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L'insegnante all'inferno


Edoardo Albinati con Antonia Anania



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Edoardo Albinati è uno scrittore che dal 1994, insegna all’Istituto Tecnico Informatico del carcere romano di Rebibbia. “Maggio selvaggio” (Mondadori, 1999) è il titolo del romanzo-diario in cui racconta la sua esperienza di insegnante in prigione, di violenze e tenerezze, di sfottiture al prof e di partite di pallone, di disperazioni e di qualche raro sorriso.

Perché ha scelto di insegnare in carcere?

Per sperimentare, per fare una pratica al limite. Insegnavo Lettere in una scuola di borgata, e a quel punto mi sembrava giusto provare la situazione più estrema che ci possa essere per un insegnante: andare dove c’è più bisogno della parola.

Come si è rivelata questa esperienza?

Molto entusiasmante e al tempo stesso logorante: sono sei anni che insegno lì, il prossimo sarà il settimo e naturalmente per chiunque lavori all'interno del carcere, la pressione è molto forte. Egoisticamente parlando, l’esperienza è molto positiva, spero che lo sia altrettanto per i detenuti studenti.


Quanto può fare la scuola nel carcere?

Poco, fintanto che il resto dell'esperienza carceraria mantiene i suoi livelli di disumanità. La scuola può rappresentare al massimo una breve parentesi nella vita e giornata di un detenuto.

Gian Carlo Caselli ha dichiarato che verranno assunte 1140 figure professionali sul fronte civile amministrativo, tra cui molti educatori.  Che ne pensa?

Non ho idea, perché non faccio parte dell’istituzione carceraria: io sono un ospite. Il personale che viene assunto è interno alla struttura e all’istituzione del carcere. Penso che un aumento di personale possa essere utile, ma di per sé il numero di unità è secondario se non cambiano le modalità di fondo con le quali viene condotta la vita del detenuto.

Quali sono queste modalità?

Innanzitutto va chiarito all’esterno che cosa vuol dire educatore carcerario, perché si fa un uso molto ambiguo del termine: si.pensa che educatore sia qualcuno che insegna qualcosa; e invece gli educatori carcerari sono funzionari che seguono l’iter trattamentale dei vari detenuti, ma non li educano affatto.  Sicuramente un aumento del personale di sorveglianza nel carcere è positivo, ma non incide minimamente su ciò che io faccio nel carcere. Attualmente la reclusione è puro abbrutimento, e avere più sorveglianti non rende il carcere meno brutale.

Quanti sono i suoi studenti?

Mediamente all’inizio dell’anno in prima ho una settantina di iscritti che ruotano, mai tutti presenti contemporaneamente, per fortuna, perché renderebbero la cosa impossibile. Nel corso dell’anno alcuni tra quelli che si sono iscritti abbandonano, altri sono trasferiti, altri vanno ai processi. E nelle classi seguenti il numero diminuisce ulteriormente, anche fisiologicamente: trattandosi di una scuola che dura cinque anni, non tutti riescono a seguirla per intero. E questo in alcuni casi fortunati significa che gli "studenti" escono dal carcere, in altri casi invece vuol dire che vengono trasferiti.

Quali lezione sono particolarmente apprezzate?

Quest’anno è molto gradita la lettura della poesia, in particolare di Dante. In una classe abbiamo letto quasi interamente L’Inferno che è il più adatto, anche il più divertente se vogliamo, e contemporaneamente il più terribile. Ho notato che la poesia si "sente" molto; la cella funziona molto bene da cassa di risonanza della parola poetica, che riverbera forte.

Di che cosa hanno bisogno i detenuti?

Non hanno nulla, dunque la risposta è molto semplice: i carcerati hanno bisogno di tutto perché la vita reclusa è priva di qualsiasi rapporto, interesse, materia prima, relazione umana.

Un esempio pratico?

L’esempio pratico è che molti di loro non dovrebbero stare in carcere: ad una buona parte della popolazione detenuta, il carcere fa solo del male, come fa solo del male alla società che ce li mette. Tanto per cominciare, quindi si potrebbe dire i detenuti avrebbero semplicemente bisogno della libertà, intendendo per libertà la possibilità di scontare la propria pena diversamente che con la reclusione.

Che cosa rimane alla fine di una giornata con loro?

Molta fatica, un po’ di giramento di testa, che è anche normale, un senso di svuotamento che può essere molto positivo, per chi non sa dove mettere le sue energie.

Agosto secondo lei può essere il mese delle rivolte?

Agosto è l’inferno nel carcere, soprattutto nelle carceri dell’Italia centro-meridionale, perché tutto si riduce a zero, la scuola e le altre le attività chiudono, il personale diminuisce, il caldo aumenta. E il caldo che dà alla testa a chiunque.

C'è stato qualche cambiamento da segnalare quest’anno, rispetto agli anni precedenti?

Quest’anno ho molto ammirato nella quasi totalità della popolazione carceraria la compostezza nell’attesa dei nuovi provvedimenti che sono stati tanto discussi. Credo che prevarrà un senso di pazienza e di auto-controllo che nei detenuti è molto più forte di quanto si pensi ed è una notevole virtù di cui però il mondo esterno, il mondo politico in modo particolare, non può abusare a lungo, perché altrimenti la piena del risentimento non si arresterebbe. Finora però prevale questo senso di autocontrollo che peraltro i detenuti imparano a loro spese ad esercitare fin dal primo giorno in cui entrano in galera, e che posso dire di avere in qualche modo e almeno in parte cercato di imparare da loro.

Quindi almeno fino ad oggi non c’è sentore di possibile rivolta?

Le persone hanno spesso un’idea holliwoodiana della rivolta: si immaginano Burt Lancaster o Robert Redford alla guida di un manipolo di detenuti. E invece la rivolta può avvenire anche nel fatto che uno si ammazza, anzi adesso in modo più terribile capita di trovare detenuti impiccati o che si sono tagliati le vene o si sono cuciti la bocca … Non dobbiamo aspettare che si verifichino incidenti clamorosi per pensare che nel carcere si soffre in modo indicibile, perché oggi il fenomeno più straordinario e terribile della vita nel carcere e che dimostra come l’istituzione sia logora del suo significato è l’autolesionismo, fenomeno di rivolta non più verso l’esterno ma contro se stessi, ed è a mio avviso un messaggio muto. Non è un caso che molti atti di protesta consistano nel cucirsi la bocca, un gesto altamente simbolico che sta a significare: non ho più nulla da dire, quindi non ho neanche più proteste da fare. Noi però dovremmo raccogliere anche questi segni silenziosi, non solo quelli che fanno rumore.

Perché il maggio del suo romanzo era selvaggio?

Se qualcuno venisse dentro, lo capirebbe subito. So però che per molti è impossibile. Casomai può apparire casuale la scelta del mese: ma maggio è l’unico che fa rima con ‘selvaggio’, dunque non potevo sceglierne un altro. Comunque in maggio ho iniziato a scrivere il libro, e in maggio l’ho terminato.  Per essere selvaggio, lo era come tutti gli altri mesi che si vivono in galera.



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