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Caro Lerner, perché tanto livore?

Giuliano Ferrara


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Questo articolo è apparso su Il Foglio (www.ilfoglio.it) del 15 novembre.

Chiosando il Bobbio di Buttafuoco, una versione spigliata e inedita del sacrario politicamente corretto in cui il filosofo era rintanato da anni, Gad Lerner ha scritto un pezzo un po’ piccino per la sua stazza professionale. Come mai? Oddio, un incidente della testa e della penna può succedere. Ma c’è un minuscolo e protervo mistero in questa défaillance, che sveleremo tra poche righe. Giancarlo Bosetti, sull’Unità, ha scritto un commento intelligente, spiritoso, leggero ma non frivolo; Massimo Salvadori e Giovanni De Luna hanno tenuto botta, sulla Stampa, con savoir faire e con una sincera attitudine critica; Marcello Veneziani sul Giornale ha fatto la sua parte con molta decenza intellettuale.

Nessuno ha negato, come ha fatto Lerner, vuoi la novità di tono vuoi il sapore ribelle di queste libertà che Bobbio si è preso alla sua bella età, parlando in prima persona con uno scrittore, Buttafuoco, che il maestro aveva cercato e al quale ha voluto affidare una straordinaria conversazione, non priva di ironia, tra "giovani fascisti" attraverso le generazioni passate sotto i ponti della storia. Nessuno si è messo di traverso o ha fatto lo scemo sul berlusconismo del Foglio, come la povera lepre marzolina e altri ostracizzatori malaccorti e meschini: tutti hanno letto, per una volta, le cose scritte, e le hanno liberamente commentate con spirito e senso civile del dialogo. Gad no.

Il pulcino di Ezio Mauro ha scelto subito di trattare Buttafuoco, il "neofascista", come non meriterebbe di essere trattato lui, il "lottacontinuista". Perchè, ed ecco il punto dolente, che inquieta e fa arrabbiare, il problema di Lerner non era il Bobbio di Buttafuoco, una banale questione di ortodossia laica e antifascista, ma il Buttafuoco di Bobbio.

Non credo si debba mettere in causa la gelosia professionale o l’invidia personale, sebbene la generazione dei Lerner e dei Maltese, o meglio la schiatta di quelli che gli assomigliano, pecchi di egolatria da insicurezza, sia incapace di ammirare e stimare il diverso e il senza-potere, non sappia davvero spendersi per distruggere né risparmiarsi per costruire alcunché. Intuiscono che il dilettantismo estetizzante di Buttafuoco è un pericolo per i loro patentini resistenziali, per il loro antifascismo malvissuto, per il loro odio politico mai sufficientemente consumato. E ne soffrono, cercando di mantenere segreto il loro dolore che però, di tanto in tanto, se ne esce in ascessi purulenti.

Non è solo pelle, ipocondria, la malattia incurabile della psiche umana da cui nessuno (tanto meno noi) può dirsi del tutto immune. C’è di più, c’è qualcosa di emendabile che appartiene a una vecchia cultura dell’appartenenza e della famosa religione civile dei progressisti, a una mentalità di cosca perbenista che sta soppiantando negli ultimi tempi la paciosa sensazione di una volta: quella di stare con tutte le scarpe, senza farsi troppe domande e provare troppe paure, nel terreno sicuro di un establishment che li coccola nell’autorevolezza della tradizione.

Ecco. Se un tipo tutto sommato intelligente e colto come Lerner si svuota la testa fino al punto di rimproverare a Buttafuoco, cercato e intervistato da Bobbio (ché questa è la chiave di quell’articolo del Foglio di venerdì scorso), uno spirito da guardone e da inquisitore, vuol dire che il mondo delle fiabe adolescenti gli sta crollando addosso. Vuol dire che la rivendicazione abusiva dell’eredità dei Mila e dei Foa, il complesso ultraedipico del liceo D’Azeglio e di Augusto Monti, non ha più quella forza di identificazione e rassicurazione che aveva una volta. Per questo ogni tanto tromboneggiano nella parte dei cattivi allievi di buoni maestri. Ma Buttafuoco non è Pitigrilli, e nessuno ha più tanta voglia di porgervi l’altra guancia ogniqualvolta rifilate una dose di olio di ricino in nome dell’antifascismo militante.

 

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