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articolo è apparso su la Repubblica (www.repubblica.it)
del 13 novembre
Pietrangelo Buttafuoco sarà pure il migliore tra i giovani giornalisti
emersi nel '94 dal vivaio del neofascismo italiano, e il dialogo che ieri ha intessuto sul
"Foglio" con il vecchio antifascista Norberto Bobbio non può certo liquidarsi
come un semplice tranello.
Eppure leggerlo induceva un crescente senso di disagio, quasi ci
coinvolgesse in un rovistare impudico, una violenza sorridente, più che nello sviluppo di
un ragionamento. alla fine c'era di che restare allibiti, tornando a quel titolo: "La
serena confessione di Norberto Bobbio. Ero immerso nella doppiezza, fascista tra i
fascisti e antifascista con gli antifascisti. Non ne parlavo perché me ne ver-
go-gna-vo".
Sì, allibiti da questo bisogno di trascinare tutti quanti
indistintamente, cominciando se possibile dai "padri della patria", nel gorgo
autobiografico del fascismo, fino all'esito ultimo: banalizzare i torti e le ragioni,
neutralizzare il giudizio storico sulla piaga italiana di questo secolo.
Dunque Buttafuoco va a Torino per registrare la confessione intima del
professore novantenne sul suo fascismo giovanile, per coglierlo in fallo su di un presunto
passaggio tardivo (negli Anni Trenta!) a quell'antifascismo di cui diventerà il teorico
più autorevole. Bobbio lo riceve nello stato d'animo particolare di chi sta facendo gli
ultimi, spietati, conti con se stesso, disseppellendo anche le angosce più recondite pur
di non venir meno al rigore intellettuale di una vita. E si strugge, il vecchio
democratico, si mortifica ben oltre il necessario nella ricerca minuziosa delle proprie
colpe, anche se alla fine l'intervistatore ne ricaverà solo un ben magro bottino.
Udite, udite. Nel 1927 l'aspirante filosofo diciottenne, figlio di una
famiglia filofascista della borghesia piemontese, aveva comprato un orbace che non avrebbe
mai indossato e si era iscritto ai Guf, con i quali fece pure ben tre viaggi turistici
all'estero. Dopo la laurea si ritrovò automaticamente tesserato al Pnf. "Il mio
fascismo, il mio filofascismo familiare, scorreva accanto alla vita di tutti i giorni di
uno studente appassionato allo studio", ricorda Bobbio. "Non esiste un rigo di
quegli anni dove io abbia mai fatto apologia di fascismo, non mi interessavo affatto alla
politica e i miei amici, da Leone Ginsburg a Vittorio Foa, tutti antifascisti, mi
perdonavano queste mie debolezze".
In realtà è lui a non perdonarsele. L'intellettuale non si perdona di
essere rimasto esclusivamente tale quando altri già sceglievano la militanza politica
attiva. E ancor più si tormenterà, in seguito, per avere scritto una lettera al Duce
chiedendo nient'altro che il ripristino di un suo diritto all'insegnamento, negatogli dal
regime per ragioni politiche.
Oggi Bobbio ha una sola paura: quella di apparire indulgente con se
stesso. Eccolo allora infierire: "Ero immerso nella doppiezza, perché era comodo
fare così. Fare il fascista tra i fascisti e l'antifascista con gli antifascisti".
Così, nell'autodafé, sfuma anche la più ovvia delle considerazioni: che fosse la natura
totalitaria del sistema, e non altro, a spingere gli italiani verso la doppiezza. Sfuma,
perché l'intimo disagio di Bobbio diviene il tramite di un'operazione ideologica mirata a
correggere il giudizio storico del Bobbio medesimo sul fascismo. Quasi che le confessioni
del vecchio professore delegittimassero le sue opere di una vita, banalizzassero la sua
scelta democratica prima e dopo la Resistenza, negassero il suo ruolo di teorico
dell'antifascismo come valore necessario all'identità nazionale.
E' per questo che tutta l'intervista ruota, con gusto scrutatore,
intorno alla commozione di un uomo, di un antifascista, che prova un doloroso,
ingigantito, eccessivo senso di vergogna: "Mi chiede perché fino a oggi non abbiamo
parlato del nostro fascismo? Ebbene: perché ce ne ver-go-gna-va- mo". Nel passaggio
delicatissimo dalla riflessione storiografica all'esame di coscienza personale, s'instaura
un meccanismo micidiale. Bobbio in realtà si vergogna nei confronti dei coetanei che,
come Foa e Ginsburg, avevano già compiuto la scelta di passare all'azione, pagandola nel
carcere fascista. Chissà quante volte si sarà interrogato sulle circostanze familiari,
caratteriali, culturali in cui maturarono scelte di vita differenti. Foa scelse di
rischiare prima e più di Bobbio: che valore pubblico potremo mai attribuire a questa
differenza? Quanto ancora vogliamo indugiare su un terreno politicamente e
storiograficamente così improprio? Vogliamo forse ricordare che Giancarlo Pajetta,
espulso per antifascismo dal ginnasio torinese quando ancora portava i pantaloni corti,
ebbe una volta a ironizzare sulle titubanze del compagno di classe Foa, divenuto attivista
solo negli anni successivi? Ci interessa sapere se anche Foa si sentirà in colpa nei
confronti di Pajetta?
Le scelte di vita individuali sono impervie da giudicare, e non è
attraverso la misurazione del coraggio personale dell'arditismo - direbbe Buttafuoco- che
si fanno i conti con la vicenda storica del fascismo.
Sono anni ormai che storici di tutte le tendenze indagano sul consenso
al regime, sulla natura della guerra civile, sul comportamento degli intellettuali.
Misuriamo pure al microscopio tutte le sfumature della zona grigia diffusa tra fascismo e
antifascismo. Ma per favore smettiamola con questi goffi tentativi di metterli sullo
stesso piano, di parificarli quali accidenti storici attraverso cui disinvoltamente
volteggiare, come se la democrazia non fosse stata una conquista faticosa in questo Paese.
A meno che non vogliamo far nostro il pensiero di Augusto De Noce, di
cui ieri "Avvenire" pubblicava una lettera inedita a Prezzolini: per lui,
cattolico conservatore, il fascismo altro non era che l'esito ultimo del risorgimento.
Dietro al finto rispetto per il travaglio di Bobbio non è difficile
prevedere - al di là delle stesse intenzioni di Buttafuoco- la prossima esplosione del
dileggio sarcastico: alé, anche Bobbio è stato fascista, tutti siamo stati fascisti, e
poi tutti democristiani, e domani chissà, sempre furbi, da bravi italiani. Non è questa
la vicenda di Bobbio, non è questa la storia d'Italia.
E' semmai in questa dannazione della memoria, nell'incapacità di
separare una volta per tutte i torti dalle ragioni poste a fondamento della nostra
Repubblica, che allignano i pericoli dell'ignoranza. Ho sotto gli occhi un ritaglio del
quotidiano leghista "la Padania" in cui si tessono le lodi del sacerdote nazista
Jozef Tiso, presidente- fantoccio della Slovacchia hitleriana insanguinata da stragi e
deportazioni. Poiché fu condannato a morte dalla Cecoslovacchia comunista, "la
Padania" lo definisce "un martire per la nuova Europa". Caro Bossi, perché
non chiami "martire" anche Mussolini? Ci fu negli Anni Ottanta ci fu chi lanciò
lo slogan "meglio Lima che Bobbio". Non c'è mai limite al peggio: nel Duemila
forse sentiremo anche "meglio Tiso che Bobbio".