Meri
per sempre
e altre storie
Aurelio
Grimaldi con Antonia Anania
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Se fossi uno importante
Il
regista Aurelio Grimaldi è a Roma per un giorno, e pur avendo
continui appuntamenti di lavoro, è contento di “tornare un po’
indietro con gli anni”, per raccontarci di quando più di quindici
anni fa insegnava al Malaspina, il carcere minorile palermitano. Da
quella esperienza nacque un libro Meri
per sempre che divenne un film diretto da Marco Risi e
interpretato da Michele Placido: iniziò in quel modo un percorso che
ha condotto Grimaldi nel mondo del cinema sociale prima, erotico dopo.
Perché scelse di insegnare in
un carcere?
Quello di poter lavorare in un carcere era una sorta di desiderio
adolescenziale. Da bambino avevo vissuto l’esperienza negativa di
quelle colonie estive organizzate per figli di ferrovieri come me. In
quegli edifici gli orfani di ferrovieri vivevano anche d’inverno,
per cui oltre all’angoscia di quelle tre settimane, tra le più
brutte della mia vita, mi è rimasto sempre il pensiero che c’erano
bambini costretti a rimanerci per anni interi. E ho fatto risalire a
quell’esperienza il convincimento che nel mio desiderio di essere
insegnante ci dovesse essere la possibilità di insegnare a ragazzi
privati completamente o in parte della libertà. Così la decisione fu
abbastanza naturale. Al primo anno di insegnamento quando andai a
scegliere la sede dei neo-assunti, vincitori di concorso, c’era un
posto nel carcere minorile, che oltre tutto non voleva nessuno:
realizzai immediatamente il mio antichissimo sogno
Com’è stata l’esperienza
al Malaspina?
Fortissima, e poi ulteriormente amplificata per il fatto di essere
stata raccontata in libri e film. Sì, fu un’esperienza molto più
forte del previsto perché io immaginavo che dovesse essere costruita
sul rapporto tra insegnanti e alunni, e non immaginavo invece la
struttura kafkiana, cupa, disumanizzata che ho incontrato.
Una struttura sia architettonica che fisica: le persone che ci
lavoravano, il modo in cui era strutturata la vita dei ragazzi. Lo
scontro fu proprio frontale, perché non mi aspettavo di dover
affrontare un fantasma invisibile come il Carcere con la C maiuscola.
Se l’impatto con quel tipo di struttura fu fortissimo, quello con i
ragazzi fu altrettanto forte ma anche molto atteso, perché
naturalmente fu la parte più emozionante.
Quanto era autobiografico il
film Meri per sempre?
Era tratto da un libro omonimo completamente autobiografico, in cui
erano contenuti anche i temi dei ragazzi che raccontavano le loro
storie in prima persona, seguiti da un mio resoconto del primo anno
scolastico. Da quel libro totalmente autobiografico è stato tratto il
film chiaramente con le libertà che doverosamente una struttura
cinematografica prende sempre.
Lei è andato via dal carcere
come fa Michele Placido nel film?
Io non me ne sono andato con le mie gambe, nel senso che successero
delle situazioni particolari, subii delle minacce e mi allontanarono
provvisoriamente e invece (ride)
quel "provvisoriamente" fu l’occasione per non farmi
tornare più. Nel frattempo però avevo insegnato lì per quasi
quattro anni.

Avrebbe scelto volontariamente
di andarsene?
No, ma probabilmente l’esperienza meritava una conclusione perché
lo scontro iniziale produce possibilità di innovazione mentre a lungo
andare c’è il rischio che tutto si esaurisca soltanto nello
scontro. Ricordo che il secondo anno fu sostituito il direttore e ci
fu la possibilità di grossi cambiamenti; poi la struttura in qualche
misura riprese il sopravvento e i cambiamenti avvenuti divennero
patrimonio della struttura. Chi entra oggi nel carcere minorile trova
una situazione molto cambiata, anche se il carcere andrebbe
ristrutturato totalmente.
Dopo che ci fu lo scandalo degli agenti di custodia delle carceri
sarde ho scritto un articolo per la rivista palermitana “Segno”,
che tanta importanza aveva avuto per me, per invogliarmi a scrivere Meri per sempre: la mia esperienza fu notata proprio in un pezzo che
avevo scritto su quella rivista. Nell'articolo sulle carceri sarde
ribadivo che finché la struttura non viene modificata, cosa che si può
fare molto lentamente con molte risorse e molto impegno governativo e
politico, situazioni come quelle sono destinate a ripetersi. Finché
il carcere viene considerato una topaia, un luogo di guerra tra poveri
- gli agenti di custodia disperatissimi, incazzatissimi, incoltissimi
e i detenuti privati della propria libertà - finché non viene
modificata la base di questa struttura trasformandola in una struttura
educativa, quindi con una prevalenza di operatori educativi e non di
operatori di controllo della disciplina, gli scontri violenti sono
sempre pronti a riesplodere.
Frequenta ancora le carceri?
Quando mi invitano ci torno volentierissimo, adesso sto collaborando
con la Rai per i documentari di C'era
una volta e sogno di girare presto un documentario in un carcere.
Che cosa le è rimasto della
sua permanenza al Malaspina?
La convinzione che già avevo prima di mettere piede nel carcere che
la libertà umana sia essenziale per tutti, e che in carcere vanno a
finire soprattutto ragazzini e ragazzine puniti dalle ingiustizie
sociali.
Che cosa intende?
In tutti gli anni trascorsi al Malaspina mi sono passati tra le mani
centinaia di ragazzi e poi ho fatto un anno alla rieducazione
femminile, quindi anche numerose ragazze, e venivano tutti dai
quartieri popolari. Non succedeva mai che un figlio di papà arrivasse
in carcere, se raramente capitava usciva immediatamente: una volta
arrivarono due ragazzi per una questione legata alla droga ma
passarono in cella solo due o tre giorni e poi vennero rilasciati.
Cosa si può fare per i ragazzi
dei quartieri popolari?
Loro sono la totalità della popolazione di queste carceri, e sono
doppiamente bastonati dalla vita: primo, perché hanno vissuto in
quartieri e situazioni familiari difficili; poi perché, come premio
alla fine di questo percorso ad ostacoli, arriva la batosta del
carcere. Nella mia aspirazione a una società più giusta c’è
l’impegno per carceri più umane e più eque. Negli Stati Uniti
vengono condannati a morte solo le persone di colore o comunque chi
non è in grado di pagarsi gli avvocati. In Italia a livello minorile
succede la stessa cosa; e temo che anche tra gli adulti chi non può
permettersi avvocati di un certo tipo ha difficoltà ad ottenere quei
benefici dalla legge dei quali Dell’Utri, Previti, Berlusconi hanno
ampiamente usufruito.
E' molto doloroso appartenere ad uno Stato dove chi ha più
soldi ha più possibilità di difendersi davanti alla giustizia.
Ha notizie dei suoi ex
studenti?
Mi capita di incontrarmi con alcuni di loro, che adesso sono
sposati e con figli. Qualcuno è uscito dal giro, qualcuno ci sta
ancora con un piede, qualcun altro c’è rimasto con tutte e due,
perché comunque sono esperienze che lasciano il segno. Nel prossimo
documentario che girerò per C'era una volta con molta probabilità uno dei protagonisti sarà un
mio ex alunno del Malaspina.
Eventi come quelli avvenuti
nelle settimane scorse - overdose, cucirsi la bocca - succedevano
anche quindici anni fa?
Al Malaspina questi casi erano più rari, perché il numero di
detenuti è inferiore a quelle di carceri come Rebibbia o Ucciardone o
Le Vallette. Oltre tutto, i ragazzi scontano pene normalmente molto più
basse, perché esiste una valutazione da parte del Tribunale dei
Minori proporzionata all’età di chi ha commesso il reato. L’anno
scorso ho girato per la Rai il documentario Ragazzi
fuori Torino e sono entrato nel carcere minorile della città
notando, ieri come oggi, che a ragazzi così giovani viene negato
qualsiasi accesso a esperienze pulite e positive: il che significa che
per questi ragazzi non c’è assolutamente scampo. Morire per
overdose, suicidarsi sono le conseguenza di questa negazione di libertà.
Non ha mai avuto paura dei suoi
studenti?
Forse solo durante situazioni di tensione che create fra i ragazzi
e gli agenti di custodia, i miei eterni nemici, anche se
involontariamente.
Che cosa significa?
Chiaramente noi insegnanti eravamo portatori di un’idea di carcere
abissalmente diversa dalla loro. Per questo loro vedevano la mia
presenza come un attentato al loro equilibrio, alla loro stabilità,
anche alla loro dignità. Per cui anche le situazioni di pericolo
erano causate da fattori estranei al mio rapporto coi ragazzi: io ero
un insegnante e quindi il nostro era un rapporto di idee e di ideali.
Non ero entrato al Malaspina per far sì che loro fossero puniti,
redarguiti, maltrattati, ero lì perché mi auguravo che quella
esperienza per loro fosse la più breve possibile e non si ripetesse
mai più. Non parlavo di regolamenti di conti, celle di isolamento,
pestaggi, e questo mi favoriva. Quando il rapporto era solo educativo
non era possibile avere paura, quando invece intervenivano altri
elementi, allora non si parlava più di idee e ideali ma di potere
all'’interno della struttura.
Come è nato il film?
In maniera casualissima. Avevo scritto il libro per una piccola casa
editrice, La Luna, e ne furono pubblicate due pagine su Panorama,
grazie a Bianca Stancanelli, redattrice palermitana di Panorama.
Queste due pagine furono lette da Michele Placido, che miracolosamente
e inspiegabilmente ebbe l’idea di farne un film: mi contattarono, e
fu una strada tutto sommato veloce.
E poi è passato da insegnante
a regista.
Sì, l'esperienza di Meri
per sempre ha favorito la mia aspirazione a diventare regista.
Avendo avuto un grande successo come sceneggiatore sia con Meri
per sempre che con Ragazzi
fuori, quando ho chiesto di poter diventare regista a mia volta,
ho trovato subito produttori che mi hanno dato fiducia.
Da sceneggiatore di film di
matrice sociale a regista di film sensuali: c’è una spiegazione?
Sì, perché credo che la repressione sessuale sia un’altra
terribile prigione. I miei film erotici hanno coem tema l'impossibile
sforzo o desiderio di poter vivere la sessualità in maniera libera.
Perché sia Il macellaio, in
cui non sono riuscito ad essere completamente libero - anche se per
mia colpa - sia "La donna lupo”, girato con pochissimi soldi e
in piena libertà, raccontavano i tentativi non riusciti ma
volenterosi di conquistare una vera libertà interiore, della quale la
sessualità è parte fondamentale.
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