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giudicare e l’idea di giustizia
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Questa
intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Ricoeur, la virtù
della giustizia, grande ideale stabile e unitario di Platone, viene di
fatto “smembrato” da Aristotele. È corretto affermare che la
concezione aristotelica della virtù segni un passo indietro, qualcosa
come un regresso, rispetto all’impostazione platonica?
In un certo senso, è proprio così. Di fatto, Platone aveva concepito
la giustizia come una «virtù totale» che doveva preservare
l'armonia dell'anima individuale nelle sue diverse attitudini, ma
anche l'armonia della polis
nelle sue varie componenti. La sua grande idea era effettivamente
quella di stabilire una correlazione, cioè una similitudine o
un'omologia tra le tre parti che costituiscono l'animo umano - la
parte razionale, quella del sentimento e quella del desiderio - e le
consorterie dei cittadini, distinti anch’essi in tre classi:
magistrati, militari e lavoratori. Si trattava evidentemente di una
grande idea, ma Aristotele, per venire alla nostra questione, ha
tentato piuttosto di considerare la giustizia come una virtù tra le
altre. Avremo forse modo di vedere, in questa nostra discussione, che
tale decisione si ispirava indubbiamente a una certa saggezza
pragmatica, cioè nella presa di coscienza del fatto che la giustizia
non può coprire tutti gli aspetti della realtà come insieme delle
relazioni, del «buon vivere sociale», che sarà di fatto un filo
conduttore della nostra conversazione.
Ma la genialità di Aristotele, circa la sua teoria della giustizia,
è consistita anche nel cogliere la «medietà» del giusto, il suo
trovarsi lontano dagli estremi, basandosi in parte sull'esempio della
teoria matematica delle proporzioni. A questa concezione della
giustizia si collegata poi la distinzione fra una giustizia
distributiva e una giustizia correttiva - quella che, più tardi, gli
Scolastici medievali chiameranno «commutativa». Tuttavia, si tratta
di concetti non del tutto perspicui. Ci vuol spiegare in particolare
la distinzione menzionata fra una giustizia distributiva ed una
commutativa?
Certamente. Riallacciandomi a quanto detto prima, Aristotele ha voluto
delimitare un campo specifico, in cui la giustizia acquista un senso
rilevante e incisivo,
che si occupa di tutti i casi in cui si può parlare di
uguaglianza tra le parti - cioè di parità tra il delitto e la
punizione, e così via. Si tratta dell’idea di una sorta di rapporto
matematico, di simmetrica corrispondenza. Faccio notare - per inciso -
che tutti i filosofi di cui parleremo hanno pensato di trovare nello status
delle scienze matematiche del loro tempo uno strumento
“didattico”, un termine di paragone per far comprendere ciò che
essi intendevano per giustizia. Ciò è ben comprensibile, dal momento
che dentro l'idea di giustizia c’è l'idea di misura. Occorre infatti un metro di valutazione tra i beni che si
scambiano, o tra un danno arrecato e la relativa punizione, e questa
idea di misura ha in sé qualcosa di matematico.
L'intenzione di Aristotele era quella di applicare la teoria delle
proporzioni: egli non ha soltanto limitato la sfera di applicazione
della giustizia al campo in cui si può parlare di «isotesi» o di
equivalenza, ma lo ha smembrato in due per meglio precisare in quali
ambiti si può parlare di giustizia e in quali no. Si trattava di due
domini ben distinti: in primo luogo quello pubblico, in cui lo Stato -
la polis - distribuisce i
ruoli, le funzioni, gli onori ma anche gli oneri sotto forma di
imposte o di tributi cui contribuire in un modo o nell’altro: qui
sussiste una giustizia «distributiva», che deve cioè assegnare la
giusta parte a ciascuno ed esigere da ciascuno il giusto contributo,
non applicando un criterio di uguaglianza matematica, bensì di
equivalenza proporzionale. Vale a dire che, se un magistrato ad
esempio riceve una parte più grande nella distribuzione, tuttavia il
rapporto tra i suoi introiti e i suoi meriti deve essere equivalente -
fatte le debite proporzioni - al rapporto che passa tra la parte data
a un cittadino di condizione inferiore e il suo specifico contributo.
In qualche modo, dunque, si poteva mantenere l'idea di uguaglianza,
sebbene vi fosse disuguaglianza delle ricompense, ma in un rapporto
proporzionale: il primo sta al secondo come il terzo sta al quarto,
secondo la nozione di «proporzione» allora scoperta dalla Scuola
matematica. Questo principio diventava così basilare nell’ambito
del «diritto pubblico».
In secondo luogo, però, doveva esservi un «diritto privato», per
gli scambi, per le attività del vendere e del comprare, e Aristotele
compie qui un accostamento che, per noi, risulta quasi una forzatura,
tra la compravendita, che è privata e che egli chiama «giustizia
negli atti volontari» (volontari dalle due parti) e, d'altro canto,
la punizione. Può infatti apparire singolare l'aver messo sullo
stesso piano la compravendita e la pena da infliggere... Ma l'idea era
che la pena dovesse essere uguale al torto arrecato: esattamente come
la parte che si cede (in un contratto), la quale dev’essere uguale
alla parte che si riceve. E' dunque possibile una giustizia
aritmetica, nella sfera privata, in cui le parti sono uguali. E
invece, nella sfera pubblica, distributiva, le parti sono diseguali in
quanto proporzionali. Tornando ora alla nostra prima osservazione, è
interessante notare che la giustizia non solo agisce in un campo
delimitato ma, probabilmente - come vedremo più oltre - non può
dirsi nemmeno unitaria: vi sono infatti diversi principi di giustizia
e, forse, non si può unificare completamente il campo giuridico in
generale. In ogni modo, partendo dall’impostazione aristotelica -
ripresa poi dagli Scolastici con la distinzione tra giustizia
distributiva e commutativa - possiamo utilmente tener fermo, a livello
orientativo, che il Diritto pubblico ha un carattere «distributivo»,
e che nel privato opera una giustizia «commutativa».
Spesso si confondono giustizia
ed equità, o perlomeno non si distinguono chiaramente. Tuttavia non
si tratta della stessa cosa, e Aristotele le distingue bene. Ci può
spiegare le ragioni di questa distinzione tra «giustizia» ed
«equità»?
Non mi addentrerò nelle discussioni tecniche e specialistiche di
Aristotele circa il quesito «se si tratti di un altro tipo di
giustizia», in qualche modo una “terza giustizia”. Per conto mio,
sarei più favorevole a quelle interpretazioni secondo cui, in fondo,
l'equità sarebbe una sorta di coronamento o di meta della giustizia,
piuttosto che un'aggiunta o una qualità specifica. Ciò vuol dire che
bisogna rendere la giustizia umana. E proprio qui dietro a me si vede
questa magnifica raffigurazione del Giudizio di Salomone che bene si addice a illustrare il paradosso
della giustizia astratta: tagliare il bambino a metà. Due persone
reclamano lo stesso bambino: «Ebbene dividetelo in due metà, una per
ciascuno…», è il giudizio di Salomone: ci si accorge qui
dell'assurdità, e che la giustizia effettiva consiste invece nel dare
il piccolo alla madre legittima, riconosciuta per la sua reazione
emotiva: essa corre verso il bambino, non vuole che la sua salvezza,
pronta a rinunciare al suo possesso. Ecco, credo che questo sia un
esempio di equità. Poiché l'equità consiste appunto nel non seguire
ciò che, a prima vista, sembra essere il giusto - dividere il bambino
in due - e invece dare ascolto al sentimento, o a un profondo istinto.
I latini dicevano anche «summum jus, summa injuria», intendendo con
ciò che un eccesso di Diritto produce una nuova ingiustizia:
“troppa giustizia” fa il paio con l'ingiustizia. Per questo, l'equitá
riconduce la giustizia nelle norme umane, ci avverte che, dopo tutto,
sono gli uomini che esercitano la giustizia, che anche i giudici sono
uomini come noi e che, per conseguenza, hanno i sentimenti, e che si
devono lasciar parlare i sentimenti per correggere ciò che vi è
di astratto nella lettera delle Leggi le quali, se applicate
meccanicamente, risulterebbero infine disumane.
Un problema ricorrente, nella
storia della filosofia, è poi quello della distinzione tra Diritto e
Morale. Kant stesso si e’ molto arrovellato su questo problema, che
si ripercuote anche sul concetto di Giustizia. Che cos'è, per Kant,
la Giustizia? Fa parte del Diritto o della Morale?
Questo è un problema che certo ritornerà nel nostro discorso, ma -
credo - in senso inverso, con Hegel, che parla del Diritto astratto e
della giustizia che deve andare verso la morale in quanto investe la
sfera della persona umana, o quanto meno di ciò che più strettamente
è marcato dalla coscienza. Kant, al contrario, affronta il problema
dal versante opposto, avendo dato prima la sua risposta sulla Morale
nella Critica della Ragion
Pratica, definendo la morale rispetto al senso del Dovere, e il
Dovere è, essenzialmente, che la massima di un agire possa essere
universalizzata: questa è l'essenza stessa del Dovere. Tuttavia,
posso avere due diversi atteggiamenti verso il dovere: considerarlo
puramente una regola da osservare o invece onorarlo perché riconosco
che, così facendo, rispetto l'altro. In questo caso, compio il dovere
per una ragione interiore, ma se lo faccio semplicemente in ossequio a
una norma esterna, vengo a trovarmi immediatamente nel campo
giuridico: poiché il campo giuridico comincia proprio laddove
obbediamo a delle leggi che ci sono inevitabilmente “esterne”. E
questa esteriorità del
campo giuridico rispetto alla morale è propriamente il problema di
Kant, poiché, avendo orientato la sua opera preminentemente verso
l'interiorità, trovava, nel Diritto, una sorta di «scandalo»
(quello di fondarsi sulla coercizione, sulla “paura del gendarme”
o sul timore del tribunale). Il Tribunale ci è esterno, mentre la
coscienza è una sorta di tribunale interno. Il problema, per Kant, si
pone dunque in questo passaggio dall'interiorità all'esteriorità
delle Istituzioni, e le difficoltà che incontra sono comprensibili:
come giustificare, infatti, il rapporto esterno con la legge, in una
filosofia che si basa essenzialmente sull'interiorità della legge?
Interno/esterno,
privato/pubblico: la giustizia, di solito, si riconduce a una sfera
Pubblica. Ma la giustizia - per Kant - riguarda anche la sfera
privata, essendo intrecciata ai problemi della proprietá e della
sicurezza, e giocando un grosso ruolo all'interno del Diritto Privato.
Sì, ed è interessante notare come, sotto l'influenza
dell'individualismo borghese del XVIII secolo, il problema del
«contratto» in materia di proprietà privata diviene il luogo
principale della riflessione sulla giustizia. Aristotele, invece - se
si può fare un paragone - poneva al centro la comunità che
distribuisce cariche e onori. Anche Kant tratta del rapporto con le
cose, la giustizia nel rapporto con le cose. Ciò rispecchia lo stato
generale dei costumi, sedimentatosi nel secolo XVIII con
l'individualismo borghese, che fa della proprietà la questione
fondamentale del Diritto. Si tenga presente che siamo in un'epoca in
cui non è ancora invalsa l'idea che è il lavoro a produrre la
ricchezza - è un'idea che verrà sviluppata soltanto nel XIX secolo,
a cominciare dagli economisti inglesi e poi da Marx - ma in questo
periodo la proprietà fondiaria costituisce, al tempo stesso, il segno
distintivo del rango. Si potrà ben dire che la proprietà è
"sopravvalutata", ma vorrei precisare, se non altro per
rendere giustizia a Kant, che egli non considera solamente la
proprietà materiale delle cose ma, molto più in generale, la
distinzione del «mio» e del «tuo». E qui sorge un problema
importante, poiché - come del resto era stato compreso dai Greci, da
Platone, da Aristotele - la nostra indipendenza, la nostra libertà,
dipendono anche dalle cose materiali esterne. E senza queste cose
esterne, la libertà diventa pura astrazione, e i diritti che alla
libertà fanno riferimento restano semplicemente ideali. Soltanto
disponendo di cose si ha una base per la libertà, un punto d'appoggio
che è - in qualche modo - prima di tutto materiale. In un certo
senso, si potrebbe dire che vi è un «materialismo della libertà»
che compare con Kant e si pone al posto giusto.
L'idea di Kant non è quella della comunità: è il principio del ben
distinguere «ciò che è mio» da «ciò che è tuo». E la
giustizia, pertanto, è distributiva solo in questo senso: che essa
separa il «mio» dal «tuo» e ne delimita i contorni. Quindi,
tornando alla nostra idea delle cose, degli oggetti esterni, è
sufficiente, per Kant, che il Diritto risolva tale specifico problema,
poiché quello della giustizia non è, per l'appunto, il problema
della morale, cioè non è quello di rispettarci reciprocamente, di
partecipare al sodalizio di ciò che egli chiama «il regno dei fini»
- vale a dire una società nella quale saremmo, al tempo stesso, i
governanti e i governati, i legislatori e i sottoposti alle leggi - ma
semplicemente quello di farci convivere pacificamente gli uni con gli
altri. In questo senso forse, si potrà rimproverare a Kant di aver
troppo piegato l'idea di giustizia all'idea di proprietà e, inoltre,
di averne limitato l'esercizio all'ambito delle relazioni esterne
delle persone, e il genere specifico dei rapporti interpersonali esige
soprattutto di stabilire ciò che mi appartiene e ciò che ti
appartiene, di discernere e di distinguere il «mio» dal «tuo». Non
è compito della Giustizia accomunare gli uomini nel loro «vivere
insieme» - dicevo poc’anzi che è forse una nostra utopia del
«vivere bene insieme» - e Kant non intende risolvere questo
problema: vuole solamente risolvere il problema preliminare di una
società pacifica, in cui gli uomini si rispetterebbero in quanto
rispettano i limiti dei loro diritti, che tuttavia sono esterni agli
uni e agli altri.
Professore, la giustizia è un
modo di regolare i rapporti umani antitetico alla violenza, e Kant
affronta esplicitamente questo problema. In che senso si può dire che
la giustizia sia un sostitutivo, almeno per certi aspetti, della
violenza, seppure su un piano più elevato?
Avevamo detto poc'anzi che si passa dalla morale alla giustizia quando
vi è un tribunale, e il tribunale implica costrizione. Kant ha
cercato di giustificare la coercizione - il che sembra molto estraneo,
per così dire, all'orientamento generale della sua filosofia, che
privilegia piuttosto i motivi interiori dell'obbedienza. Ma perché
questo? Ebbene, quando leghiamo il nostro destino al possesso di un
certo numero di cose, come accade comunemente, ci poniamo
inevitabilmente sotto la minaccia che il violento venga a separarci
dalla nostra proprietà, e allora a questa violenza si oppone la
controviolenza della società. Insomma, la violenza della punizione
corregge - ecco la nozione di «correttiva» - la prima violenza che
era stata compiuta a nostro danno. Personalmente, direi che, avendo
legato in definitiva Essere e Avere, l'avere è minacciato, e tale
minaccia comporta la possibilità della violenza dell'Altro. E la
società, in quanto protezione e garanzia dei diritti, tutela in fondo
la nostra sicurezza. Siamo cioè, esclusivamente nella sfera della
«sicurezza»: poiché il centro del Diritto è la proprietà, dunque
il centro della giustizia è la sicurezza. Del resto, Kant ha voluto
distinguere tra la violenza propriamente detta, che è violenza contro
ciò che è «mio» e ciò che è «tuo», e la coercizione che è
prerogativa del tribunale. In qualche modo, ha inteso tracciare una
linea di demarcazione tra la coartazione legale, che è legittima, e
la violenza, che è illegittima. Ed è una frontiera molto fragile,
come peraltro ha osservato Hegel.
Quindi
c’è una frontiera molto fragile tra la violenza tout court e la sorta di controviolenza, di costrizione, della
giustizia. Comunque di fronte allo spirito di vendetta, alla
prevaricazione, alla prepotenza, all'uso indiscriminato della forza,
la giustizia cerca di imporre la propria voce, che è una voce più
alta. Per fare questo si deve trasformare di fatto in coercizione;
esercitare la giustizia può voler dire comminare pene: esercitare,
appunto una sorta di violenza. Su questo tema, Hegel ha sviluppato
un'intera concezione del Diritto Penale. Ce la può illustrare, in
breve?
Hegel prende inizialmente le mosse da Kant, ma ne corregge
fondamentalmente il tiro, affermando che questo Diritto astratto - che
protegge la mia proprietà dall'aggressione dell'altro - non è che il
livello più basso in cui la Comunità si esprime. Ritengo che
l'apporto maggiore di Hegel sia quello di aver stabilito una gerarchia
di valori tra il Diritto astratto puro e semplice, saldamente legato
alla proprietà, e l'istanza interiore, che appartiene alla morale. E,
rovesciando il rapporto stabilito da Kant - con il passaggio dalla
morale al diritto - Hegel si pone piuttosto il quesito di come passare
da un diritto, che è affatto esterno alle persone, alla morale che è
puramente interiore e, infine, alla Comunità. Il percorso da compiere
è molto interessante: dal Diritto astratto all'interiorità morale, e
quindi alla Comunità che, per lui, consiste nella vita politica. E
tuttavia - se rapidamente arriviamo alle conclusioni dell'opera di
Hegel - occorre dire che la comunità politica rappresentata dallo
Stato - che è poi uno Stato liberale e non totalitario - è quella in
cui gli uomini, anziché essere esterni gli uni agli altri, separati
gli uni dagli altri, sono riuniti e associati da un progetto comune,
hanno in comune un progetto che si inscrive in una Costituzione.
Se quindi si considera la prima parte dei Fondamenti della Metafisica
del Diritto nella prospettiva della fine del libro, ci si accorge che
quanto vi è detto circa il «diritto astratto» risulta poi in
difetto - per così dire - rispetto al messaggio principale della Filosofia
del Diritto, poiché è nella Società Politica che l'uomo
realizza la Comunità: non vi è Comunità di sorta sul
piano giuridico. Sul piano squisitamente giuridico, vi è soltanto
il Contratto, e Hegel del resto, più di Kant, ha dato rilevanza
all'idea di «contratto». Infatti, mentre Kant aveva posto una
distinzione tra il diritto sulle cose e i diritti concernenti le
persone, per Hegel i due aspetti si integrano poiché, in un
contratto, abbiamo due persone in rapporto tra loro, ma a proposito di
una cosa: la cosa posseduta fa da intermediario tra due volontà,
così come la seconda volontà è intermedia tra la prima volontà e
la cosa. Si costituisce un triangolo, insomma, tra una persona,
l'altra e la cosa. E allora la giustizia interviene, effettivamente,
per assicurare il buon funzionamento dei contratti, ed è qui che
ritroviamo il tema della violenza e della controviolenza legale. Ma
fin qui, vi è, non dirò la “riprovazione” di Hegel, ma quanto
meno la sua indicazione che non siamo ancora entrati nel vero problema
umano, che è quello di accettarsi reciprocamente, nel riconoscimento
vicendevole tra uomo e uomo e nella costruzione di un progetto
politico comune, che si iscriva in una Costituzione.
Il concetto di «pena»
presenta dei limiti, se non delle vere e proprie contraddizioni
interne?
E' perfettamente vero. Ma ciò non vuol dire che questo livello - per
così dire - non sia importante. Altrimenti Hegel non avrebbe incluso,
di necessità, il «diritto astratto» nella sua grande Filosofia
del Diritto, in cui conferisce alla parola «Diritto» - a giusto
titolo - un significato immenso. Nella sua concezione, il diritto
abbraccia tutto l'insieme dei rapporti umani con i quali si accede a
una comunità sociale e politica. Occorre distinguere i vari livelli:
i diritti dei privati, esterni alle persone, ossia il passaggio
obbligato dell'esteriorità per entrare poi nel regno
dell'interiorità, che è quello della Morale, e arrivare infine non
già a un'altra esteriorità, ma a una Comunità, nel senso di un
«essere in comune». E a me pare ammirevole questo movimento della Filosofia
del Diritto di Hegel, che indica il passaggio dall'esteriorità
giuridico-giudiziaria all'interiorità morale per arrivare al
livello propriamente politico. Vi scorgo in effetti un itinerario
verso la libertà, la quale si realizza a partire dalla sicurezza,
poggiando in primo luogo sulle cose, e compiendo poi un passo
ulteriore interiorizzandosi, divenendo convinzione interiore e dunque coscienza
morale. Infine, essa fa un ultimo passo incontrando altre libertà
in un unico progetto, che sarà il progetto di uno Stato.
Oggi vi è un pensatore
americano, John Rawls, che ha ripreso, in grande stile, le
teorizzazioni classiche sulla giustizia. Ce ne può illustrare in
breve le posizioni, e anche quelli che, secondo lei, sono i limiti
della sua impostazione?
Il grande libro di Rawls degli anni settanta, intitolato A Theoy of Justice, ha forse più significato nel mondo
anglo-sassone che nell'Europa Occidentale, e - direi - per due buoni
motivi: perché la Giustizia non funziona allo stesso modo nella
tradizione della Common Law
britannica, dove il giudice ha un potere di iniziativa molto più
ampio che da noi. È infatti il giudice che, in qualche modo, “fa la
legge” sulla base dei casi concreti, e il diritto si costituisce per
accumulazione delle sentenze che divengono via via giurisprudenza. Vi
è il problema di quali possano essere i principi informatori di una
produzione del Diritto costantemente ampliata dalla giurisprudenza. Ma
la cosa non ci riguarda, poiché abbiamo la tradizione del Diritto
Romano che è molto più vincolante nei confronti del giudice. Direi
che l'unica parte del nistro Diritto che potrebbe accostarsi alla Common
Law britannica è la legislazione sociale, poiché tutto il
Diritto in materia sociale, che si è affermato soprattutto dopo la
fine della II guerra mondiale, avendo fatto i primi passi prima del
conflitto, segue un processo di continuo adeguamento alle condizioni
dello sviluppo economico: la previdenza sociale, le diverse forme di
ripartizione degli oneri in un quadro produttivo, le provvidenze per
alleviare o controllare la disoccupazione, le pensioni di vecchiaia,
le assicurazioni per le malattie, l'invalidità e via dicendo. Si
tratta di un’immane legislazione sociale e per esempio in Francia -
mi si è fatto notare recentemente - il bilancio della Sécurité Sociale arriva a superare la mole del Bilancio dello
Stato.
Vi è dunque un campo di indagine immenso da occupare, e Rawls può
coprire sia il diritto sociale europeo e sia tutto l'insieme giuridico
tipico del mondo anglosassone. Ma noi tendiamo a vederne soltanto la
seconda parte, poiché il campo della «creazione del diritto» nelle
aule del tribunale, da parte del giudice, non costituisce per noi una
consuetudine del tutto comprensibile; e ritengo sia questa la natura
dei malintesi che possono sorgere nella lettura dell'opera di Rawls,
che viene considerato - mi sembra - piuttosto un pensatore e teorico
della socialdemocrazia. E certamente lo è per quanto, dal suo punto
di vista, potrebbe non essere un difetto. Nell'insieme delle posizioni
politiche americane, si troverebbe alla sinistra dell'area liberal mentre, per noi, questa «sinistra dei liberals» sarebbe piuttosto, non diciamo la destra, ma un
centrodestra. Tutto ciò è fonte di grossi malintesi, ma vorrei
precisare tre punti a proposito di Rawls, e non tanto per difenderlo,
quanto per rendergli giustizia: anzitutto l'idea, cui annetto una
grande importanza, che una società può essere vista nel suo insieme
- sotto il profilo del diritto pubblico, come anche del diritto
privato, commerciale, sociale e via dicendo - come un vasto sistema di
distribuzione non distribuzione di cose, ma di ruoli, e che, se una
società è un sistema di distribuzione dei ruoli, poiché vi sono
molti modi di distribuirli, una società è di per sé problematica.
In effetti, non vi è un solo modo di distribuire, non soltanto le
cose dopo averle prodotte, ma altresì i ruoli nell'ambito della
produzione stessa. Ecco, mi sembra notevole questa prima idea che, in
una società considerata come un sistema di distribuzione, vi è un
problema fondamentale: quello della giustizia, ossia di un'etica della
distribuzione dei ruoli.
La seconda idea di Rawls, che mi pare di tutto rilievo, è quella di
aver diviso in due il principio di giustizia - e dopo tutto non è il
primo a farlo, poiché già Aristotele parlava di due giustizie,
quella distributiva e quella correttiva, che poi gli scolastici
medievali diranno «commutative». Ed è quella giustizia distributiva
che Rawls scinde in due principi di giustizia: l'uno è il principio
egualitario (l'eguaglianza di tutti davanti alla legge: che la legge
non fa eccezioni per nessuno, e sia il povero che il ricco, se hanno
commesso un reato, devono pagare ugualmente e ricevere lo stesso
trattamento in sede giudiziaria. E anche se non sempre avviene nella
realtà, questo è il senso di giustizia). Ma vi è poi un secondo
principio di giustizia, che egli chiama peraltro «principio di
differenza», fondato sulla constatazione che non esistono società
egualitarie: tutte le società che noi conosciamo sono, in qualche
modo, inegualitarie, con i ricchi e i poveri, gente che ha il potere e
gli altri che non ne hanno affatto, e in esse di conseguenza la
distribuzione è ineguale. Il problema era dunque, per lui come del
resto lo era stato per Aristotele, come introdurre un principio di
giustizia in una distribuzione diseguale. E il principio che egli
formula è il seguente: il sistema della distribuzione più giusto
sarà quello in cui ogni aumento dei vantaggi dei più sarà
compensato da una diminuizione degli svantaggi dei meno favoriti. Ciò
che a mio avviso, conferisce forza morale al principio è che si
prende in considerazione il punto di vista e l'interesse dei più
sfavoriti per regolare il problema della distribuzione. Se ci si
chiede ad esempio quale sia il miglior sistema di ripartizione delle
imposte in una nazione, occorre domandarsi in primo luogo quali oneri
graveranno sui più sfavoriti. Il terzo punto, in cui vedo tuttavia
l'apporto più discutibile di Rawls, è di aver pensato di poter
correggere - come ho già detto - la diseguaglianza, limitando il
danno per i più sfavoriti, riprendendo però la tradizione contrattualista.
Lei ha scritto che Rawls
sostituisce una concezione puramente procedurale della giustizia alla
fondazione etica della giustizia. Che cosa intendeva dire con questa
interpretazione?
Si tratta del terzo punto cui alludevo poc'anzi. Il primo era
considerare la società nel suo insieme come un grande sistema
di distribuzione e il secondo
introdurre un principio di giustizia nella diseguaglianza che
la rende accettabile come ciò che è più conveniente per i meno
favoriti. A questo proposito, ha immaginato una situazione ideale, in
cui ignoreremmo se saremo i più avvantaggiati o i più svantaggiati,
e l'ha definita «il velo d'ignoranza»: supponiamo che io debba
trattare con Lei, stabilire per contratto la costituzione di una
società. Per essere un buon contraente dovrei ignorare se in
definitiva sarò avvantaggiato o svantaggiato, dunque mi pongo - come
egli dice - «sotto un velo d'ignoranza» in quanto ignoro quale sarà
effettivamente la mia sorte: finirò tra i più sfavoriti o tra i più
favoriti? Sotto questo velo d'ignoranza mi pongo nella condizione di
un essere razionale che può trattare con l'altro senza tener conto
del proprio interesse personale. Lei mi chiederà quale sia la portata
di questa nozione originale e che trovo assai seducente, poiché
quest'idea del «velo d'ignoranza» è abbastanza nuova nella
tradizione contrattualistica o piuttosto, se si vuole, era in certo
qual modo implicita… ad esempio, quando Rousseau scrive nel
Contratto Sociale che «io alieno alla volontà generale la mia
volontà particolare».
Questo atto di «alienazione» è un modo di fare astrazione del
proprio diritto «selvaggio» in un certo senso, e quindi di porsi
sotto un velo di ignoranza che, in altri termini, vuol dire: adottare
il punto di vista della volontà generale, trascurando completamente
la propria volontà particolare. Rawls ne ha fatto poi un sistema
complicato, che comporta un'astrusa dissertazione su ciò che si deve,
o non si deve, ignorare. Ma, in fondo, devo pur sapere qualche cosa di
concreto, altrimenti non avrei un appiglio per discutere i termini del
contratto. È qui il problema, l'obiezione sollevata dagli epigoni
della scuola di Francoforte, in primo luogo da Jürgen Habermas, che
il velo d'ignoranza sopprime il conflitto e che, tolto il conflitto
viene a mancare l'oggetto stesso del contratto. Non può esservi
contratto se non abbiamo opposti interessi, e se ci siamo posti sotto
il velo d'ignoranza ignoreremo il nostro interesse e dunque anche il
nostro svantaggio.
A questo punto, sussiste ancora un oggetto del contratto? Habermas
ritiene che bisogna allargare di molto il discorso e passare per
un'etica della discussione, in cui si possa valorizzare
l'argomentazione, di modo che quella più valida prevalga su quella
meno valida. Non dico che questo non ponga altre difficoltà: che
cos'è una buona argomentazione, qual è l'argomentazione più valida?
Ma si potrebbe dire, ad ogni modo, che Rawls sopprime il momento
dell'argomentazione in quanto ha soppresso il momento della
contraddizione, del conflitto. Sostituendolo con che? Con un argomento
di tipo matematico, mutuato dalla teoria dei giochi - già alcuni
economisti lo avevano fatto - il principio che è detto in francese,
di «maxi-mini», in base a cui si massimizza la parte minimale. Per
ben comprendere questo concetto che è complicatissimo, occorre
premettere che l'avversario di Rawls in tutta questa discussione è un
avversario che non esiste da noi in Europa occidentale, ma che è
presente nel mondo anglosassone, vale a dire l'utilitarismo.
Diciamo che l'utilitarismo non gode presso di noi di una buona
reputazione e come dottrina è persino inesistente. Invece nel mondo
anglosassone, com'è noto, è una dottrina molto forte, la quale
postula che è giusta quell'istituzione che massimalizza l'interesse
dei più. Dice Rawls: «In base a questo principio ci sono delle
vittime, che pagano per l'interesse dei più, vi è una minoranza
condannata». Egli si pone appunto il problema di tener conto delle
vittime anche se il sistema utilitaristico crea le sue vittime,
facendo s“ che non sappiano di essere tali. Mentre, secondo Rawls,
ponendosi dal punto di vista del più svantaggiato nella ripartizione
dei benefici, non si massimizza l'interesse di tutti, ma si massimizza
la parte minimale. Mi permetto di far notare ancora una volta che -
come dicevamo all'inizio - i grandi teorici del diritto hanno sempre
avuto un interesse per la matematica: troviamo in Platone il principio
d'armonia, connesso alla riflessione sulle proporzioni e sulla musica
- nel Timeo in particolare
la divisione delle linee, la divisione armonica; in Aristotele l'idea
di eguaglianza proporzionale; in Pascal la scommessa, in cui si serve
del calcolo delle probabilità; in Leibniz il principio con cui cerca
di giustificare l'esistenza del male nel mondo - che definisce come il
migliore dei mondi possibili, e che secondo lui sarebbe quello in cui
viviamo - principio per cui si ha un massimo degli effetti con un
minimo di costi, il guadagno massimo con la minima spesa. In fondo il
principio di Rawls è lo stesso, ma applicato nel suo caso non più,
come in Leibniz, all'ordine del mondo, bensì alla ripartizione dei
compiti, dei vantaggi e degli svantaggi in una società.
Il principio di «maxi-mini» è sufficiente a fondare una giustizia?
O Rawls non ha piuttosto voluto colmare un'assenza, se vogliamo, del
bene comune con una semplice procedura, quella che consiste
nell'accordarsi sulle regole della ripartizione, pur senza concordare
sulle cose stesse, su ciò che è bene e su ciò che è male? Peraltro
ho avuto modo di confrontare la mia interpretazione con lo stesso
Rawls, nel corso di un dialogo avuto con lui a Parigi, in occasione
della pubblicazione della versione francese di A Theory of Justice, e ho fatto riferimento al paragrafo 4 del suo
libro, che mi permetto di citare qui, in cui dice che in fondo anche
l'argomento più sottile dev'essere più o meno conforme a ciò che
abbiamo definito giusto o ingiusto, ed è ciò che egli definisce un
«equilibrio» tra il sentimento naturale della giustizia e il calcolo
più sofisticato dei teorici. Bisogna che vi sia fitness,
com'egli dice, ossia adattamento. Io tenderei a dire che l'argomento
del «maxi-mini» non sostituisce il nostro senso della giustizia e
soprattutto non lo fonda, ma lo razionalizza, permettendoci di
correggere i nostri pregiudizi, in particolare verso le vittime del
nostro sistema di diseguaglianza, soprattutto nell'economia di
mercato, nelle società capitalistiche, ma anche in quelle socialiste.
Sono convinto che i nostri sistemi creano delle vittime e che
«interrogare la vittima» è il primo senso della giustizia. Tenderei
a dire che ciò che vi è di più profondamente umano nell'idea di
giustizia è di limitare al massimo la produzione di vittime nella
storia, di liberare l'umanità da questa proliferazione di
ingiustizia, che è il prezzo da pagare per lo splendore di una
società, per i grandi traguardi, anche tecnologici. Vi è un prezzo
crescente da pagare in vittime dello sfruttamento, per esempio oggi a
carico del Terzo Mondo, per i successi del primo e forse anche del
secondo mondo. Dunque colgo in Rawls quest'idea: che il senso della
giustizia imponga di porsi dal punto di vista dei più svantaggiati.
La giustizia è un ideale, un
punto di riferimento perenne dell'umanità, un'aspirazione che
probabilmente è sempre sussistita. Ma il mondo, la realtà sembrano
sempre molto lontani da quell'ideale. Si può dire che oggi viviamo in
un mondo più giusto rispetto al passato? Si può affermare che c'è
un «progresso» nella giustizia?
Le risponderò che, paradossalmente, c’è un progresso della coscienza della giustizia, ma al tempo stesso un progresso
dell'ingiustizia, e una cosa va con l'altra. E' infatti vero che
attraverso la nostra cultura greco-latina e giudaico-cristiana,
attraverso il Rinascimento, la Riforma, l'Illuminismo, e le grandi
rivoluzioni socialiste del XIX e XX secolo abbiamo affinato il nostro
senso della giustizia, e direi che c'è stato un progresso in questa
direzione, una maggiore intolleranza verso l'ingiustizia. Ma possiamo
ugualmente dire che vi sia stato un progresso della giustizia
effettiva? Esiterei molto prima di rispondere. Io mi chiedo se i
guasti del sistema del benessere, del sistema della società dei
consumi, non siano più pesanti per noi oggi di quanto non siano mai
stati in passato. Si dà il caso che, in un recente colloquio che
organizzato a Napoli su Etica e
politica, io abbia terminato il mio intervento dicendo che viviamo
in una società che ha un rapporto ambiguo prima di tutto con se
stessa, poiché per un verso valorizziamo le indubbie acquisizioni
della civiltà materiale - vi sono molti più beni disponibili per un
maggior numero di persone, vi è prosperità più diffusa e abbondanza
- ma per un altro verso non siamo soddisfatti di questa società. Ed
è abbastanza singolare che siamo forse la prima società nella storia
che detesta il proprio successo e che, in ogni caso, lo mette per lo
meno in questione.
Noi viviamo nel regno della tecnocrazia,
in cui non solo le cose, ma anche le persone vengono «amministrate»,
con l'aumento delle ineguaglianze, la manipolazione del linguaggio ad
opera dei media, gli
inquinamenti di ogni genere, da quello delle automobili e degli
scarichi industriali a quello emotivo e spirituale, viviamo in una
società del desiderio senza fine, in cui il successo individuale
tende a oscurare l'ideale del «vivere bene insieme». Vorrei pertanto
ritornare su quella nozione da cui ero partito, e che per me è l'idea
morale per eccellenza - o l'idea etica, se preferisce: la parola
«morale» è un po' sospetta - quella del «ben vivere insieme», in
cui l'idea di giustizia si associa, a me pare, ad un senso molto più
vivo della comunità che non quello della tutela dei propri diritti.
Probabilmente il limite dell'idea di giustizia si trova in questa
espressione: «datemi ciò che mi è dovuto, tutto ciò che mi è
dovuto, niente altro che ciò che mi è dovuto». A mio avviso, la
«condizione» e la «convivialità» stanno più in alto dell'idea di
giustizia, pura e semplice.
Giustizia e diritto non vanno
sempre d'accordo. Ci può essere infatti una legge non giusta, e
questo è evidente: basti pensare al nazismo, un sistema politico in
cui molte leggi erano contro la giustizia e anche contro l'umanità.
Ma la giustizia, allora, dove si deve collocare? È solo un concetto
morale? E dobbiamo rinunciare all'idea di una qualche
“coincidenza” tra giustizia e diritto?
La sua domanda coglie certamente un paradosso che fa parte della
nostra realtà umana e finita. Voglio dire con questo che da una parte
c'è l'idea di giustizia, dall'altra le leggi scritte proprie dei
diversi paesi e delle rispettive legislazioni nazionali. Dunque,
abbiamo in qualche modo due concetti di giustizia: da un lato l'ideale
di giustizia di cui parla la filosofia del diritto, dall'altro la
giustizia legata al diritto positivo. Si definisce diritto positivo
quello che è iscritto nelle leggi. Di fatto, ci possono essere leggi
giuste, nel senso che certi atti sono dichiarati giusti se risultano
conformi a quelle leggi, ma queste a loro volta possono essere
ingiuste se considerate non più nel loro nesso interno, ma in
rapporto a un progetto che oltrepassa non soltanto le costituzioni, ma
le stesse nazioni, che è dunque per essenza cosmopolitico. Lei mi
dirà che in questo modo la giustizia torna ad essere un concetto
appartenente alla sfera morale. Ma il problema che ci ponevamo era
appunto distinguere la giustizia dalla morale, e perciò ho detto che
la sua domanda coglieva un effettivo paradosso, perché resta il fatto
che il concetto di giustizia, quand'anche ci serva a condannare leggi
ingiuste, non appartiene alla morale: con esso, infatti, non si pone
il problema della purezza delle intenzioni, ma piuttosto ci si propone
di correggere i comportamenti. Da questo punto di vista, Kant e Hegel
hanno ragione: il diritto è distinto dalla morale, nel senso che si
presenta come la sfera dell'esteriorità, gli uomini vi appaiono
esterni gli uni agli altri, e il tribunale reale esterno a quello
della coscienza. Allora io penso che quel paradosso sia risolto - ma
solo parzialmente risolto - mediante una nozione di cui si servono i
giuristi: quella di "principi generali del diritto".
I principi generali del diritto sono l'elemento di connessione tra la
giustizia come mero ideale e la giustizia legata al diritto positivo,
a leggi scritte, che possono essere talvolta leggi criminali. Per
esempio, gli ebrei sono stati sterminati in base a leggi firmate da un
capo dello stato legalmente eletto dai suoi concittadini. Dei principi
generali del diritto si potrebbe dire che sono appunto l'espressione
della sensibilità morale dell'umanità a un dato momento storico. A
ogni dato momento noi abbiamo una certa visione di come dovrebbero
essere dei rapporti di coesistenza capaci di rendere gli uomini
sopportabili gli uni agli altri. In questo senso la giustizia è un
concetto che non appartiene né alla morale né al diritto positivo,
ma ai principi generali del diritto che si trovano nelle dichiarazioni
universali dei diritti come la Dichiarazione dei diritti dell'uomo
della Rivoluzione americana, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo
francese, e nel preambolo di parecchie costituzioni. Infatti parecchie
costituzioni contengono principi più giusti del contenuto determinato
delle leggi. Prenda ad esempio le costituzioni staliniane che
comportavano dei principi generali del diritto che sono rimasti
inapplicati. Perciò oggi un politico come Gorbaciov può dire:
torniamo alla giustizia leninista, alla giustizia socialista, perché
c'era veramente uno scarto tra ciò che veniva dichiarato nelle
costituzioni - dato che la giustizia è oggetto di dichiarazioni - e
l'effettiva giurisprudenza. È possibile uno scarto tra le
dichiarazioni concernenti la giustizia e il diritto positivo di una
nazione a un dato momento storico.
Ma esiste oggi, secondo lei, la
possibilità di identificare un unico principio di giustizia? Esiste
cioè una giustizia o ci sono più giustizie? E nel secondo caso,
queste non rischiano di contrapporsi l'una all'altra? Non c'è
pericolo di cadere nel relativismo e nello scetticismo?
Questa questione è complementare a quella che ci ha condotti a
concepire un rapporto gerarchico tra l'idea di giustizia, i principi
generali del diritto e il diritto positivo. La sua domanda si
riferisce infatti alla partizione interna del diritto positivo.
Abbiamo il diritto pubblico, il diritto privato, il diritto sociale,
il diritto penale e si determina una specie di divisione del lavoro,
di parcellizzazione per cui uno studioso non è competente al tempo
stesso in questa e in quella sfera. Ho dei colleghi giuristi che
dicono: io mi occupo di diritto pubblico, non ho niente a che vedere
col diritto privato. Ed entrambi sono d'accordo nel disinteressarsi
del collega che fa diritto sociale. E a sua volta quello che fa
diritto sociale, che si interessa di sicurezza sociale, di diritto del
lavoro, di infortunistica, per esempio, penserà che gli altri sono
dei fabbricanti di astrazioni. Invece io credo si debba riconoscere
che il diritto è frammentato semplicemente perché le forme di
relazione in cui si può entrare con gli altri sono di natura
molteplice. E ciò è legato a un importante fenomeno delle società
moderne che è la loro crescente complessità. In una società sempre
più complessa si dà un numero sempre più grande di tipi di
relazione e questo fa sì che le relazioni di diritto pubblico tra
concittadini non coincidano con le relazioni che si stabiliscono nella
definizione dei contratti, per esempio, nel diritto di successone o
nel diritto sociale. Bisogna riconoscere che ci possono essere dei
conflitti.
Ho fatto l'esempio del diritto di successione. É un caso molto
interessante, perché è un punto su cui ci può essere conflitto tra
diritto sociale e diritto privato, secondo il quale un padre di
famiglia deve poter legare ai figli la maggior parte del suo
patrimonio: si lavora per i figli. Il diritto riconosce la
possibilità di trasmettere la proprietà, ma potrebbe trattarsi di un
valore antisociale, perché darà luogo a un'accumulazione di capitale
e dall'altra parte a una privazione. In questo caso il diritto sociale
può interferire nel diritto privato. Prenda l'esempio delle
espropriazioni. Per ragioni di pubblica utilità si è reso necessario
aprire un'autostrada o un aeroporto là dove c'è la sua proprietà.
Sorge così un conflitto tra il diritto privato e il diritto sociale.
Ma il conflitto fa parte della nostra realtà umana. Non si deve
credere che entrando nella sfera giuridica si esca per ciò stesso dal
conflitto. Si entra piuttosto in una sfera in cui i conflitti sono
riconosciuti e si danno regole per risolverli. Ma tali regole non sono
necessariamente omogenee, non formano un sistema. Uno dei problemi,
appunto, del diritto è quello di eliminare il maggior numero di
contraddizioni, perché un principio generale del diritto è che una
legge non può contraddire un'altra legge. É compito dei giuristi
armonizzare tra loro le sfere del diritto, ridurre al minimo le
contraddizioni giacché il diritto riposa essenzialmente su un
principio di coerenza: una legge non può contraddire un'altra legge.
Se la contraddice, una delle due deve essere abolita. Non è dunque
questione di relativismo, ma di complessità. Una società bene
ordinata - per usare una espressione che piace ad Hannah Arendt - non
è quella in cui non ci sono conflitti, ma quella in cui ci sono
regole per trattare i conflitti. in questa prospettiva consenso e
conflitto vanno di pari passo. Più una società è complessa, più
crea conflitti, più consenso chiede sulle regole di procedura. In
ciò Rawls ha ragione il progresso più grande che si può fare è
nelle procedure.
Che cosa si può fare oggi per
rendere il mondo più giusto? In molte persone c'è un senso di
rassegnazione di fronte a ingiustizie a volte estremamente palesi.
C'è, invece, la possibilità di reagire a questa rassegnazione? C'è
possibilità, per ognuno di noi, dunque anche per l'uomo che vive una
vita semplicemente privata, di fare qualcosa perché il mondo diventi
più giusto?
Quando dal piano di quello che abbiamo definito come ideale di
giustizia vogliamo passare alla sua realizzazione sul piano pratico,
dobbiamo chiederci cosa fare perché le società in cui viviamo vi si
conformino. Vorrei mettere in evidenza in proposito tre problemi.
Innanzitutto, una prospettiva cosmopolitica. Credo che si debba
tornare all'idea dell'Aufklärung, degli uomini del XVIII secolo, secondo cui bisogna
pensare fin da principio all'umanità nel suo insieme. È un passo
fondamentale, perché se non pensiamo che l'umanità sia una, facciamo
la prima concessione al razzismo: ammettiamo che ci siano diverse
umanità. Bisogna allora pensare che l'umanità sia una e quindi porre
il problema della giustizia a livello dell'umanità. Se dunque
pensiamo la giustizia in senso cosmopolitico, nel senso che le avevano
dato gli uomini del XVIII secolo, siamo introdotti al secondo
problema, che è il tipo di diseguaglianza creata dallo sviluppo
economico. Bene, io credo che il progresso della giustizia, stia
innanzitutto nel rendere possibile l'umanità come una grande
convivialità, convivialità appunto tra il Terzo Mondo e il mondo
dello sviluppo. Mi sembra che il grande pericolo che corriamo
attualmente, all'epoca del debito del Terzo Mondo, è di non
commerciare più che tra nazioni che possono pagare, cioè di
soddisfare solamente bisogni solvibili.
La giustizia, secondo il mio modo di intenderla, consiste nel rompere
questa regola che soltanto i bisogni solvibili debbano essere
soddisfatti. E ciò implica, secondo me, il passaggio dall'idea di
un'economia mercantile all'idea di un'economia dei bisogni. Ci sono
bisogni umani fondamentali da soddisfare. Io mi spingo fino a dire che
dal momento che uno nasce ha un diritto, perché non ha scelto di
nascere e la società gli deve qualcosa, gli deve permettere di
sopravvivere, non soltanto con la medicina, con la pediatria, ma con
un minimo di risorse. Credo che ogni uomo abbia diritto a un minimo di
risorse. Era questa la seconda idea che volevo sviluppare a partire
dal progetto cosmopolitico di un'unica umanità e la sua attuazione
più urgente è nel far prevalere un'economia dei bisogni umani su
un'economia dei bisogni solvibili. E in terzo luogo il problema, per
le nostre civiltà occidentali, mi sembra che sia di andare il più
lontano possibile nel riconoscimento delle differenze. Contro il
progetto di rendere omogenea l'umanità, di rendere tutti gli uomini
simili gli uni agli altri in base a un modello culturale uniforme,
bisogna dare il più largo credito alla differenza, differenza dei
diritti dei sessi, delle età, - dei bambini e degli anziani - delle
forme di comportamento che consideriamo devianti, come quello
omosessuale, fino al problema che pone l'esistenza in mezzo a noi dei
drogati: come rispettare l'uomo in uno che non rispetta più se stesso
e come arrivare - ecco la domanda che dobbiamo porci - ad una
concezione della giustizia meno punitiva che educativa, capace di
aiutare l'uomo a entrare nella sua umanità.
Lei sottolinea che la giustizia
non deve avere solamente una finalità punitiva, ma anche educativa.
Eppure l'esercizio della giustizia può comportare l'uso della forza,
l'uso della coercizione. Basta pensare appunto alla privazione della
libertà che è una coercizione necessaria nel caso di certi reati.
Quali sono dunque i rapporti tra giustizia e forza? È mai pensabile
una giustizia disarmata? Ma se deve essere armata, come deve essere
armata la giustizia?
Non facciamo professione di realismo, ma semplicemente
riconosciamo i limiti della giustizia - che non è l'ultima parola in
fatto di rapporti umani - se diciamo che essa implica l'uso della
forza. Credo che fosse già un pensiero di Pascal: l'unione della
giustizia e della forza è il problema della punizione.
Dirò due cose a questo proposito: in primo luogo, viviamo in una
società che non può tollerare tutto, per la quale esiste qualcosa di
intollerabile - anche in rapporto alle leggi più giuste, e non
soltanto rispetto alle leggi criminali che abbiamo evocato prima - per
la quale ci sono delle deviazioni e delle trasgressioni che devono
essere punite e bisogna sapere che si deve usare la forza. Ma così mi
pare che si ammette il fallimento della società. La società
sperimenta i suoi limiti nel fatto che non può funzionare senza un
minimo di forza. Ciò vuol dire che non abbiamo risolto il problema
del "vivere bene insieme", che è in definitiva la nostra
utopia. Ammettere l'esercizio della forza è riconoscere che la
società ha fallito. Così ogni volta che si arresta un ladro, diciamo
che la società produce in certo senso i suoi ladri, perché ha
mancato lo scopo di educare, ha fallito nei rapporti familiari, nei
rapporti di lavoro, in quelli del tempo libero e così via.
La prima cosa è riconoscere che l'uso della forza denota lo scacco di
una società. In secondo luogo, bisogna servirsi della punizione il
più possibile come di un mezzo di educazione, bisogna eliminare dalla
punizione l'idea di espiazione. E - questo mi pare importante - il
pensatore italiano che per primo ha concepito le cose in questi
termini è stato Cesare Beccaria. Beccaria si era posto ad esempio il
problema per le prigioni pontificie, ed è stato lui il primo che ha
avuto l'idea di una punizione che fosse educativa. È un pensiero le
cui conseguenze portano lontano perché le forme di reclusione che noi
pratichiamo - è una cosa che Michel Foucault ha ripetutamente
affermato in tutta la sua opera - producono l'effetto contrario: si
può dire che le prigioni siano delle scuole del crimine.
Certo, attualmente dovremmo sperimentare delle forme di pena
diverse dalla reclusione, come il lavoro sociale, o qualcosa del
genere; ma, finché si continuerà a lavorare in carcere, che il
lavoro almeno sia remunerato, e che, se il carcere è privazione della
libertà, sia soltanto privazione della libertà. Gli uomini e le
donne nelle prigioni hanno diritto a rapporti umani e in particolare a
un lavoro remunerato, a un lavoro salariato. Ciò vuol dire che il
criminale, per quanto criminale, per quanto criminale sia, dev'essere
ancora rispettato nella sua umanità.
Oggi si avverte una certa
reticenza all'esercizio della giustizia, quando questo significa dover
punire. C'è una tendenza al permissivismo, quasi che un oscuro senso
di colpa pesi sull'esercizio della punizione. Di fronte a questa
remissività molti chiedono una giustizia più rigida. Secondo recenti
sondaggi, pare che in Gran Bretagna l'80% della popolazione sia
favorevole al ripristino della pena di morte. Quali sono le vie per
giungere a una giustizia più rigorosa, senza cadere in eccessi? E
perché la giustizia tende oggi ad essere più debole per certi
aspetti?
Credo che alla sua domanda non si possa rispondere rimanendo sullo
stesso piano su cui lei la pone. Data la situazione di insicurezza
delle grandi città moderne, negli Stati Uniti, in Francia, in Italia,
è vero che i cittadini hanno diritto di proteggersi e quindi è
dovuta loro la sicurezza - e non c'è sicurezza senza punizione.
Questo è un fatto. Ma, per tornare a ciò che dicevo poco fa, bisogna
pensare anche alla società che ha prodotto il crimine. E allora
l'azione giusta è attaccare le cause sociali, le cause economiche
della criminalità. Se poniamo il problema della criminalità come un
problema isolato ci veniamo a trovare in una specie di paradosso, in
cui gli uni diranno: chiediamo di essere protetti, quindi punite di
più; gli altri: ma i carcerati sono uomini, e quindi bisogna
rispettarli, irrogare pene più leggere e via dicendo. Non c'è dunque
soluzione a livello della criminalità, della punizione, ma a livello
della guarigione, della fisiologia e della terapia sociale. È un
problema di terapia sociale e non soltanto di punizione.
Al sostantivo «giustizia» si
aggiunge spesso l'aggettivo «sociale», parlando così di «giustizia
sociale». Ma qual è il rapporto tra giustizia tout
court e giustizia sociale? Che cosa manca oggi poi alla
realizzazione di una giustizia sociale?
La sua domanda trae il suo senso dalla storia del diritto, perché il
diritto è stato, fino all'inizio di questo secolo, soprattutto
diritto pubblico e privato: quindi, da una parte il diritto che regola
i rapporti delle diverse istituzioni tra di loro, dei poteri pubblici
gli uni in rapporto con gli altri, - locali, regionali, nazionali - un
diritto inteso a strutturare un sistema istituzionale e
amministrativo, con i diritti degli individui di fronte a quelle
istituzioni e amministrazioni, e i diritti delle istituzioni nei loro
rapporti conflittuali; e dall'altra parte la sfera privata che è
essenzialmente, come hanno detto Kant e Hegel, il rapporto del
«mio»e del «tuo». È invece solo nel XX secolo che si è
sviluppata una nuova concezione del diritto, per cui si è dovuto
aggiungere a «diritto» l'aggettivo «sociale», per distinguerlo da
quella visione limitata del diritto come diritto delle istituzioni e
dei contratti. Il diritto sociale è nato quando si è cominciato a
riconoscere che la società produce essa stessa diseguaglianza e
ingiustizie, direi, proprio quando funziona meglio e nel modo più
produttivo, sviluppando benessere, ricchezza e cultura, quando la
redistribuzione dei benefici del lavoro di tutti diventa per sé un
problema. Credo che si tratta dell'idea che il diritto non è più
legato al capitale e nemmeno al lavoro effettivo, ma che l'uomo ha
diritto a qualcosa solo in quanto uomo, e che occorre ridistribuire il
prodotto della proprietà e quello del lavoro, per tendere a una
convivialità in cui gli uomini siano più vicini gli uni agli altri.
Oserei dire, in proposito, che l'idea di eguaglianza è altrettanto importante dell'idea di giustizia, perché l'idea di
giustizia è ancora legata all'opposizione del mio e del tuo. Credo
che ci sia una specie, non dirò di vizio, ma di limitazione iniziale
dell'idea di giustizia, perché essa non ha come scopo la
realizzazione della comunità, ma semplicemente, come aveva ben visto
Kant, della coesistenza. Ma noi abbiamo un progetto più grande, che
è la «convivialità». È qui che introduco la mia idea di
eguaglianza, perché credo che lo status
sociale degli uomini sia troppo disparato: se c'è uno scarto troppo
grande tra i più avvantaggiati e i più svantaggiati, non è
possibile alcuna comunità. Ma io credo che la comunità non sarebbe
possibile che tra uomini che fossero per condizione prossimi gli uni
agli altri. E questo mi sembra tanto più necessario in una società
resa trasparente a se stessa dai mass-media. Oggi i poveri vedono come vivono i ricchi attraverso il
cinema e in tanti altri modi, dunque non c'è più quella ignoranza di
un tempo e il mito che i ricchi vivessero in un altrove inaccessibile.
Oggi abbiamo una specie di socializzazione attraverso l'informazione e
anche grazie al tempo libero. È necessario avvicinare i livelli della
condizione sociale degli uomini. Perciò l'idea di uguaglianza dev'essere
altrettanto forte dell'idea di giustizia.
Si è parlato di giustizia
sociale e di uguaglianza. Questi ideali di giustizia sociale e di
uguaglianza sono stati ripresi con forza durante la contestazione
giovanile del '68. Se non sbaglio, lei nel maggio del '68 era rettore
dell’Università di Paris-Nanterre. Come ha vissuto quel momento,
come hanno vissuto in quel momento questi ideali di giustizia?
Lei mi richiama a un passato che per me è ancora molto ambiguo,
perché come molti di coloro che sono stati attori o protagonisti
degli anni '68-'70, continuo a chiedermi che cosa è successo
realmente. Era soltanto un grande giuoco simbolico o un'effettiva
messa in questione delle istituzioni? Io credo che ogni società abbia
bisogno per così dire di una “creatività marginale”, cioè di
gruppi forniti di progetti alternativi, che anche se non possono
essere integrati e realizzati, hanno la funzione di sviluppare
l'immaginazione dell'«altrove», dunque di altri modi di vivere, di
un modo più umano di rapportarsi alla proprietà e di esercitare il
potere tra quelli che comandano e quelli che obbediscono. Una società
entra in fusione a un dato momento per una sorta di condivisione della
parola e per un eccesso. D'altronde, credo che ciò sia bene per una
società, quando i suoi rapporti istituzionali sono sclerotizzati, e
nel caso del '68 in Francia mi è sembrata un'eccellente terapia,
forse un po' come certe feste, come il carnevale, che rompe la
quotidianità con il sogno di un altro modo di vivere insieme. Direi
che in definitiva abbiamo integrato molti spunti del '68.
Nessuno esercita più il potere come prima. Si è determinato un
avvicinamento, a mio parere, tra coloro che esercitano il potere e gli
amministrati e c'è una maggiore partecipazione alle decisioni in un
gran numero di istituzioni. Credo che ci sia un'azione lenta e
sotterranea del '68, al di là dell'insuccesso immediato. Io stesso ho
vissuto l'evento come una specie di lacerazione, perché da una parte
avevo grande simpatia intellettuale per molti ideali rivoluzionari del
'68 e un rapporto di stima personale verso Daniel Cohn-Bendit,
dall'altra ero responsabile dell'istituzione, e avevo un sentimento
quasi hegeliano della necessità di far funzionare l'istituzione, e
quindi ero preso in questa contraddizione di nutrire una simpatia
profonda non soltanto emotiva, ma intellettuale verso quegli stessi
che mi impedivano di far funzionare l'istituzione. E l'ho vissuta come
una lacerazione personale, che si è tradotta del resto in uno scacco,
perché ad un certo punto è intervenuta la polizia a ristabilire
l'ordine e io ho dato le dimissioni. Ma è stata per me un'esperienza
estremamente istruttiva, perché ho capito, in primo luogo, che non
ero dotato per l'amministrazione, e poi che ogni società si deve
misurare a un certo momento con questo paradosso di essere rimessa
radicalmente in questione dai suoi stessi margini, dai suoi elementi
marginali e che d'altra parte una società moderna è troppo complessa
perché la si possa ricostruire a partire da zero. Allora sorge un
conflitto tra gli ideali, che direi rivoluzionari, e una pratica
riformista e bisogna sapersi mantenere e saper mediare tra i due poli.
È quello che ho imparato dal '68.
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