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Quando le identità non interessano più a nessuno

Federico Stame

 

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L’elemento innovativo che consentì all’Ulivo la vittoria nelle elezioni politiche del 1996 fu la combinazione virtuosa di proposta programmatica e di rinnovamento-trasformazione istituzione. L’opinione pubblica avvertì che la coalizione guidata da Prodi avrebbe innovato rispetto alla ormai consolidata e fatiscente "costituzione materiale" del paese e che il rapporto tra sistema delle istituzioni e opinione pubblica avrebbe goduto dell’apertura di nuovi canali di comunicazione.

Quella che Roberto Michels, agli inizi del secolo, chiamò la "ferrea legge delle oligarchie" è stata brutalmente ripristinata con la crisi del governo Prodi e con la nascita del governo D’Alema che ha reintrodotto la costituzione materiale della prima Repubblica. Governo di coalizione tra partiti e partitini, distribuzione dei Ministeri e dei Sottosegretariati a seconda dei rapporti di forza interpartitici, ribaltoni e ribaltini nelle Regioni con la logica dell’uno a me e uno a te; infine la formazione delle coalizioni alle elezioni amministrative e la designazione dei candidati Sindaci attraverso forti conflittualità e comunque caratterizzate da una ripresa dei poteri da parte dei partiti e delle loro dirigenze.

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Ciò ha precise ragioni materiali: l’apertura ad una rappresentanza più aperta all’opinione pubblica, la formazione di classi dirigenti espresse meno direttamente dai partiti, inducono processi di disoccupazione di massa nel ceto politico e di chi nel partito politico è nato e cresciuto. Nella stessa realtà provinciale bolognese vi sono stati più fenomeni di questo tipo.

Abbiamo così affrontato queste elezioni amministrative lasciando al centro destra il vantaggio, non recuperabile, di proporsi come lo schieramento che meglio interpretava le istanze di innovazione della politica e di rappresentanza di gruppi sociali emergenti. Bologna è stato il caso più importante (dato il valore simbolico dell’egemonia della sinistra di questa città) ed emblematico di questo errore.

Di fronte ad una oggettiva erosione dalla base sociale della propria egemonia politica, e ad una forzata omogeneizzazione delle proprie problematiche a quella delle altre città italiane, la classe dirigente della sinistra aveva a disposizione tante possibilità, fatta eccezione per quella di proporre - dopo una lacerante e "aperta al pubblico" frantumazione interna - una spenta espressione della burocrazia di partito e delle sue logiche ormai superate.

Purtroppo - nonostante gli avvertimenti di molte persone di buon senso - la scelta è stata proprio questa. E tale scelta ha coinvolto nella sconfitta anche coloro che - con ostinazione - continuano a credere che abbia ancora un senso la distinzione tra destra e sinistra. La vicenda di queste elezioni amministrative, in particolar modo del secondo turno dei ballottaggi, dimostra, ove ve ne fosse ancora bisogno, che è impossibile disgiungere qualsiasi prospettiva politica o contenuto programmatico da una seria innovazione sui contenuti partecipativi del nostro sistema democratico.

Mentre la gerontocrazia dei partiti di sinistra e dei partitini di centro continua ancora a discettare su forme di identità e di legittimazione che non interessano più a nessuno, e che nella loro concettualizzazione risalgono ad epoche nelle quali i giovani elettori di oggi non erano ancora nati, le classi dirigenti del centro sinistra restano avviluppate in una retorica di autolegittimazione che finirà per consegnare inevitabilmente alla destra la bandiera del nuovo.

Occorrerebbe uno scatto di reni. Ma la crisi democristiana e socialista del 1992 ha dimostrato quanto sia difficile, se non impossibile, un processo di riforma interna che non sia scatenato da una catastrofe esogena.

 

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