sfera privata, essendo intrecciata ai problemi della proprietá e della sicurezza, e giocando un grosso ruolo all'interno del Diritto Privato.

Sì, ed è interessante notare come, sotto l'influenza dell'individualismo borghese del XVIII secolo, il problema del «contratto» in materia di proprietà privata diviene il luogo principale della riflessione sulla giustizia. Aristotele, invece - se si può fare un paragone - poneva al centro la comunità che distribuisce cariche e onori. Anche Kant tratta del rapporto con le cose, la giustizia nel rapporto con le cose. Ciò rispecchia lo stato generale dei costumi, sedimentatosi nel secolo XVIII con l'individualismo borghese, che fa della proprietà la questione fondamentale del Diritto. Si tenga presente che siamo in un'epoca in cui non è ancora invalsa l'idea che è il lavoro a produrre la ricchezza - è un'idea che verrà sviluppata soltanto nel XIX secolo, a cominciare dagli economisti inglesi e poi da Marx - ma in questo periodo la proprietà fondiaria costituisce, al tempo stesso, il segno distintivo del rango. Si potrà ben dire che la proprietà è "sopravvalutata", ma vorrei precisare, se non altro per rendere giustizia a Kant, che egli non considera solamente la proprietà materiale delle cose ma, molto più in generale, la distinzione del «mio» e del «tuo». E qui sorge un problema importante, poiché - come del resto era stato compreso dai Greci, da Platone, da Aristotele - la nostra indipendenza, la nostra libertà, dipendono anche dalle cose materiali esterne. E senza queste cose esterne, la libertà diventa pura astrazione, e i diritti che alla libertà fanno riferimento restano semplicemente ideali. Soltanto disponendo di cose si ha una base per la libertà, un punto d'appoggio che è - in qualche modo - prima di tutto materiale. In un certo senso, si potrebbe dire che vi è un «materialismo della libertà» che compare con Kant e si pone al posto giusto.

L'idea di Kant non è quella della comunità: è il principio del ben distinguere «ciò che è mio» da «ciò che è tuo». E la giustizia, pertanto, è distributiva solo in questo senso: che essa separa il «mio» dal «tuo» e ne delimita i contorni. Quindi, tornando alla nostra idea delle cose, degli oggetti esterni, è sufficiente, per Kant, che il Diritto risolva tale specifico problema, poiché quello della giustizia non è, per l'appunto, il problema della morale, cioè non è quello di rispettarci reciprocamente, di partecipare al sodalizio di ciò che egli chiama «il regno dei fini» - vale a dire una società nella quale saremmo, al tempo stesso, i governanti e i governati, i legislatori e i sottoposti alle leggi - ma semplicemente quello di farci convivere pacificamente gli uni con gli altri. In questo senso forse, si potrà rimproverare a Kant di aver troppo piegato l'idea di giustizia all'idea di proprietà e, inoltre, di averne limitato l'esercizio all'ambito delle relazioni esterne delle persone, e il genere specifico dei rapporti interpersonali esige soprattutto di stabilire ciò che mi appartiene e ciò che ti appartiene, di discernere e di distinguere il «mio» dal «tuo». Non è compito della Giustizia accomunare gli uomini nel loro «vivere insieme» - dicevo poc’anzi che è forse una nostra utopia del «vivere bene insieme» - e Kant non intende risolvere questo problema: vuole solamente risolvere il problema preliminare di una società pacifica, in cui gli uomini si rispetterebbero in quanto rispettano i limiti dei loro diritti, che tuttavia sono esterni agli uni e agli altri.

Professore, la giustizia è un modo di regolare i rapporti umani antitetico alla violenza, e Kant affronta esplicitamente questo problema. In che senso si può dire che la giustizia sia un sostitutivo, almeno per certi aspetti, della violenza, seppure su un piano più elevato?

Avevamo detto poc'anzi che si passa dalla morale alla giustizia quando vi è un tribunale, e il tribunale implica costrizione. Kant ha cercato di giustificare la coercizione - il che sembra molto estraneo, per così dire, all'orientamento generale della sua filosofia, che privilegia piuttosto i motivi interiori dell'obbedienza. Ma perché questo? Ebbene, quando leghiamo il nostro destino al possesso di un certo numero di cose, come accade comunemente, ci poniamo inevitabilmente sotto la minaccia che il violento venga a separarci dalla nostra proprietà, e allora a questa violenza si oppone la controviolenza della società. Insomma, la violenza della punizione corregge - ecco la nozione di «correttiva» - la prima violenza che era stata compiuta a nostro danno. Personalmente, direi che, avendo legato in definitiva Essere e Avere, l'avere è minacciato, e tale minaccia comporta la possibilità della violenza dell'Altro. E la società, in quanto protezione e garanzia dei diritti, tutela in fondo la nostra sicurezza. Siamo cioè, esclusivamente nella sfera della «sicurezza»: poiché il centro del Diritto è la proprietà, dunque il centro della giustizia è la sicurezza. Del resto, Kant ha voluto distinguere tra la violenza propriamente detta, che è violenza contro ciò che è «mio» e ciò che è «tuo», e la coercizione che è prerogativa del tribunale. In qualche modo, ha inteso tracciare una linea di demarcazione tra la coartazione legale, che è legittima, e la violenza, che è illegittima. Ed è una frontiera molto fragile, come peraltro ha osservato Hegel.

Quindi  c’è una frontiera molto fragile tra la violenza tout court e la sorta di controviolenza, di costrizione, della giustizia. Comunque di fronte allo spirito di vendetta, alla prevaricazione, alla prepotenza, all'uso indiscriminato della forza, la giustizia cerca di imporre la propria voce, che è una voce più alta. Per fare questo si deve trasformare di fatto in coercizione; esercitare la giustizia può voler dire comminare pene: esercitare, appunto una sorta di violenza. Su questo tema, Hegel ha sviluppato un'intera concezione del Diritto Penale. Ce la può illustrare, in breve?

Hegel prende inizialmente le mosse da Kant, ma ne corregge fondamentalmente il tiro, affermando che questo Diritto astratto - che protegge la mia proprietà dall'aggressione dell'altro - non è che il livello più basso in cui la Comunità si esprime. Ritengo che l'apporto maggiore di Hegel sia quello di aver stabilito una gerarchia di valori tra il Diritto astratto puro e semplice, saldamente legato alla proprietà, e l'istanza interiore, che appartiene alla morale. E, rovesciando il rapporto stabilito da Kant - con il passaggio dalla morale al diritto - Hegel si pone piuttosto il quesito di come passare da un diritto, che è affatto esterno alle persone, alla morale che è puramente interiore e, infine, alla Comunità. Il percorso da compiere è molto interessante: dal Diritto astratto all'interiorità morale, e quindi alla Comunità che, per lui, consiste nella vita politica. E tuttavia - se rapidamente arriviamo alle conclusioni dell'opera di Hegel - occorre dire che la comunità politica rappresentata dallo Stato - che è poi uno Stato liberale e non totalitario - è quella in cui gli uomini, anziché essere esterni gli uni agli altri, separati gli uni dagli altri, sono riuniti e associati da un progetto comune, hanno in comune un progetto che si inscrive in una Costituzione.

Se quindi si considera la prima parte dei Fondamenti della Metafisica del Diritto nella prospettiva della fine del libro, ci si accorge che quanto vi è detto circa il «diritto astratto» risulta poi in difetto - per così dire - rispetto al messaggio principale della Filosofia del Diritto, poiché è nella Società Politica che l'uomo realizza la Comunità: non vi è Comunità di sorta sul piano giuridico. Sul piano squisitamente giuridico, vi è soltanto il Contratto, e Hegel del resto, più di Kant, ha dato rilevanza all'idea di «contratto». Infatti, mentre Kant aveva posto una distinzione tra il diritto sulle cose e i diritti concernenti le persone, per Hegel i due aspetti si integrano poiché, in un contratto, abbiamo due persone in rapporto tra loro, ma a proposito di una cosa: la cosa posseduta fa da intermediario tra due volontà, così come la seconda volontà è intermedia tra la prima volontà e la cosa. Si costituisce un triangolo, insomma, tra una persona, l'altra e la cosa. E allora la giustizia interviene, effettivamente, per assicurare il buon funzionamento dei contratti, ed è qui che ritroviamo il tema della violenza e della controviolenza legale. Ma fin qui, vi è, non dirò la “riprovazione” di Hegel, ma quanto meno la sua indicazione che non siamo ancora entrati nel vero problema umano, che è quello di accettarsi reciprocamente, nel riconoscimento vicendevole tra uomo e uomo e nella costruzione di un progetto politico comune, che si iscriva in una Costituzione.

Il concetto di «pena» presenta dei limiti, se non delle vere e proprie contraddizioni interne?

E' perfettamente vero. Ma ciò non vuol dire che questo livello - per così dire - non sia importante. Altrimenti Hegel non avrebbe incluso, di necessità, il «diritto astratto» nella sua grande Filosofia del Diritto, in cui conferisce alla parola «Diritto» - a giusto titolo - un significato immenso. Nella sua concezione, il diritto abbraccia tutto l'insieme dei rapporti umani con i quali si accede a una comunità sociale e politica. Occorre distinguere i vari livelli: i diritti dei privati, esterni alle persone, ossia il passaggio obbligato dell'esteriorità per entrare poi nel regno dell'interiorità, che è quello della Morale, e arrivare infine non già a un'altra esteriorità, ma a una Comunità, nel senso di un «essere in comune». E a me pare ammirevole questo movimento della Filosofia del Diritto di Hegel, che indica il passaggio dall'esteriorità  giuridico-giudiziaria all'interiorità morale per arrivare al livello propriamente politico. Vi scorgo in effetti un itinerario verso la libertà, la quale si realizza a partire dalla sicurezza, poggiando in primo luogo sulle cose, e compiendo poi un passo ulteriore interiorizzandosi, divenendo convinzione interiore e dunque coscienza morale. Infine, essa fa un ultimo passo incontrando altre libertà in un unico progetto, che sarà il progetto di uno Stato.

Oggi vi è un pensatore americano, John Rawls, che ha ripreso, in grande stile, le teorizzazioni classiche sulla giustizia. Ce ne può illustrare in breve le posizioni, e anche quelli che, secondo lei, sono i limiti della sua impostazione?

Il grande libro di Rawls degli anni settanta, intitolato A Theoy of Justice, ha forse più significato nel mondo anglo-sassone che nell'Europa Occidentale, e - direi - per due buoni motivi: perché la Giustizia non funziona allo stesso modo nella tradizione della Common Law britannica, dove il giudice ha un potere di iniziativa molto più ampio che da noi. È infatti il giudice che, in qualche modo, “fa la legge” sulla base dei casi concreti, e il diritto si costituisce per accumulazione delle sentenze che divengono via via giurisprudenza. Vi è il problema di quali possano essere i principi informatori di una produzione del Diritto costantemente ampliata dalla giurisprudenza. Ma la cosa non ci riguarda, poiché abbiamo la tradizione del Diritto Romano che è molto più vincolante nei confronti del giudice. Direi che l'unica parte del nistro Diritto che potrebbe accostarsi alla Common Law britannica è la legislazione sociale, poiché tutto il Diritto in materia sociale, che si è affermato soprattutto dopo la fine della II guerra mondiale, avendo fatto i primi passi prima del conflitto, segue un processo di continuo adeguamento alle condizioni dello sviluppo economico: la previdenza sociale, le diverse forme di ripartizione degli oneri in un quadro produttivo, le provvidenze per alleviare o controllare la disoccupazione, le pensioni di vecchiaia, le assicurazioni per le malattie, l'invalidità e via dicendo. Si tratta di un’immane legislazione sociale e per esempio in Francia - mi si è fatto notare recentemente - il bilancio della Sécurité Sociale arriva a superare la mole del Bilancio dello Stato.

Vi è dunque un campo di indagine immenso da occupare, e Rawls può coprire sia il diritto sociale europeo e sia tutto l'insieme giuridico tipico del mondo anglosassone. Ma noi tendiamo a vederne soltanto la seconda parte, poiché il campo della «creazione del diritto» nelle aule del tribunale, da parte del giudice, non costituisce per noi una consuetudine del tutto comprensibile; e ritengo sia questa la natura dei malintesi che possono sorgere nella lettura dell'opera di Rawls, che viene considerato - mi sembra - piuttosto un pensatore e teorico della socialdemocrazia. E certamente lo è per quanto, dal suo punto di vista, potrebbe non essere un difetto. Nell'insieme delle posizioni politiche americane, si troverebbe alla sinistra dell'area liberal mentre, per noi, questa «sinistra dei liberals» sarebbe piuttosto, non diciamo la destra, ma un centrodestra. Tutto ciò è fonte di grossi malintesi, ma vorrei precisare tre punti a proposito di Rawls, e non tanto per difenderlo, quanto per rendergli giustizia: anzitutto l'idea, cui annetto una grande importanza, che una società può essere vista nel suo insieme - sotto il profilo del diritto pubblico, come anche del diritto privato, commerciale, sociale e via dicendo - come un vasto sistema di distribuzione non distribuzione di cose, ma di ruoli, e che, se una società è un sistema di distribuzione dei ruoli, poiché vi sono molti modi di distribuirli, una società è di per sé problematica. In effetti, non vi è un solo modo di distribuire, non soltanto le cose dopo averle prodotte, ma altresì i ruoli nell'ambito della produzione stessa. Ecco, mi sembra notevole questa prima idea che, in una società considerata come un sistema di distribuzione, vi è un problema fondamentale: quello della giustizia, ossia di un'etica della distribuzione dei ruoli.

La seconda idea di Rawls, che mi pare di tutto rilievo, è quella di aver diviso in due il principio di giustizia - e dopo tutto non è il primo a farlo, poiché già Aristotele parlava di due giustizie, quella distributiva e quella correttiva, che poi gli scolastici medievali diranno «commutative». Ed è quella giustizia distributiva che Rawls scinde in due principi di giustizia: l'uno è il principio egualitario (l'eguaglianza di tutti davanti alla legge: che la legge non fa eccezioni per nessuno, e sia il povero che il ricco, se hanno commesso un reato, devono pagare ugualmente e ricevere lo stesso trattamento in sede giudiziaria. E anche se non sempre avviene nella realtà, questo è il senso di giustizia). Ma vi è poi un secondo principio di giustizia, che egli chiama peraltro «principio di differenza», fondato sulla constatazione che non esistono società egualitarie: tutte le società che noi conosciamo sono, in qualche modo, inegualitarie, con i ricchi e i poveri, gente che ha il potere e gli altri che non ne hanno affatto, e in esse di conseguenza la distribuzione è ineguale. Il problema era dunque, per lui come del resto lo era stato per Aristotele, come introdurre un principio di giustizia in una distribuzione diseguale. E il principio che egli formula è il seguente: il sistema della distribuzione più giusto sarà quello in cui ogni aumento dei vantaggi dei più sarà compensato da una diminuizione degli svantaggi dei meno favoriti. Ciò che a mio avviso, conferisce forza morale al principio è che si prende in considerazione il punto di vista e l'interesse dei più sfavoriti per regolare il problema della distribuzione. Se ci si chiede ad esempio quale sia il miglior sistema di ripartizione delle imposte in una nazione, occorre domandarsi in primo luogo quali oneri graveranno sui più sfavoriti. Il terzo punto, in cui vedo tuttavia l'apporto più discutibile di Rawls, è di aver pensato di poter correggere - come ho già detto - la diseguaglianza, limitando il danno per i più sfavoriti, riprendendo però la tradizione contrattualista.

Lei ha scritto che Rawls sostituisce una concezione puramente procedurale della giustizia alla fondazione etica della giustizia. Che cosa intendeva dire con questa interpretazione?

Si tratta del terzo punto cui alludevo poc'anzi. Il primo era  considerare la società nel suo insieme come un grande sistema di distribuzione e il secondo  introdurre un principio di giustizia nella diseguaglianza che la rende accettabile come ciò che è più conveniente per i meno favoriti. A questo proposito, ha immaginato una situazione ideale, in cui ignoreremmo se saremo i più avvantaggiati o i più svantaggiati, e l'ha definita «il velo d'ignoranza»: supponiamo che io debba trattare con Lei, stabilire per contratto la costituzione di una società. Per essere un buon contraente dovrei ignorare se in definitiva sarò avvantaggiato o svantaggiato, dunque mi pongo - come egli dice - «sotto un velo d'ignoranza» in quanto ignoro quale sarà effettivamente la mia sorte: finirò tra i più sfavoriti o tra i più favoriti? Sotto questo velo d'ignoranza mi pongo nella condizione di un essere razionale che può trattare con l'altro senza tener conto del proprio interesse personale. Lei mi chiederà quale sia la portata di questa nozione originale e che trovo assai seducente, poiché quest'idea del «velo d'ignoranza» è abbastanza nuova nella tradizione contrattualistica o piuttosto, se si vuole, era in certo qual modo implicita… ad esempio, quando Rousseau scrive nel Contratto Sociale che «io alieno alla volontà generale la mia volontà particolare».

Questo atto di «alienazione» è un modo di fare astrazione del proprio diritto «selvaggio» in un certo senso, e quindi di porsi sotto un velo di ignoranza che, in altri termini, vuol dire: adottare il punto di vista della volontà generale, trascurando completamente la propria volontà particolare. Rawls ne ha fatto poi un sistema complicato, che comporta un'astrusa dissertazione su ciò che si deve, o non si deve, ignorare. Ma, in fondo, devo pur sapere qualche cosa di concreto, altrimenti non avrei un appiglio per discutere i termini del contratto. È qui il problema, l'obiezione sollevata dagli epigoni della scuola di Francoforte, in primo luogo da Jürgen Habermas, che il velo d'ignoranza sopprime il conflitto e che, tolto il conflitto viene a mancare l'oggetto stesso del contratto. Non può esservi contratto se non abbiamo opposti interessi, e se ci siamo posti sotto il velo d'ignoranza ignoreremo il nostro interesse e dunque anche il nostro svantaggio.

A questo punto, sussiste ancora un oggetto del contratto? Habermas ritiene che bisogna allargare di molto il discorso e passare per un'etica della discussione, in cui si possa valorizzare l'argomentazione, di modo che quella più valida prevalga su quella meno valida. Non dico che questo non ponga altre difficoltà: che cos'è una buona argomentazione, qual è l'argomentazione più valida? Ma si potrebbe dire, ad ogni modo, che Rawls sopprime il momento dell'argomentazione in quanto ha soppresso il momento della contraddizione, del conflitto. Sostituendolo con che? Con un argomento di tipo matematico, mutuato dalla teoria dei giochi - già alcuni economisti lo avevano fatto - il principio che è detto in francese, di «maxi-mini», in base a cui si massimizza la parte minimale. Per ben comprendere questo concetto che è complicatissimo, occorre premettere che l'avversario di Rawls in tutta questa discussione è un avversario che non esiste da noi in Europa occidentale, ma che è presente nel mondo anglosassone, vale a dire l'utilitarismo.

Diciamo che l'utilitarismo non gode presso di noi di una buona reputazione e come dottrina è persino inesistente. Invece nel mondo anglosassone, com'è noto, è una dottrina molto forte, la quale postula che è giusta quell'istituzione che massimalizza l'interesse dei più. Dice Rawls: «In base a questo principio ci sono delle vittime, che pagano per l'interesse dei più, vi è una minoranza condannata». Egli si pone appunto il problema di tener conto delle vittime anche se il sistema utilitaristico crea le sue vittime, facendo s“ che non sappiano di essere tali. Mentre, secondo Rawls, ponendosi dal punto di vista del più svantaggiato nella ripartizione dei benefici, non si massimizza l'interesse di tutti, ma si massimizza la parte minimale. Mi permetto di far notare ancora una volta che - come dicevamo all'inizio - i grandi teorici del diritto hanno sempre avuto un interesse per la matematica: troviamo in Platone il principio d'armonia, connesso alla riflessione sulle proporzioni e sulla musica - nel Timeo in particolare la divisione delle linee, la divisione armonica; in Aristotele l'idea di eguaglianza proporzionale; in Pascal la scommessa, in cui si serve del calcolo delle probabilità; in Leibniz il principio con cui cerca di giustificare l'esistenza del male nel mondo - che definisce come il migliore dei mondi possibili, e che secondo lui sarebbe quello in cui viviamo - principio per cui si ha un massimo degli effetti con un minimo di costi, il guadagno massimo con la minima spesa. In fondo il principio di Rawls è lo stesso, ma applicato nel suo caso non più, come in Leibniz, all'ordine del mondo, bensì alla ripartizione dei compiti, dei vantaggi e degli svantaggi in una società.

Il principio di «maxi-mini» è sufficiente a fondare una giustizia? O Rawls non ha piuttosto voluto colmare un'assenza, se vogliamo, del bene comune con una semplice procedura, quella che consiste nell'accordarsi sulle regole della ripartizione, pur senza concordare sulle cose stesse, su ciò che è bene e su ciò che è male? Peraltro ho avuto modo di confrontare la mia interpretazione con lo stesso Rawls, nel corso di un dialogo avuto con lui a Parigi, in occasione della pubblicazione della versione francese di A Theory of Justice, e ho fatto riferimento al paragrafo 4 del suo libro, che mi permetto di citare qui, in cui dice che in fondo anche l'argomento più sottile dev'essere più o meno conforme a ciò che abbiamo definito giusto o ingiusto, ed è ciò che egli definisce un «equilibrio» tra il sentimento naturale della giustizia e il calcolo più sofisticato dei teorici. Bisogna che vi sia fitness, com'egli dice, ossia adattamento. Io tenderei a dire che l'argomento del «maxi-mini» non sostituisce il nostro senso della giustizia e soprattutto non lo fonda, ma lo razionalizza, permettendoci di correggere i nostri pregiudizi, in particolare verso le vittime del nostro sistema di diseguaglianza, soprattutto nell'economia di mercato, nelle società capitalistiche, ma anche in quelle socialiste. Sono convinto che i nostri sistemi creano delle vittime e che «interrogare la vittima» è il primo senso della giustizia. Tenderei a dire che ciò che vi è di più profondamente umano nell'idea di giustizia è di limitare al massimo la produzione di vittime nella storia, di liberare l'umanità da questa proliferazione di ingiustizia, che è il prezzo da pagare per lo splendore di una società, per i grandi traguardi, anche tecnologici. Vi è un prezzo crescente da pagare in vittime dello sfruttamento, per esempio oggi a carico del Terzo Mondo, per i successi del primo e forse anche del secondo mondo. Dunque colgo in Rawls quest'idea: che il senso della giustizia imponga di porsi dal punto di vista dei più svantaggiati.

La giustizia è un ideale, un punto di riferimento perenne dell'umanità, un'aspirazione che probabilmente è sempre sussistita. Ma il mondo, la realtà sembrano sempre molto lontani da quell'ideale. Si può dire che oggi viviamo in un mondo più giusto rispetto al passato? Si può affermare che c'è un «progresso» nella giustizia?

Le risponderò che, paradossalmente, c’è un progresso della coscienza della giustizia, ma al tempo stesso un progresso dell'ingiustizia, e una cosa va con l'altra. E' infatti vero che attraverso la nostra cultura greco-latina e giudaico-cristiana, attraverso il Rinascimento, la Riforma, l'Illuminismo, e le grandi rivoluzioni socialiste del XIX e XX secolo abbiamo affinato il nostro senso della giustizia, e direi che c'è stato un progresso in questa direzione, una maggiore intolleranza verso l'ingiustizia. Ma possiamo ugualmente dire che vi sia stato un progresso della giustizia effettiva? Esiterei molto prima di rispondere. Io mi chiedo se i guasti del sistema del benessere, del sistema della società dei consumi, non siano più pesanti per noi oggi di quanto non siano mai stati in passato. Si dà il caso che, in un recente colloquio che organizzato a Napoli su Etica e politica, io abbia terminato il mio intervento dicendo che viviamo in una società che ha un rapporto ambiguo prima di tutto con se stessa, poiché per un verso valorizziamo le indubbie acquisizioni della civiltà materiale - vi sono molti più beni disponibili per un maggior numero di persone, vi è prosperità più diffusa e abbondanza - ma per un altro verso non siamo soddisfatti di questa società. Ed è abbastanza singolare che siamo forse la prima società nella storia che detesta il proprio successo e che, in ogni caso, lo mette per lo meno in questione.

Noi viviamo nel regno della tecnocrazia, in cui non solo le cose, ma anche le persone vengono «amministrate», con l'aumento delle ineguaglianze, la manipolazione del linguaggio ad opera dei media, gli inquinamenti di ogni genere, da quello delle automobili e degli scarichi industriali a quello emotivo e spirituale, viviamo in una società del desiderio senza fine, in cui il successo individuale tende a oscurare l'ideale del «vivere bene insieme». Vorrei pertanto ritornare su quella nozione da cui ero partito, e che per me è l'idea morale per eccellenza - o l'idea etica, se preferisce: la parola «morale» è un po' sospetta - quella del «ben vivere insieme», in cui l'idea di giustizia si associa, a me pare, ad un senso molto più vivo della comunità che non quello della tutela dei propri diritti. Probabilmente il limite dell'idea di giustizia si trova in questa espressione: «datemi ciò che mi è dovuto, tutto ciò che mi è dovuto, niente altro che ciò che mi è dovuto». A mio avviso, la «condizione» e la «convivialità» stanno più in alto dell'idea di giustizia, pura e semplice.

Giustizia e diritto non vanno sempre d'accordo. Ci può essere infatti una legge non giusta, e questo è evidente: basti pensare al nazismo, un sistema politico in cui molte leggi erano contro la giustizia e anche contro l'umanità. Ma la giustizia, allora, dove si deve collocare? È solo un concetto morale? E dobbiamo rinunciare all'idea di una qualche “coincidenza” tra giustizia e diritto?

La sua domanda coglie certamente un paradosso che fa parte della nostra realtà umana e finita. Voglio dire con questo che da una parte c'è l'idea di giustizia, dall'altra le leggi scritte proprie dei diversi paesi e delle rispettive legislazioni nazionali. Dunque, abbiamo in qualche modo due concetti di giustizia: da un lato l'ideale di giustizia di cui parla la filosofia del diritto, dall'altro la giustizia legata al diritto positivo. Si definisce diritto positivo quello che è iscritto nelle leggi. Di fatto, ci possono essere leggi giuste, nel senso che certi atti sono dichiarati giusti se risultano conformi a quelle leggi, ma queste a loro volta possono essere ingiuste se considerate non più nel loro nesso interno, ma in rapporto a un progetto che oltrepassa non soltanto le costituzioni, ma le stesse nazioni, che è dunque per essenza cosmopolitico. Lei mi dirà che in questo modo la giustizia torna ad essere un concetto appartenente alla sfera morale. Ma il problema che ci ponevamo era appunto distinguere la giustizia dalla morale, e perciò ho detto che la sua domanda coglieva un effettivo paradosso, perché resta il fatto che il concetto di giustizia, quand'anche ci serva a condannare leggi ingiuste, non appartiene alla morale: con esso, infatti, non si pone il problema della purezza delle intenzioni, ma piuttosto ci si propone di correggere i comportamenti. Da questo punto di vista, Kant e Hegel hanno ragione: il diritto è distinto dalla morale, nel senso che si presenta come la sfera dell'esteriorità, gli uomini vi appaiono esterni gli uni agli altri, e il tribunale reale esterno a quello della coscienza. Allora io penso che quel paradosso sia risolto - ma solo parzialmente risolto - mediante una nozione di cui si servono i giuristi: quella di "principi generali del diritto".

I principi generali del diritto sono l'elemento di connessione tra la giustizia come mero ideale e la giustizia legata al diritto positivo, a leggi scritte, che possono essere talvolta leggi criminali. Per esempio, gli ebrei sono stati sterminati in base a leggi firmate da un capo dello stato legalmente eletto dai suoi concittadini. Dei principi generali del diritto si potrebbe dire che sono appunto l'espressione della sensibilità morale dell'umanità a un dato momento storico. A ogni dato momento noi abbiamo una certa visione di come dovrebbero essere dei rapporti di coesistenza capaci di rendere gli uomini sopportabili gli uni agli altri. In questo senso la giustizia è un concetto che non appartiene né alla morale né al diritto positivo, ma ai principi generali del diritto che si trovano nelle dichiarazioni universali dei diritti come la Dichiarazione dei diritti dell'uomo della Rivoluzione americana, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo francese, e nel preambolo di parecchie costituzioni. Infatti parecchie costituzioni contengono principi più giusti del contenuto determinato delle leggi. Prenda ad esempio le costituzioni staliniane che comportavano dei principi generali del diritto che sono rimasti inapplicati. Perciò oggi un politico come Gorbaciov può dire: torniamo alla giustizia leninista, alla giustizia socialista, perché c'era veramente uno scarto tra ciò che veniva dichiarato nelle costituzioni - dato che la giustizia è oggetto di dichiarazioni - e l'effettiva giurisprudenza. È possibile uno scarto tra le dichiarazioni concernenti la giustizia e il diritto positivo di una nazione a un dato momento storico.

Ma esiste oggi, secondo lei, la possibilità di identificare un unico principio di giustizia? Esiste cioè una giustizia o ci sono più giustizie? E nel secondo caso, queste non rischiano di contrapporsi l'una all'altra? Non c'è pericolo di cadere nel relativismo e nello scetticismo?

Questa questione è complementare a quella che ci ha condotti a concepire un rapporto gerarchico tra l'idea di giustizia, i principi generali del diritto e il diritto positivo. La sua domanda si riferisce infatti alla partizione interna del diritto positivo. Abbiamo il diritto pubblico, il diritto privato, il diritto sociale, il diritto penale e si determina una specie di divisione del lavoro, di parcellizzazione per cui uno studioso non è competente al tempo stesso in questa e in quella sfera. Ho dei colleghi giuristi che dicono: io mi occupo di diritto pubblico, non ho niente a che vedere col diritto privato. Ed entrambi sono d'accordo nel disinteressarsi del collega che fa diritto sociale. E a sua volta quello che fa diritto sociale, che si interessa di sicurezza sociale, di diritto del lavoro, di infortunistica, per esempio, penserà che gli altri sono dei fabbricanti di astrazioni. Invece io credo si debba riconoscere che il diritto è frammentato semplicemente perché le forme di relazione in cui si può entrare con gli altri sono di natura molteplice. E ciò è legato a un importante fenomeno delle società moderne che è la loro crescente complessità. In una società sempre più complessa si dà un numero sempre più grande di tipi di relazione e questo fa sì che le relazioni di diritto pubblico tra concittadini non coincidano con le relazioni che si stabiliscono nella definizione dei contratti, per esempio, nel diritto di successone o nel diritto sociale. Bisogna riconoscere che ci possono essere dei conflitti.

Ho fatto l'esempio del diritto di successione. É un caso molto interessante, perché è un punto su cui ci può essere conflitto tra diritto sociale e diritto privato, secondo il quale un padre di famiglia deve poter legare ai figli la maggior parte del suo patrimonio: si lavora per i figli. Il diritto riconosce la possibilità di trasmettere la proprietà, ma potrebbe trattarsi di un valore antisociale, perché darà luogo a un'accumulazione di capitale e dall'altra parte a una privazione. In questo caso il diritto sociale può interferire nel diritto privato. Prenda l'esempio delle espropriazioni. Per ragioni di pubblica utilità si è reso necessario aprire un'autostrada o un aeroporto là dove c'è la sua proprietà. Sorge così un conflitto tra il diritto privato e il diritto sociale. Ma il conflitto fa parte della nostra realtà umana. Non si deve credere che entrando nella sfera giuridica si esca per ciò stesso dal conflitto. Si entra piuttosto in una sfera in cui i conflitti sono riconosciuti e si danno regole per risolverli. Ma tali regole non sono necessariamente omogenee, non formano un sistema. Uno dei problemi, appunto, del diritto è quello di eliminare il maggior numero di contraddizioni, perché un principio generale del diritto è che una legge non può contraddire un'altra legge. É compito dei giuristi armonizzare tra loro le sfere del diritto, ridurre al minimo le contraddizioni giacché il diritto riposa essenzialmente su un principio di coerenza: una legge non può contraddire un'altra legge. Se la contraddice, una delle due deve essere abolita. Non è dunque questione di relativismo, ma di complessità. Una società bene ordinata - per usare una espressione che piace ad Hannah Arendt - non è quella in cui non ci sono conflitti, ma quella in cui ci sono regole per trattare i conflitti. in questa prospettiva consenso e conflitto vanno di pari passo. Più una società è complessa, più crea conflitti, più consenso chiede sulle regole di procedura. In ciò Rawls ha ragione il progresso più grande che si può fare è nelle procedure.

Che cosa si può fare oggi per rendere il mondo più giusto? In molte persone c'è un senso di rassegnazione di fronte a ingiustizie a volte estremamente palesi. C'è, invece, la possibilità di reagire a questa rassegnazione? C'è possibilità, per ognuno di noi, dunque anche per l'uomo che vive una vita semplicemente privata, di fare qualcosa perché il mondo diventi più giusto?

Quando dal piano di quello che abbiamo definito come ideale di giustizia vogliamo passare alla sua realizzazione sul piano pratico, dobbiamo chiederci cosa fare perché le società in cui viviamo vi si conformino. Vorrei mettere in evidenza in proposito tre problemi. Innanzitutto, una prospettiva cosmopolitica. Credo che si debba tornare all'idea dell'Aufklärung, degli uomini del XVIII secolo, secondo cui bisogna pensare fin da principio all'umanità nel suo insieme. È un passo fondamentale, perché se non pensiamo che l'umanità sia una, facciamo la prima concessione al razzismo: ammettiamo che ci siano diverse umanità. Bisogna allora pensare che l'umanità sia una e quindi porre il problema della giustizia a livello dell'umanità. Se dunque pensiamo la giustizia in senso cosmopolitico, nel senso che le avevano dato gli uomini del XVIII secolo, siamo introdotti al secondo problema, che è il tipo di diseguaglianza creata dallo sviluppo economico. Bene, io credo che il progresso della giustizia, stia innanzitutto nel rendere possibile l'umanità come una grande convivialità, convivialità appunto tra il Terzo Mondo e il mondo dello sviluppo. Mi sembra che il grande pericolo che corriamo attualmente, all'epoca del debito del Terzo Mondo, è di non commerciare più che tra nazioni che possono pagare, cioè di soddisfare solamente bisogni solvibili.

La giustizia, secondo il mio modo di intenderla, consiste nel rompere questa regola che soltanto i bisogni solvibili debbano essere soddisfatti. E ciò implica, secondo me, il passaggio dall'idea di un'economia mercantile all'idea di un'economia dei bisogni. Ci sono bisogni umani fondamentali da soddisfare. Io mi spingo fino a dire che dal momento che uno nasce ha un diritto, perché non ha scelto di nascere e la società gli deve qualcosa, gli deve permettere di sopravvivere, non soltanto con la medicina, con la pediatria, ma con un minimo di risorse. Credo che ogni uomo abbia diritto a un minimo di risorse. Era questa la seconda idea che volevo sviluppare a partire dal progetto cosmopolitico di un'unica umanità e la sua attuazione più urgente è nel far prevalere un'economia dei bisogni umani su un'economia dei bisogni solvibili. E in terzo luogo il problema, per le nostre civiltà occidentali, mi sembra che sia di andare il più lontano possibile nel riconoscimento delle differenze. Contro il progetto di rendere omogenea l'umanità, di rendere tutti gli uomini simili gli uni agli altri in base a un modello culturale uniforme, bisogna dare il più largo credito alla differenza, differenza dei diritti dei sessi, delle età, - dei bambini e degli anziani - delle forme di comportamento che consideriamo devianti, come quello omosessuale, fino al problema che pone l'esistenza in mezzo a noi dei drogati: come rispettare l'uomo in uno che non rispetta più se stesso e come arrivare - ecco la domanda che dobbiamo porci - ad una concezione della giustizia meno punitiva che educativa, capace di aiutare l'uomo a entrare nella sua umanità.

Lei sottolinea che la giustizia non deve avere solamente una finalità punitiva, ma anche educativa. Eppure l'esercizio della giustizia può comportare l'uso della forza, l'uso della coercizione. Basta pensare appunto alla privazione della libertà che è una coercizione necessaria nel caso di certi reati. Quali sono dunque i rapporti tra giustizia e forza? È mai pensabile una giustizia disarmata? Ma se deve essere armata, come deve essere armata la giustizia?

Non facciamo professione di realismo, ma semplicemente riconosciamo i limiti della giustizia - che non è l'ultima parola in fatto di rapporti umani - se diciamo che essa implica l'uso della forza. Credo che fosse già un pensiero di Pascal: l'unione della giustizia e della forza è il problema della punizione. Dirò due cose a questo proposito: in primo luogo, viviamo in una società che non può tollerare tutto, per la quale esiste qualcosa di intollerabile - anche in rapporto alle leggi più giuste, e non soltanto rispetto alle leggi criminali che abbiamo evocato prima - per la quale ci sono delle deviazioni e delle trasgressioni che devono essere punite e bisogna sapere che si deve usare la forza. Ma così mi pare che si ammette il fallimento della società. La società sperimenta i suoi limiti nel fatto che non può funzionare senza un minimo di forza. Ciò vuol dire che non abbiamo risolto il problema del "vivere bene insieme", che è in definitiva la nostra utopia. Ammettere l'esercizio della forza è riconoscere che la società ha fallito. Così ogni volta che si arresta un ladro, diciamo che la società produce in certo senso i suoi ladri, perché ha mancato lo scopo di educare, ha fallito nei rapporti familiari, nei rapporti di lavoro, in quelli del tempo libero e così via.

La prima cosa è riconoscere che l'uso della forza denota lo scacco di una società. In secondo luogo, bisogna servirsi della punizione il più possibile come di un mezzo di educazione, bisogna eliminare dalla punizione l'idea di espiazione. E - questo mi pare importante - il pensatore italiano che per primo ha concepito le cose in questi termini è stato Cesare Beccaria. Beccaria si era posto ad esempio il problema per le prigioni pontificie, ed è stato lui il primo che ha avuto l'idea di una punizione che fosse educativa. È un pensiero le cui conseguenze portano lontano perché le forme di reclusione che noi pratichiamo - è una cosa che Michel Foucault ha ripetutamente affermato in tutta la sua opera - producono l'effetto contrario: si può dire che le prigioni siano delle scuole del crimine.  Certo, attualmente dovremmo sperimentare delle forme di pena diverse dalla reclusione, come il lavoro sociale, o qualcosa del genere; ma, finché si continuerà a lavorare in carcere, che il lavoro almeno sia remunerato, e che, se il carcere è privazione della libertà, sia soltanto privazione della libertà. Gli uomini e le donne nelle prigioni hanno diritto a rapporti umani e in particolare a un lavoro remunerato, a un lavoro salariato. Ciò vuol dire che il criminale, per quanto criminale, per quanto criminale sia, dev'essere ancora rispettato nella sua umanità.

Oggi si avverte una certa reticenza all'esercizio della giustizia, quando questo significa dover punire. C'è una tendenza al permissivismo, quasi che un oscuro senso di colpa pesi sull'esercizio della punizione. Di fronte a questa remissività molti chiedono una giustizia più rigida. Secondo recenti sondaggi, pare che in Gran Bretagna l'80% della popolazione sia favorevole al ripristino della pena di morte. Quali sono le vie per giungere a una giustizia più rigorosa, senza cadere in eccessi? E perché la giustizia tende oggi ad essere più debole per certi aspetti?

Credo che alla sua domanda non si possa rispondere rimanendo sullo stesso piano su cui lei la pone. Data la situazione di insicurezza delle grandi città moderne, negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, è vero che i cittadini hanno diritto di proteggersi e quindi è dovuta loro la sicurezza - e non c'è sicurezza senza punizione. Questo è un fatto. Ma, per tornare a ciò che dicevo poco fa, bisogna pensare anche alla società che ha prodotto il crimine. E allora l'azione giusta è attaccare le cause sociali, le cause economiche della criminalità. Se poniamo il problema della criminalità come un problema isolato ci veniamo a trovare in una specie di paradosso, in cui gli uni diranno: chiediamo di essere protetti, quindi punite di più; gli altri: ma i carcerati sono uomini, e quindi bisogna rispettarli, irrogare pene più leggere e via dicendo. Non c'è dunque soluzione a livello della criminalità, della punizione, ma a livello della guarigione, della fisiologia e della terapia sociale. È un problema di terapia sociale e non soltanto di punizione.

Al sostantivo «giustizia» si aggiunge spesso l'aggettivo «sociale», parlando così di «giustizia sociale». Ma qual è il rapporto tra giustizia tout court e giustizia sociale? Che cosa manca oggi poi alla realizzazione di una giustizia sociale?

La sua domanda trae il suo senso dalla storia del diritto, perché il diritto è stato, fino all'inizio di questo secolo, soprattutto diritto pubblico e privato: quindi, da una parte il diritto che regola i rapporti delle diverse istituzioni tra di loro, dei poteri pubblici gli uni in rapporto con gli altri, - locali, regionali, nazionali - un diritto inteso a strutturare un sistema istituzionale e amministrativo, con i diritti degli individui di fronte a quelle istituzioni e amministrazioni, e i diritti delle istituzioni nei loro rapporti conflittuali; e dall'altra parte la sfera privata che è essenzialmente, come hanno detto Kant e Hegel, il rapporto del «mio»e del «tuo». È invece solo nel XX secolo che si è sviluppata una nuova concezione del diritto, per cui si è dovuto aggiungere a «diritto» l'aggettivo «sociale», per distinguerlo da quella visione limitata del diritto come diritto delle istituzioni e dei contratti. Il diritto sociale è nato quando si è cominciato a riconoscere che la società produce essa stessa diseguaglianza e ingiustizie, direi, proprio quando funziona meglio e nel modo più produttivo, sviluppando benessere, ricchezza e cultura, quando la redistribuzione dei benefici del lavoro di tutti diventa per sé un problema. Credo che si tratta dell'idea che il diritto non è più legato al capitale e nemmeno al lavoro effettivo, ma che l'uomo ha diritto a qualcosa solo in quanto uomo, e che occorre ridistribuire il prodotto della proprietà e quello del lavoro, per tendere a una convivialità in cui gli uomini siano più vicini gli uni agli altri.

Oserei dire, in proposito, che l'idea di eguaglianza è altrettanto importante dell'idea di giustizia, perché l'idea di giustizia è ancora legata all'opposizione del mio e del tuo. Credo che ci sia una specie, non dirò di vizio, ma di limitazione iniziale dell'idea di giustizia, perché essa non ha come scopo la realizzazione della comunità, ma semplicemente, come aveva ben visto Kant, della coesistenza. Ma noi abbiamo un progetto più grande, che è la «convivialità». È qui che introduco la mia idea di eguaglianza, perché credo che lo status sociale degli uomini sia troppo disparato: se c'è uno scarto troppo grande tra i più avvantaggiati e i più svantaggiati, non è possibile alcuna comunità. Ma io credo che la comunità non sarebbe possibile che tra uomini che fossero per condizione prossimi gli uni agli altri. E questo mi sembra tanto più necessario in una società resa trasparente a se stessa dai mass-media. Oggi i poveri vedono come vivono i ricchi attraverso il cinema e in tanti altri modi, dunque non c'è più quella ignoranza di un tempo e il mito che i ricchi vivessero in un altrove inaccessibile. Oggi abbiamo una specie di socializzazione attraverso l'informazione e anche grazie al tempo libero. È necessario avvicinare i livelli della condizione sociale degli uomini. Perciò l'idea di uguaglianza dev'essere altrettanto forte dell'idea di giustizia.

Si è parlato di giustizia sociale e di uguaglianza. Questi ideali di giustizia sociale e di uguaglianza sono stati ripresi con forza durante la contestazione giovanile del '68. Se non sbaglio, lei nel maggio del '68 era rettore dell’Università di Paris-Nanterre. Come ha vissuto quel momento, come hanno vissuto in quel momento questi ideali di giustizia?

Lei mi richiama a un passato che per me è ancora molto ambiguo, perché come molti di coloro che sono stati attori o protagonisti degli anni '68-'70, continuo a chiedermi che cosa è successo realmente. Era soltanto un grande giuoco simbolico o un'effettiva messa in questione delle istituzioni? Io credo che ogni società abbia bisogno per così dire di una “creatività marginale”, cioè di gruppi forniti di progetti alternativi, che anche se non possono essere integrati e realizzati, hanno la funzione di sviluppare l'immaginazione dell'«altrove», dunque di altri modi di vivere, di un modo più umano di rapportarsi alla proprietà e di esercitare il potere tra quelli che comandano e quelli che obbediscono. Una società entra in fusione a un dato momento per una sorta di condivisione della parola e per un eccesso. D'altronde, credo che ciò sia bene per una società, quando i suoi rapporti istituzionali sono sclerotizzati, e nel caso del '68 in Francia mi è sembrata un'eccellente terapia, forse un po' come certe feste, come il carnevale, che rompe la quotidianità con il sogno di un altro modo di vivere insieme. Direi che in definitiva abbiamo integrato molti spunti del '68.

Nessuno esercita più il potere come prima. Si è determinato un avvicinamento, a mio parere, tra coloro che esercitano il potere e gli amministrati e c'è una maggiore partecipazione alle decisioni in un gran numero di istituzioni. Credo che ci sia un'azione lenta e sotterranea del '68, al di là dell'insuccesso immediato. Io stesso ho vissuto l'evento come una specie di lacerazione, perché da una parte avevo grande simpatia intellettuale per molti ideali rivoluzionari del '68 e un rapporto di stima personale verso Daniel Cohn-Bendit, dall'altra ero responsabile dell'istituzione, e avevo un sentimento quasi hegeliano della necessità di far funzionare l'istituzione, e quindi ero preso in questa contraddizione di nutrire una simpatia profonda non soltanto emotiva, ma intellettuale verso quegli stessi che mi impedivano di far funzionare l'istituzione. E l'ho vissuta come una lacerazione personale, che si è tradotta del resto in uno scacco, perché ad un certo punto è intervenuta la polizia a ristabilire l'ordine e io ho dato le dimissioni. Ma è stata per me un'esperienza estremamente istruttiva, perché ho capito, in primo luogo, che non ero dotato per l'amministrazione, e poi che ogni società si deve misurare a un certo momento con questo paradosso di essere rimessa radicalmente in questione dai suoi stessi margini, dai suoi elementi marginali e che d'altra parte una società moderna è troppo complessa perché la si possa ricostruire a partire da zero. Allora sorge un conflitto tra gli ideali, che direi rivoluzionari, e una pratica riformista e bisogna sapersi mantenere e saper mediare tra i due poli. È quello che ho imparato dal '68.





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