Letti per voi/Nell'inferno di Blace, dove le
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Massimo Nava
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Blace (Macedonia- Kosovo) - Questa valle, di prati e alberi sotto il
cielo azzurro, ha cambiato colore. Ha l'aspetto delle discariche che tengono lontani anche
i cani randagi, di un'immensa fogna in cui annegano, ora dopo dopo ora, migliaia di esseri
umani. Se crescerà ancora erba, sarà concimata di sangue, escrementi e virus.
Sopravvissuti e testimoni ne ricorderanno la nausea, per l'immondo scenario di agonia e
per le responsabilità di un doppio genocidio: quello perpetrato al di là della
frontiera, nei campi di battaglia del Kosovo, che inghiottono e vomitano le vittime della
pulizia etnica serba, e quello che si consuma sulla linea del fronte, dove il popolo
kosovaro è stritolato dai preparativi della Nato per l'invasione, da un Paese - la
Macedonia - che non vuole e non può accoglierlo, dall'organizzazione approssimativa di
soccorsi, la cui necessità nessuno aveva previsto. Basta resistere un'ora, tappandosi la
bocca, sentendosi in colpa perché non si può afferrare il braccio di chi urla e affoga,
per assistere al concitato trasporto di cadaveri, partorienti, vecchi, donne e bambini
stremati dalla fame e dalla dissenteria. Nessuna catastrofe umanitaria ha mai escluso
almeno una retrovia di soccorso e di salvezza. Per i kosovari, in fuga dalla guerra, dalle
bande paramilitari serbe, dai bombardamenti, dalla fame, da tutto ciò che sta assediando
città e villaggi spettrali e in fiamme, c'è soltanto quest'ultimo girone dell'inferno.

Migliaia attendono, ormai da sei giorni, di passare la frontiera,
trenta chilometri di auto e di lamiere infuocate, perché adesso il caldo e la polvere
sono arrivati a torturare i sopravvissuti alle notti di gelo. E decine di migliaia
aspettano, come larve, sotto teloni di plastica, accampati lungo il fiume, in territorio
macedone. Acque torbide dove le donne bagnano le labbra dei bambini. Tre hanno partorito,
l'altra notte, e sono morte con le loro creature, che almeno non sapranno nulla del
calvario di chi li ha messi al mondo.
Una lunga fila di pullman, rossastri e sgangherati, dovrebbe caricarne
qualche dozzina, portarli verso la tendopoli montata in fretta, durante la notte, dai
soldati italiani e inglesi, "dirottati" dalle esercitazioni e dai compiti
militari. Poche decine che scaricano tende e viveri, perché gli altri aspettano un ordine
d'attacco sempre meno probabile. Erano venuti qui per portare la pace, abbattere Milosevic
e salvare i kosovari dai massacri. Invaderanno cimiteri e terre desertificate, difesi dai
carri armati e dai soldati serbi. Il genocidio si è compiuto due volte: i treni per
Auschwitz sono partiti dal Kosovo, ma il lager è al di là di una frontiera sorvegliata
dall'Occidente.
Nella valle dei dannati circolano promesse che sembrano infierire sui
moribondi. Visti per l'Europa, giganteschi ponti aerei, corridoi umanitari. Menzogne,
almeno per ora, nel grande massacro del circuito informativo. Dai cieli percorsi dai
bombardieri, arrivano con i cargo militari tende e coperte, che saranno il sudario di
un'etnia cancellata.
Arrivano, dalle retrovie, anche tanti uomini e ragazzi, ma non è il
segnale di famiglie unite, almeno nell'agonia. I nuclei kosovari, tradizionalmente
numerosi, si sono divisi. Qualcuno è rimasto a combattere, qualcuno si è preso la
responsabilità di condurre i propri cari all'inferno, qualcuno è rimasto al villaggio,
nell'inutile tentativo di proteggere chi non poteva muoversi. Ai racconti delle angherie
subite da parte delle truppe serbe, si mischiano altre ragioni della fuga. Il sogno di
riorganizzare le file della guerriglia, la paura delle bombe, le leggi della
sopravvivenza, persino una sorta di "amnistia" decisa sul posto dai serbi:
"Lasciateci armi, divise, soldi e andatevene". Anche fonti indipendenti da
Pristina dicono che le esecuzioni, almeno in città, sarebbero poche: il
"progetto" è più ambizioso e perverso: sgomberare il Kosovo, scaricare tutto
il problema all'esterno, in particolare sui Paesi europei che ora avranno il dovere morale
di soccorrere ed ospit are.

Di certo, i kosovari non resteranno in Macedonia, salvo le diverse
migliaia accolte, in una commovente gara di solidarietà, da parenti e amici albanesi
residenti a Skopje. Il precario equilibrio demografico di un Paese coinvolto nella guerra
non può saltare, né trasformarsi in retrovia della guerriglia. Per questo, il cordone
sanitario predisposto dalle autorità funziona come un rubinetto guasto, che sgocciola da
una diga crollata. "Orrore", titola un giornale macedone. "E' tutto sotto
controllo", dicono i medici, forse accecati dai rivoli di escrementi, forse assordati
dai lamenti, forse stremati anch'essi dal trasporto di cadaveri e moribondi, dal concitato
rincorrersi di voci sempre più drammatiche: casi di colera, meningite, scabbia.
Pochi volontari, la Croce Rossa macedone, l'organizzazione islamica El
Hilal. La tendopoli a valle, che potrebbe ospitare qualche migliaio di disperati, è in
realtà un centro di smistamento verso altri quattro campi profughi sparsi sul territorio.
I pochi che vi arrivano, devono essere lavati, visitati, rifocillati e, soprattutto,
registrati, perché in Kosovo hanno lasciato anche l'identità: ventimila, in questi
giorni, meno del venti per cento di quanti aspettano lassù, sotto gli occhi della polizia
schierata.
I volontari si muovono con trattori e con le proprie vetture, zeppe di
pane e bottiglie d'acqua che vengono gettate sulla folla.
L'assenza di panico, di accaparramenti, di risse per la sopravvivenza
è una fitta al cuore. Sfiniti, ridotti a larve, i kosovari non hanno nemmeno forza per
lamentarsi, o forse sono i soli, nel grande spettacolo mediatico di questa guerra, ad aver
conservato la dignità del silenzio.
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